[AIB] Associazione italiana biblioteche. BollettinoAIB 2002 n. 2 p. 226-227
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RECENSIONI E SEGNALAZIONI


Henk J. Porck. Rate of paper degradation: the predictive value of artificial aging tests. Amsterdam: European Commission on preservation and access, 2000. 40 p. ISBN 90-6984-306-4. Eur 16,00.

Il rapporto (traduzione dell'autore dalla versione originale), è stato prodotto nel quadro del programma nazionale olandese Metamorfoze, volto alla conservazione del materiale librario, e testimonia ancora una volta il tempismo e la qualità degli interventi scientifici promossi dalla European Commission on preservation and access, la quale, pur senza emanare vere e proprie linee-guida, sta mettendo in atto una ricognizione a tutto tondo di tutte le tematiche connesse alle politiche di conservazione. L'autore è un biochimico, che ha già pubblicato nel 1996 per la ECPA un rapporto sulla deacidificazione (Mass deacidification: an update on possibilities and limitations). D'altra parte, il lavoro non è esclusivamente rivolto ai tecnici, anzi direi che rende perfettamente chiaro proprio ai "profani" lo stato dell'arte, e partendo da una rassegna della letteratura relativa ai test di laboratorio degli ultimi cinquant'anni ci mostra quanto sappiamo (e quanto non sappiamo) in tema di processi di deterioramento della carta.

Lo studio si prefigge di fare il punto sulle possibilità e i limiti che hanno oggi gli esperimenti di invecchiamento artificiale. Anticipiamo subito una delle raccomandazioni conclusive dell'autore, ovvero limitare l'uso del termine "invecchiamento" (aging) al solo processo naturale, e parlare piuttosto di artificially induced degradation (AID), per indicare la scelta e la riproduzione di determinate condizioni ambientali, in laboratorio, tali da produrre un misurabile deterioramento del materiale, in un lasso di tempo relativamente breve. Come dire che il limite maggiore di questo tipo di esperimenti consiste nel fatto che essi non equivalgono in tutto e per tutto all'invecchiamento naturale.

A partire dagli anni Cinquanta, quando divennero di uso relativamente corrente, a questi test - prevalentemente basati sull'esposizione della carta a un'elevata temperatura (80°-100° C) - ci si è rivolti essenzialmente per tre ordini di motivi: prevedere in anticipo il grado di deterioramento del materiale in condizioni normali, valutare gli effetti dell'impiego di trattamenti conservativi, studiare il processo naturale nelle sue reazioni fisico-chimiche. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, sono essi da ritenersi attendibili? Il rapporto introduce una serie di problematiche che tendono a mettere in discussione non soltanto il metodo, ma i suoi stessi presupposti: l'invecchiamento artificiale infatti, indotto agendo soltanto sulla temperatura, non considera la variabile dell'umidità relativa; e quanto alla temperatura, se ne dovrebbero testare valori diversi, perché è al suo variare che varia l'energia attivante le reazioni molecolari.

La stessa carta, in effetti, è una sostanza complessa, suscettibile di reagire differentemente ad una medesima sollecitazione in ragione di molteplici variabili intrinseche, come additivi, sbiancanti ecc. L'argomentazione scientifica è in grado comunque di coinvolgerci, richiamando alla mente alcune circostanze del lavoro corrente in biblioteca, ad esempio quando viene menzionata la diversa risposta ai test della carta in singoli fogli sciolti, rispetto alla carta in blocchi, la quale ultima (insomma, "formato libro"), sottoposta all'azione di agenti inquinanti, pare risulti significativamente più acida nella parte centrale del blocco; questo fenomeno (stack-versus-single sheet) secondo l'autore merita di essere studiato più a fondo, così come meriterebbero più attenzione esperimenti relativamente semplici, che scopriamo però essere stati finora poco perseguiti, quali quelli basati sul confronto tra coppie di libri identici, conservati in luoghi diversi e in diverse condizioni ambientali: potevamo immaginare, ad esempio, che un libro a New York si deteriora maggiormente che ad Amsterdam, per colpa dell'inquinamento? Forse sì, ma l'importante è conseguire informazioni dettagliate su quali sono gli agenti dannosi, in quale misura, e in presenza di quale percentuale di umidità relativa - sia per dedurne strategie di prevenzione che per progettare nuovi test ancora più attendibili.

Ma soprattutto, l'elaborazione di ipotesi e la loro verifica con gli strumenti della misurazione e dell'analisi dei dati andrebbero spostati, secondo il rapporto, dal terreno dei test d'invecchiamento artificiale a quello del confronto tra invecchiamento naturale e invecchiamento artificiale, essendosi rivelati fallaci i presupposti teorici di quest'ultimo, che di troppe variabili (e persino dell'eventuale insorgere di reazioni impreviste, assenti dal processo naturale) non tiene conto. Dovremmo inoltre rassegnarci ad attendere gli esiti di esperimenti condotti sul lungo termine, studiando più da vicino nel frattempo, retrospettivamente, proprio il fenomeno del lento degrado naturale, che alla prova dei fatti sembriamo conoscere ancora in grado insufficiente. Se così non fosse, aggiungerei tanto per fare un esempio, non avrebbero avuto ragione di essere le recenti polemiche che hanno scosso le biblioteche preposte alla conservazione sulle due sponde dell'Atlantico, in seguito all'uscita dell'ormai famoso volume di Nicholson Baker (Double fold: libraries and the assault of paper, New York: Random House, 2001).

Di contro a tanto dibattere, come dire, sui "fondamentali", Porck denuncia una sorta d'impasse negli studi specifici oggetto del rapporto, in mancanza di contributi alla discussione da parte dell'ambiente scientifico e bibliotecario: come se - azzarda - i responsabili delle politiche della conservazione fossero riluttanti a mettere in discussione scelte fatte in passato, magari proprio fidando nel valore predittivo di quegli stessi test i cui presupposti oggi vacillano; non a caso, la prima delle raccomandazioni finali è un invito a rilanciare il dibattito, dal confronto via Internet a un'auspicabile conferenza internazionale sull'argomento, eventualmente promossa dalla ECPA.

Una considerazione finale: il rapporto è stato prodotto, tra l'altro, per servire come base di discussione al gruppo di lavoro Archive and Library Conservation, costituito in seno al Netherlands Institute for Cultural Heritage (NICH) di Amsterdam. Cultural heritage, mi pare, non coincide perfettamente (né credo lo voglia) con il concetto di "beni culturali", cui si richiamano, in senso giustamente più ampio, i nostri apparati istituzionali; ed è invece locuzione che s'incontra frequentemente nel panorama delle istituzioni internazionali contemporanee, ed evidentemente denota un tipo di attenzione più mirata. Forse potremmo rifletterci su.

Paola Puglisi
Biblioteca nazionale centrale, Roma


N.B. Sorry, no English abstract is available.
Copyright AIB 2002-07-15, a cura di Giada Costa
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