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AIB. Gruppo di studio sulle pubblicazioni ufficiali

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Dalle pubblicazioni ufficiali alla documentazione di fonte pubblica: il ruolo delle biblioteche tra controllo bibliografico e diffusione dell'informazione

Roma, Biblioteca della Camera dei deputati, 23 ottobre 1998


Il controllo bibliografico delle pubblicazioni ufficiali tra passato, presente e futuro

Alberto Petrucciani e Paolo Traniello [1]

 

1. Il deposito legale dall'Editto Albertino al Regolamento organico delle biblioteche governative del 1885

L'Editto Albertino del 26 marzo 1848, immediatamente successivo alla concessione dello Statuto e destinato a restare in vigore come legge sulla stampa, pur con tutte le modifiche successivamente apportate, anche nell'ordinamento dello Stato unitario, regolava la materia del deposito legale in due distinti articoli.
L'art. 7 prescriveva la consegna di una copia di ogni stampato all'ufficio dell'Avvocato fiscale (che diverrà poi Procura del Regno), ai fini di un controllo giudiziario sulle pubblicazioni di carattere successivo, che presupponeva esplicitamente l'esercizio della libertà di stampa, con abolizione della censura preventiva.
L'art. 8 prevedeva la consegna di altre due copie: una agli Archivi di Corte, l'altra alla biblioteca dell'Università nel cui circondario era stata eseguita la pubblicazione.
Si trattava di un disposto che perseguiva in maniera coerente tre distinti obiettivi di controllo, rispettivamente giudiziario, documentario e culturale.

La legge 5 luglio 1865, n. 2337, sulla proprietà letteraria (con regolamento di esecuzione 12 marzo 1867) introduceva un'ulteriore forma di deposito legale, del tutto distinta da quella prescritta dalla legge sulla stampa, per finalità, identificazione del soggetto passivo dell'obbligo e modalità di consegna. Essa infatti prescriveva a chi desiderava garantirsi i diritti di proprietà letteraria (l'autore e/o l'editore ), di consegnare tre copie dell'opera alla Prefettura situata nella provincia di residenza; di esse una sarebbe stata trasmessa, tramite la stessa Prefettura, al Ministero di agricoltura, industria e commercio e un'altra alla «biblioteca principale del luogo». La consegna doveva essere accompagnata dal pagamento di una tassa piuttosto consistente.

Il decreto di riordino delle biblioteche governative del 1869 utilizza entrambe le leggi (sulla stampa e sulla proprietà letteraria) al fine del deposito presso la Nazionale di Firenze. L'art. 33 prevede infatti, alla lettera a), l'istituzione presso la Nazionale di una «biblioteca delle opere su cui siano stati riservati i diritti di proprietà letteraria, venendo ivi trasmessi gli esemplari depositati presso il Ministero di Agricoltura Industria e Commercio», mentre alla successiva lettera b ) prevede il deposito presso la stessa biblioteca «di tutte le produzioni esemplate nella vigente Legge sulla stampa, per cura dei Procuratori del Re, giusta le apposite istruzioni del Ministero di Grazia e Giustizia».

Le successive disposizioni sulla stampa confermano la tendenza ad attribuire alla Procura una funzione intermediaria per l'attuazione del deposito, che viene progressivamente a snaturare la ratio originaria dell'Editto Albertino, mentre il disposto del decreto di riordino basato sulla legge sulla proprietà letteraria non troverà, nella pratica, concreta attuazione.

Una circolare del Ministero di grazia e giustizia del 30 gennaio 1880 stabilisce il deposito di una copia, tramite gli uffici del Pubblico Ministero, al Ministero di grazia e giustizia, il quale, detrattane le opere che interessino la biblioteca del Ministero stesso, avrebbe provveduto a trasmetterla alla Biblioteca nazionale di Roma, mentre l'art. 4 del Regolamento delle biblioteche governative del 1885 si limita a stabilire che «Le due biblioteche nazionali di Firenze e di Roma, per conseguire il loro fine, debbono raccogliere e conservare ordinatamente tutto quello che si pubblica in Italia e che esse ricevono in virtù della legge sulla stampa».

Al termine di questa rapida carrellata sulla legislazione ottocentesca relativa al deposito legale, possiamo trarre la conclusione che l'istituto del deposito si è di fatto sviluppato sulla sola base della legislazione sulla stampa e, in riferimento all'Editto Albertino, valorizzando esclusivamente l'art. 7 e la funzione della Procura.

La legislazione sulla tutela del diritto d'autore, che avrebbe potuto esercitare un ruolo determinante, ha finito invece per diventare irrilevante ai fini del deposito.
Le conseguenze sono:

2. Gli strumenti di controllo bibliografico

Una osservazione preliminare: le disposizioni in materia di deposito sopra esaminate sembrano avere prodotto, almeno fino al 1886 (avvio del Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa), risultati assai scarsi.
Per limitarci ad una sola, ma autorevole attestazione, possiamo ricordare quanto dichiarato alla Camera da Ruggiero Bonghi nella tornata di discussione del bilancio della Pubblica istruzione del 1º giugno 1878:

Essendo andato alla Biblioteca Nazionale di Firenze, [...] ho voluto vedere alla Biblioteca Nazionale di Firenze, la quale ha per legge una copia di tutte le pubblicazioni senza che sia tolta alla procedura generale, se questo servizio procedeva bene. Ora posso dire che procede malissimo, perché la maggior parte dei libri non arrivano alla Biblioteca Nazionale di Firenze, ed essa deve scoprirne la pubblicazione per mezzo dell'elenco fatto dal Loescher coll'aiuto del Ministero dell'istruzione pubblica, e scoperto il libro pubblicato, cominciare una questione per riuscire ad avere il libro che le si sarebbe dovuto mandare. Questione la quale molte volte non si riesce a risolvere.

Il riferimento del Bonghi, almeno nella forma riportata dagli Atti parlamentari, è alquanto sommario e impreciso, ma serve assai bene ad introdurre il discorso sui primi strumenti di controllo bibliografico, basati, almeno indirettamente, sul deposito legale.

L'accenno ci rimanda infatti alla Biblioteca d'Italia, pubblicata a Firenze da Ermanno Loescher in collaborazione con i fratelli Bocca dal 1867 al 1869 su comunicazioni fornite dal Ministero dell'istruzione pubblica, che faceva seguito all'Annuario bibliografico italiano, prodotto dallo stesso Ministero tra il 1863 e il 1864.
Dal 1870 la pubblicazione assumerà il nuovo titolo di Bibliografia italiana (lo stesso del periodico dello Stella, uscito a Milano dal 1835 al 1846), e diverrà organo della prima associazione libraria-editoriale italiana, costituita con sede a Firenze e con la denominazione di Associazione libraria italiana.
Dopo che nel 1875 l'Associazione aveva trasferito la propria sede a Milano, la rivista assumerà il titolo di Giornale dell'Associazione tipografico-libraria italiana compilato sui documenti comunicati dal Ministero dell'istruzione pubblica.
La redazione di questo strumento bibliografico, nelle sue varie fasi, era comunque caratterizzata da una procedura assai singolare, come osserva implicitamente il Bonghi, dal momento che le informazioni fornite dal Ministero erano basate a loro volta sulla segnalazione dei libri pervenuti (o che avrebbero dovuto pervenire) alla Nazionale di Firenze; si aveva, in altri termini, una sorta di commistione tra una pubblicazione ai fini privati di informazione editoriale e commerciale e quella che chiameremo oggi, appunto, "documentazione di fonte pubblica".

Certamente a questo ultimo tipo di pubblicazioni appartiene la prima bibliografia nazionale corrente pubblicata sulla base del deposito legale, vale a dire il Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa, avviato sulla base del Regolamento delle biblioteche statali del 1885 e continuato fino al 1957 (nel 1958 avrà inizio, come è noto, la Bibliografia nazionale italiana.)
Nel 1968, la parte per autori e titoli del Bollettino è stata fusa nei 41 volumi del Catalogo cumulativo1886-1957, comunemente noto come CUBI, a cura del Centro nazionale per il catalogo unico delle biblioteche italiane; si tratta evidentemente, anche in questo caso, di pubblicazione di fonte pubblica.

Per quanto attiene altre forme di controllo bibliografico di provenienza pubblica, dobbiamo almeno ricordare il Catalogo metodico degli scritti bibliografici e critici contenuti nelle pubblicazioni periodiche italiane e straniere realizzato in forma di spoglio dalla Biblioteca della Camera dei deputati dal 1855 al 1944 relativamente ai periodici da essa posseduti (dal 1951 un'analoga iniziativa verrà assunta, con il Bollettino bibliografico, dalla Biblioteca del Senato).

Nel campo delle iniziative di carattere privato si deve alla già menzionata Associazione tipografico-libraria la fondazione, nel 1888, del Giornale della libreria, nonché varie edizioni del Catalogo collettivo della libreria italiana e, soprattutto, la pubblicazione, a partire dal 1901, del Catalogo generale della libreria italiana del Pagliaini, che costituisce con i primi tre volumi (1847-1899), soprattutto per la parte non toccata dal Bollettino di Firenze, il repertorio di riferimento della produzione editoriale italiana del secolo scorso, fino alla recente realizzazione di CLIO da parte dell'Editrice Bibliografica.

3. Il controllo bibliografico delle pubblicazioni di fonte pubblica tra Otto e Novecento

Fino ad ora abbiamo considerato alcuni strumenti di controllo bibliografico che costituiscono essi stessi pubblicazioni di fonte pubblica. Ma le stesse pubblicazioni di fonte pubblica possono essere oggetto di controllo bibliografico, con alcune precisazioni.
Occorre a mio avviso distinguere il documento prodotto dalla pubblica amministrazione (testo di una legge, di un atto amministrativo, di una sentenza), che costituisce in sé stesso espressione di un'attività pubblica e come tale è soggetto a procedimenti di conservazione e organizzazione documentaria che attengono piuttosto al campo archivistico, dalle vere e proprie pubblicazioni, che possono contenere anche documenti di questo tipo ma hanno una vera e propria veste editoriale e una funzione comunicativa (giornali ufficiali, atti parlamentari, resoconti di attività amministrative, ecc.).
Sotto questo secondo aspetto questi documenti costituiscono pubblicazioni ("libri", nel senso esteso del termine) e non dovrebbero essere sottratti alle procedure di controllo bibliografico. Ancora più chiaro è il caso delle pubblicazioni edite da amministrazioni pubbliche ma assimilabili sotto ogni aspetto ai libri di carattere generale (atti di convegni, studi e ricerche, ecc.).

Nella legislazione italiana di origine ottocentesca relativa al deposito legale, che fa da base al controllo bibliografico pubblico, il problema è ulteriormente complicato dalla mediazione che abbiamo visto essere stata attribuita a un organo di carattere giudiziario (la Procura) ai fini del deposito.
Da questo punto di vista poteva certamente apparire non del tutto naturale, anzi addirittura bizzarro, per un editore che pubblicasse documenti provenienti dall'attività della pubblica amministrazione, procedere al deposito tramite la Procura del Regno, data la funzione preminente di controllo giurisdizionale e di promozione dell'azione penale che quest'organo comunque e in primis possedeva.
Né, d'altra parte, poteva esercitare un effetto particolarmente incentivante l'altra strada inizialmente seguita per l'attuazione del deposito, quella legata al diritto di autore, non sussistendo in questo campo una vera necessità di tutela della proprietà letteraria.

Non stupisce, quindi, che per quanto riguarda la presenza delle pubblicazioni di fonte governativa nelle biblioteche pubbliche del Regno si siano pensate, fin dall'inizio, strade diverse da quelle basate sul deposito legale, così come questo istituto si andava nel contempo delineando.
Così, ad esempio, nella lettera del ministro Bargoni al conte Luigi Cibrario che accompagna il decreto di nomina della Commissione che da questi prende il nome (24 luglio 1869), si legge:

E finalmente bisognerà pure provvedere al modo con cui le pubblicazioni del Governo debbono essere distribuite alle biblioteche. In qualcuna di esse - prosegue immediatamente la lettera - potrebbe forse la Commissione suggerire che si raccogliessero tutte le pubblicazioni della stampa italiana, delle quali il Governo riceve per legge da ogni editore una copia [allusione alla legge sulla proprietà letteraria] di cui potrebbe disporre ad uso pubblico.

Come si vede i due problemi sono trattati distintamente, sia pure in stretta connessione tra loro.
La medesima impostazione si ritrova nelle conclusioni della Commissione, dove, accanto alla proposta di costituire alla Nazionale di Firenze una biblioteca speciale delle opere stampate in Italia, costituita con gli esemplari ricevuti per legge, vi è pure quella al Governo «di disporre perché la Raccolta ufficiale delle leggi, le pubblicazioni governative, gli atti del Parlamento siano distribuiti regolarmente alle biblioteche pubbliche».
Proposta che viene recepita nel decreto di riordino del 1869 che all'art. 14 recita «Per cura del Governo ogni Biblioteca governativa dovrà possedere: La raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti; gli Atti del Parlamento; le Pubblicazioni della statistica ufficiale; ed ogni altra pubblicazione governativa», mentre le disposizioni sul deposito legale alla Nazionale di Firenze sono contenute in tutt'altro titolo del decreto (il VII, riguardante le "disposizioni regionali", precisamente all'art. 33).

Nei successivi Regolamenti organici del 1876 e 1885, nei quali prevale decisamente il carattere burocratico e minuziosamente prescrittivo delle funzioni interne delle biblioteche stesse, di questo tipo di materiale non vi è più menzione.
Possiamo quindi limitarci a segnalare che il Regolamento del 1885 afferma all'art. 2 che le due Nazionali centrali «raccolgono tutte le pubblicazioni che veggono la luce in Italia», facendo subito riferimento, all'art. 4, allo strumento del deposito legale tramite la legge sulla stampa. Lo stesso regolamento dispone all'art. 63 che «le opere e le riviste già possedute o quelle che si riceveranno per compra o dono dai laboratori, gabinetti, musei, scuole speciali dipendenti da un'università governativa, fanno parte della biblioteca pubblica dell'università»; quest'ultima disposizione si riferisce evidentemente a un tipo particolare di pubblicazioni, quelle a carattere scientifico, che possono comunque essere fatte rientrare nella categoria di quelle che qui ci interessano.

Per individuare uno strumento direttamente rivolto al controllo delle pubblicazioni comunque edite dallo Stato o con il suo concorso bisognerà attendere il R.D. 20 giugno 1929, n. 1058, che, approvando il Regolamento sui servizi del Provveditorato generale dello Stato, istituisce presso il Provveditorato stesso l'Archivio delle pubblicazioni edite dallo Stato, inserendo in tal modo il problema del controllo di questo tipo di pubblicazioni in una tematica di tipo archivistico.
Sulle vicende di questo archivio e sulla sua situazione attuale di "pressoché totale abbandono" rimandiamo a quanto è stato recentemente scritto con molta efficacia da Fernando Venturini [2].

4. Il controllo bibliografico delle pubblicazioni di fonte pubblica oggi

Se già le problematiche del controllo bibliografico delle pubblicazioni e del deposito legale sono complesse, particolarmente scivoloso è l'ambito delle pubblicazioni ufficiali o comunque di fonte pubblica, in cui è molto difficile trovare dei punti di riferimento sicuri o dei confini ben determinati.
Gli accordi raggiunti nella maggiore sede professionale internazionale, l'IFLA, escludono in sostanza la possibilità di utilizzare proficuamente, per la definizione delle pubblicazioni ufficiali, criteri di contenuto o - per essere più precisi - che facciano comunque riferimento alla tipologia degli atti e dei documenti (in senso giuridico, quindi, piuttosto che biblioteconomico).
Allo stesso modo, escludono in pratica la possibilità di ricorrere, per delimitare il campo, a un'identificazione precisa della funzione editoriale (ossia alla distinzione fra pubblicazioni di cui l'ente pubblico sia editore in proprio, o coeditore, oppure committente, oppure svolga altri ruoli).
Ancora, le raccomandazioni internazionali riconoscono in pieno l'enorme difficoltà di definire cosa sia un official body, o meglio - dato che una definizione c'è ed è molto articolata - di determinare con certezza e utilmente chi rientri nella categoria e chi no (almeno sul piano internazionale, ma a mio parere anche su quello nazionale).
Infine, viene lasciata completamente aperta anche la questione di cosa costituisca una "pubblicazione", includendo qualsiasi forma di riproduzione in più copie e successiva diffusione che non si esaurisca completamente all'interno dell'ente stesso. Ed è facile notare che se già lo sviluppo delle tecnologie della riproduzione ha comportato la proliferazione di prodotti documentari cartacei in una vastissima zona "grigia", le tecnologie informatiche e telematiche stanno producendo una rivoluzione nell'informazione e nella comunicazione (per cui si è parlato suggestivamente di trasformazione del concetto di "letteratura grigia" in quello di "editoria istituzionale in rete" [3]) che mette in crisi distinzioni di portata anche più ampia, per esempio tra oggetti di trattamento archivistico e oggetti di trattamento bibliografico, o fra documentazione prodotta (interna) e documentazione acquisita (esterna).

Per tutta questa analisi, sia detto per inciso, ci rifacciamo ovviamente al prezioso lavoro di documentazione e di analisi compiuto dal Gruppo di lavoro sulle pubblicazioni ufficiali, alla raccolta di materiali che ha messo a disposizione e ad altri contributi del suo coordinatore, Fernando Venturini, e dei suoi membri.

A queste premesse dovremmo aggiungere - ma non è qui possibile - almeno un abbozzo di analisi del problema dei servizi bibliografici nazionali nel loro complesso, analisi che ci pare evidenzierebbe un fenomeno tipico del nostro paese, ossia l'estrema complessità e farraginosità del quadro, che vede un groviglio indistricabile di competenze certe o pretese, una grande quantità di attori e di procedure (rimando, come esempio relativo proprio alle pubblicazioni ufficiali, all'esauriente panorama fornito da Vilma Alberani nel volumetto dell'Enciclopedia tascabile [4]), e nello stesso tempo, non casualmente, una sostanziale irresponsabilità per i risultati.
Per fare un esempio volutamente semplificato, nelle attuali cinque (ma talora anche sette o otto) copie di deposito legale, una sola (e solo per una piccola parte della sua vita) ha una chiara funzione nell'ambito dei servizi bibliografici nazionali, quella su cui viene redatta la registrazione della Bibliografia nazionale italiana. Tutte le altre (e perfino quella dopo la sua registrazione in BNI) svolgeranno anche funzioni socialmente (biblioteconomicamente?) utili, ma non funzioni relative al controllo bibliografico di livello nazionale.

Venendo dopo queste premesse al nocciolo dei problemi affrontati oggi, bisogna per prima cosa confessare che non appare realmente persuasiva l'ipotesi di un controllo bibliografico separato delle pubblicazioni ufficiali, in presenza di alcune consistenti ragioni in contrario, naturalmente da sottoporre a una più precisa verifica empirica.

Innanzitutto, l'estrema varietà dell'editoria pubblica (definita, seguendo l'IFLA, come tutta quella in cui sia formalmente coinvolto un ente di natura pubblica o sovvenzionato con denaro pubblico), al di là del "nocciolo" costituito da bollettini ufficiali e pubblicazioni analoghe che svolgono sostanzialmente una funzione giuridica di "notificazione" di provvedimenti, e pur con i molti dubbi sulla possibilità di formulare per essa (come ha tentato il Gruppo) una stima quantitativa, fa ritenere che ci si trovi di fronte ad una presenza pubblica (o semipubblica) che è sicuramente importante e interessante ma così pervasiva e indeterminata da non costituire elemento di discriminazione praticabile e/o funzionale.
Per fare un solo esempio da un campo che conosco abbastanza bene per esperienza bibliografica (quella della Letteratura professionale italiana del Bollettino AIB e della sua cumulazione elettronica, BIB: Bibliografia italiana delle biblioteche, del libro e dell'informazione), non vi sono soluzioni praticabili, e soprattutto non vi sono soluzioni significative (ossia non meramente formalistiche) per distinguere le pubblicazioni di un Comune (e dei suoi assessorati, settori, servizi, ecc.) da quelle della relativa Biblioteca civica, oppure quelle dell'Ufficio centrale per i beni librari da quelle delle biblioteche statali. Ossia, in termini generali, fra quanto proviene da uffici dell'amministrazione (quella centrale dello Stato o quelle locali) e quanto proviene da istituzioni culturali di carattere pubblico. E parrebbe quasi che la presenza editoriale pubblica si concentri (sempre escluso il "nocciolo" puramente amministrativo) nei settori più "atipici" della pubblica amministrazione, più lontani dal suo nucleo autoritativo, sia quanto ad articolazioni interessate (biblioteche, musei, uffici studi, ecc.) che ad ambiti tematici (cultura, arte, bibliografia, storia, economia e problemi sociali, settori tecnici).

Anche dove non vi sia il problema di tracciare un confine fra official bodies e unofficial bodies, la pertinenza di una distinzione fra pubblicazioni di fonte pubblica e pubblicazioni che non lo sono ai fini del controllo bibliografico pare estremamente dubbia. Limitandosi a un solo esempio: probabilmente gran parte di noi si è avvicinata alla storia del libro con il Profilo storico di Francesco Barberi, edito dall'Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche.
Per non restare solo all'interno del campo bibliotecario e bibliografico, si può citare un altro caso, la storia di Genova (e lo stesso discorso vale per tante altre località), per lo studio della quale molte delle pubblicazioni di uso corrente sono in varia misura interne all'editoria pubblica: dal Comune (ma anche dalla Provincia e dalla Regione) alla Società ligure di storia patria, da numerose articolazioni dell'Università all'Istituto Mazziniano, dalla Biblioteca statale (Universitaria) alla Camera di commercio.

La presenza pubblica, quindi, permea l'editoria, e soprattutto quella di studio (a cui sono principalmente finalizzati il controllo bibliografico e i servizi connessi), e dove esistono - soprattutto per prassi consolidate - separazioni di canali bibliografici (non per pubblicazioni di enti come quelli che ho citato, ma per esempio per quelle dell'Istat o di alcuni ministeri) ciò si traduce in un danno per gli studi, per la maggiore difficoltà di individuazione e accesso a pubblicazioni che costituiscono una fonte primaria molto importante per i più diversi settori di studio e che purtroppo sono invece spesso praticamente utilizzabili solo per cerchie ristrette o con notevoli sforzi.
E questo limite, qualche volta avvertito dagli stessi produttori, può contrastare, a nostro parere, con una caratteristica fondamentale della biblioteca, in quanto luogo che mette a disposizione del pubblico non solo ciò che è facilmente raggiungibile nei canali del consumo di massa, ma tutta la tipologia di fonti, primarie e secondarie, ufficiali e commerciali, di documentazione e di consumo, dato che in fondo ciò che definisce l'information poor non è l'utilizzazione di canali informativi diversi (la televisione la vedono anche gli information rich) ma l'accesso solo a quelli di massa.

D'altra parte, se esaminiamo l'altro lato della distinzione, ossia l'editoria "non pubblica", dobbiamo riconoscere una presenza non trascurabile di produttori che sarebbe forzato far rientrare nell'"industria editoriale" come ramo dell'imprenditoria. Ci riferiamo ai tanti settori in cui la funzione editoriale non è primaria ma secondaria, la mission dell'ente non è generare profitti da un'industria fra tante bensì realizzare finalità culturali e scientifiche utilizzando l'attività editoriale come mezzo di maggiore diffusione e/o di recupero dei costi di quanto prodotto: editoria di partiti, associazioni, "tendenze", editoria universitaria e di ricerca, anche tanta piccola editoria di carattere letterario o saggistico. Questa componente può non avere un peso rilevante nel giro d'affari dell'editoria, ma sicuramente contribuisce in larga misura al complesso della produzione libraria, considerata in termini di titoli e di novità. Anche per le particolarità economiche del libro come bene (evidenziate per esempio nello studio della Fondazione Agnelli [5]), non è casuale né irrilevante che il settore nel suo complesso sia costituito da un "nocciolo" di impresa e da un vastissimo contorno di presenze diverse, dove la prima può anche costituire l'80% del fatturato complessivo ma in un contesto ben diverso dalla classica produzione di beni di consumo di massa.

La presenza pubblica in questo quadro, almeno in Italia, non è sicuramente un corpo estraneo, bensì un elemento costitutivo di un ecosistema (così come, per inciso, è la presenza dell'impresa - banche e non, che pure sarebbe interessante analizzare - o quella dei gruppi di pressione e di tendenza).

In questo quadro, il problema del controllo bibliografico dell'editoria anche "a presenza pubblica" e dei servizi connessi potrebbe forse essere più utilmente affrontato su un piano globale, complessivo. A livello generale (e ancora, per ragioni di tempo, con una battuta) è difficilmente comprensibile che, per esempio, con un Ministero per i beni culturali e ambientali che conta un migliaio di bibliotecari e aiutobibliotecari, si debba pensare a forme di cooperazione per la catalogazione di poche decine di migliaia di titoli all'anno, che venti o trenta persone potrebbero tranquillamente descrivere in maniera completa e tempestiva nell'interesse di tutto il paese. Ciò non toglie, naturalmente, che un'Agenzia per i servizi bibliografici nazionali, auspicabilmente di natura privata, possa poi articolarsi sul territorio e anche concludere accordi reciprocamente vantaggiosi con altri attori con i quali esistano possibili sinergie (e innanzitutto risparmi nella duplicazione di lavoro). E ha poca importanza se questi possibili partner si chiamino Camera dei deputati e Consiglio nazionale delle ricerche o invece Mondadori e Casalini.

D'altra parte, se i nostri servizi bibliografici nazionali non godono ottima salute, nonostante i notevolissimi passi avanti compiuti dalla Bibliografia nazionale italiana negli anni Novanta, non avrebbe prospettive più luminose l'idea di un coordinamento al livello della produzione, anche solo in ambito statale. Non appare proponibile, insomma, un'ipotesi che assomigli al progetto di razionalizzazione tentato negli anni Venti (Provveditorato generale dello Stato, Poligrafico, Archivio delle pubblicazioni dello Stato, ecc., compreso il progetto di un numero di serie unitario), quando ormai da tempo in pratica - lo notava già diversi anni fa Cassese - non solo ogni Ministero, ma ogni Direzione generale è una repubblica indipendente, e l'amministrazione pubblica tutta procede sulla strada di una sempre maggiore autonomia delle sue articolazioni, che gestiscono liberamente le proprie risorse in funzione del raggiungimento di obiettivi. E del resto questo modello unitario sembra in sempre maggiori difficoltà anche laddove esistono strutture statali assai più coese ed efficienti (come in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti).

Se è certo difficile ottenere sempre il rispetto delle leggi da parte della stessa pubblica amministrazione, ci sembra che una delle attuali frontiere del classico principio secondo il quale "la legge è uguale per tutti" sia proprio l'applicazione uniforme, a operatori/attori privati e pubblici (compreso il sempre più importante "terzo settore"), di norme generali sulle pubblicazioni (in commercio e no, su supporto cartaceo e no), così come avviene o dovrebbe avvenire, per esempio, riguardo a igiene e sicurezza del lavoro, rifiuti ed emissioni inquinanti, ecc.
In altre parole, ci sembra che gli sforzi andrebbero concentrati essenzialmente su un sistema di controllo bibliografico omogeneo, rivolto a tutti i tipi di pubblicazioni e sostenuto da appropriate norme generali di legge, vincolanti sia per il pubblico che per il privato. Le pubblicazioni di qualsiasi genere prodotte da enti pubblici, infatti, non sembrano praticamente né utilmente distinguibili dalle altre, e cercare di limitare il campo di norme specifiche a quelle sole di carattere strettamente amministrativo appare estremamente arduo da un lato e di scarsa utilità dall'altro, visto che bisognerebbe comunque riuscire ad applicare le norme generali per tutte quelle che strettamente amministrative non sono.
Questo naturalmente non vuol dire che iniziative specificamente rivolte alle pubblicazioni di carattere strettamente amministrativo non siano utili e opportune, per alleggerire e nello stesso tempo rendere più efficiente il sistema del controllo bibliografico, ma sulla base di accordi di cooperazione piuttosto che di norme legislative specifiche, come già accade, per esempio, per serie speciali della Bibliografia nazionale italiana.

In questo quadro, naturalmente, resta valido e da sottoscrivere il richiamo alle responsabilità dell'ente pubblico sia dal punto di vista dell'informazione da diffondere (e da quello dell'accesso pubblico) sia da quello della memoria storica da salvaguardare. Quest'ultimo caso, del resto, è analogo a quello degli archivi degli editori, risorsa di primissimo interesse ma non direttamente connessa al controllo bibliografico: da questo punto di vista esistono già molti esempi positivi di cataloghi storici prodotti da Regioni (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, ecc.), Province, Comuni, e da alcuni uffici statali (Presidenza del Consiglio dei ministri, Ministero per i beni culturali e ambientali, ecc.).

Se il controllo bibliografico dell'editoria pubblica e la diffusione dell'informazione ad essa relativa contribuiscono comunque, nelle forme ad essi proprie, al diritto dei cittadini di conoscere l'azione dell'amministrazione pubblica, verrebbe da dire però che a rivestire il maggiore interesse dal punto di vista del cittadino sia quest'ultima considerata direttamente, ossia gli atti che possono riguardarlo, al di là dei loro eventuali contenitori editoriali e delle forme e canali attraverso i quali sono registrati e diffusi.

5. Comunicazione e diritto all'informazione

Per concludere, possiamo cercare di introdurre, al di là delle distinzioni relative alle varie forme di pubblicazioni e alle loro diverse funzioni, qualche considerazione che concerne il rapporto tra le attività di informazione attribuibili all'istituzione bibliotecaria e lo sviluppo della democrazia amministrativa.

Possiamo prendere lo spunto dal modo in cui la conoscenza delle norme viene considerata nei diversi ordinamenti, o meglio, nei diversi quadri interpretativi del fenomeno giuridico, a loro volta dipendenti, per così dire, dallo spirito dell'ordinamento a cui essi si riferiscono.
Orbene, negli ordinamenti di derivazione romanistica vige, come principio generale, quello dell'onere per il singolo soggetto di conoscere le norme che regolano il suo possibile comportamento e gli effetti giuridici di esso. Si tratta di una impostazione fondamentalmente autoritativa, nella quale la legge è vista come comando che deve essere certo e preciso proprio per poter essere eseguito e la cui conoscenza, nonostante i problemi di estrema complessità che può presentare, è posta totalmente a carico del soggetto obbligato, singolo o collettivo.
Anche per questa via si spiega l'enorme proliferare di leggi, spesso di carattere prevalentemente interpretativo, in tutti i settori, nonché l'importanza decisiva che il tecnico del diritto (non solo l'avvocato, ma ad esempio il commercialista, il notaio, il consulente fiscale) viene ad assumere anche al di fuori delle controversie, al solo fine di orientare correttamente l'azione giuridicamente rilevante.
Altrettanto può dirsi per i rapporti con la pubblica amministrazione, che sono regolati da un fittissimo intrico di disposizioni che devono essere osservate spesso ai fini della stessa validità dell'atto, come sa bene chi abbia avuto a che fare in modo appena più che elementare con l'apparato burocratico.

La complessità legislativa e amministrativa, come pure quella giudiziaria, può dirsi in larga misura un riflesso dell'attuale complessità sociale ed è di conseguenza propria degli ordinamenti di tutti gli stati evoluti. Tuttavia, rispetto allo schema sopra delineato, si può ritenere che il sistema della common law introduca principi di minore rigidità, che si traducono, ad esempio, in un numero tendenzialmente minore di precetti legislativi e in una maggiore dialettica tra potere pubblico e cittadino nel determinare gli effetti della legge o delle decisioni giurisprudenziali sul comportamento dei singoli e dei gruppi.

In quest'ottica, l'impatto del diritto sul comportamento sociale può essere considerato, soprattutto dal punto di vista della sua efficacia, entro un quadro rappresentabile in termini di comunicazione. Si aprono a questo proposito questioni di cui appare evidente l'interesse e l'importanza, che vanno da problemi che concernono i temi più tradizionali, come i modi della pubblicazione di leggi e sentenze, a quelli relative alla chiarezza e alla specificità delle norme, all'uso dei diversi possibili canali informativi (basti pensare alla circolazione stradale), fino alle tematiche più vaste e più complesse concernenti la conoscenza giuridica.

È poi interessante osservare come il problema della comunicazione delle norme possa venire considerato anche nell'aspetto del "ritorno", cioè dei messaggi non più a carattere discendente, dall'amministrazione ai soggetti obbligati, ma ascendente, vale e a dire da questi ultimi all'amministrazione che ha emesso la norma o il comando: messaggi che possono assumere l'aspetto specifico della richiesta di delucidazione o di maggiore informazione.

Il riferimento a questo tipo di osservazioni e di riflessioni può avere un notevole rilevo ai fini di una maggiore democratizzazione della vita pubblica, in particolare dei rapporti amministrativi, anche nel nostro paese. Esso implica infatti il riconoscimento del principio che il problema della conoscenza degli atti delle pubbliche amministrazioni e delle prescrizioni che essi implicano non vada più posto esclusivamente a carico del cittadino, ma debba invece comportare una precisa responsabilità della stessa amministrazione.
Si tratta, d'altra parte, di un principio che ha già incominciato ad avere, anche nel nostro ordinamento, alcuni importanti riconoscimenti legislativi. Il riferimento di base è evidentemente costituito dalla legge n. 142 del 1990 sulla così detta "trasparenza amministrativa"; essa garantisce ai cittadini, all'art. 7, il diritto di accedere alle informazioni in possesso della amministrazioni locali e agli atti amministrativi da queste poste in essere, ad eccezione di quelli riservati sulla base di una espressa indicazione di legge o per una temporanea e motivata dichiarazione del sindaco o del presidente della giunta provinciale.
Va notato che l'art. 7 citato è inserito nel capo III della legge, dedicato agli "istituti di partecipazione"; ciò vale a configurare il diritto di accesso alle informazioni e ai documenti delle pubbliche amministrazioni da parte dei cittadini come momento essenziale di una democrazia partecipata, alla quale si può bene applicare la nozione di "comunicazione" per descrivere i rapporti tra potere pubblico e cittadini.

In questo quadro assume evidentemente una importanza determinante l'individuazione di una struttura che sia in grado di garantire nel modo più efficace possibile l'accesso all'informazione e ai documenti di fonte pubblica di cui parla la legge. La norma sopra citata rimanda tale individuazione a specifiche disposizioni regolamentari.
Tuttavia, perché ciò possa effettivamente aver luogo producendo risultati di rilievo nella vita pubblica, non bastano le dichiarazioni di principio e neppure le norme basate sull'istituto tradizionale e in questo caso del tutto inadeguato del deposito obbligatorio presenti in diverse leggi bibliotecarie regionali. Occorre invece un vero inserimento della gestione dell'informazione e della documentazione nell'attività amministrativa dell'ente e un preciso legame di questo settore con il concreto funzionamento in termini di servizio informativo di una agenzia specifica che può essere certamente identificata nella biblioteca pubblica.

 

 

[1] Questa relazione è nata come un dialogo fra i due autori, che partivano da premesse piuttosto differenti, e ne mantiene in qualche modo la forma. In particolare, si devono a Paolo Traniello i par. 1-3 e 5, ad Alberto Petrucciani il par. 4.

[2] Fernando Venturini, I periodici ufficiali, in: La stampa periodica romana durante il fascismo, a cura di Filippo Mazzonis, Roma: Istituto nazionale di studi romani, 1998, p. 259-278.

[3] Cfr. Maria Luisa Ricciardi - Marc Willem, L'informazione comunitaria in linea: bianca o grigia?, «Bollettino AIB», 36 (1996), n. 4, p. 423-435.

[4] Vilma Alberani, Pubblicazioni ufficiali italiane, Roma: Associazione italiana biblioteche, 1995. (ET: Enciclopedia tascabile; 7).

[5] Francesco Silva - Marco Gambaro - Giovanni Cesare Bianco, Indagine sull'editoria: il libro come bene economico e culturale, Torino: Fondazione Giovanni Agnelli, 1992.


Copyright AIB 1999-03-07, ultimo aggiornamento 1999-08-07, a cura di Fernando Venturini e Elena Boretti
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