[AIB]

53º Congresso nazionale AIB

Le politiche delle biblioteche in Italia
La professione

Roma, Centro congressi Europa
Policlinico universitario "A. Gemelli"
18–20 ottobre 2006


Programma 53º Congresso AIB

Introduzione.  Scenario legislativo e processi sociali della nuova organizzazione del lavoro

Patrizio Di Nicola
Università degli Studi di Roma "La Sapienza"

 


 

1.   Perche tutti chiedono la flessibilità?

La risposta potrebbe sembrare scontata: perché serve.
Serve ai lavoratori, che tramite orari flessibili, recuperi nell'arco della settimana o del mese possono conciliare meglio vita lavorativa e tempo privato. Oggi, addirittura, tramite le tecnologie si può rendere flessibile (ad esempio con il telelavoro) anche il luogo ove viene svolta la prestazione lavorativa. Serve anche alle aziende, che possono calibrare meglio l'output accordandolo alla domanda. Ma quanto è generico parlare di flessibilità? In realtà a questa parola possiamo dare più significati.

2.   Quante flessibilità?

Possiamo distinguere tre diversi aspetti della flessibilità. È possibile infatti parlare di flessibilità numerica, funzionale e di remunerazione. La prima consiste fondamen-talmente nel "calibrare" la quantità di occupati tenendo conto della situazione congiunturale della domanda. I metodi per ottenere la flessibilità numerica sono molti, ma tutti basati, almeno sino al 1990, sull'uso di lavori atipici (a termine, part-time, ad interim, ad obiettivo). A partire da quella data aumenta invece il ricorso anche alla flessibilità in uscita, cioè alla possibilità di licenziare i lavoratori anche senza giusta causa, al fine di bilanciare meglio i profitti e la massa salariale.

L'impresa flessibile adotta una organizzazione del lavoro che le permette di adoperare estensivamente i lavori non standard allo scopo di mantenere sempre il giusto numero di dipendenti, qualsiasi siano le fluttuazioni della domanda. Deve inoltre operare in un sistema politico che gli garantisca una discreta libertà nei licenziamenti. Ma questo apre il problema di tutelare i lavoratori espulsi anzitempo dal ciclo produttivo, cosa che può avvenire o con un anello di protezione inteso ad attenuare gli effetti economici della disoccupazione, anche se di lunga durata (sistemi di welfare passivi) o a attivare meccanismi per il reingresso rapido nel lavoro del disoccupato (politiche attive).

La flessibilità funzionale, al contrario di quella numerica, si basa sulla adattabilità dei lavoratori per far fronte a modifiche qualitative delle richieste di mercato, oppure indotte dalla tecnologia o da cambiamenti nelle strategie aziendali. Tale forma di flessibilità dipende strettamente dalle abilità e dalla volontà cooperativa dei lavoratori (involvment, commitment). È evidente che questo coinvolgimento si possa ottenere più facilmente da persone che lavorano da più tempo nell'impresa, che hanno con essa un patto stabile. Anche se, nell'ultimo decennio, si assiste sempre più spesso all'esclusione dal ciclo produttivo di lavoratori che si situano nell'ultimo decennio di vita lavorativa, rimpiazzati con giovani portatori di conoscenze migliori sulle nuove tecnologie, e arruolati con contratti atipici. Anche qui serve un patto con i governi, che in qualche modo debbono pagare le spese della riduzione della vita lavorativa dei lavoratori espulsi.

Seconde la teoria classica cui ci ispiriamo il terzo aspetto della flessibilità, quello legato alle retribuzioni, può essere considerato "di supporto" ai primi due, in quanto in grado di differenziare tra di loro i lavoratori sulla base delle prestazioni individuali anziché della qualifica [1]. Ma negli anni più recenti la flessibilità retributiva è andata assumendo sempre maggiore importanza, soprattutto grazie all'esistenza di modelli contrattuali fortemente squilibrati sotto tale profilo, a all'ampio ricorso a modelli di produzione globalizzati che spostano le catene di montaggio nei paesi asiatici o in Messico.

Questo modello di impresa flessibile scaturisce da un modello messo a punto dall'Institute for Manpower Studies a metà degli anni Ottanta. Secondo l'IMS l'azienda flessibile è costituita da un nucleo centrale (core group) di lavoratori garantiti e tutelati che assicurano la flessibilità funzionale. Per Atkinson (1986, p. 14) essi sono generalmente maschi, lavorano a tempo pieno con un contratto di durata illimitata, sono portatori di professionalità considerate strategiche per l'azienda e non risultano immediatamente sostituibili in caso di defezione. Attorno al nucleo centrale si snodano due anelli di forza lavoro definiti periferici ed esterni. Il primo anello, che ha il compito di assicurare la flessibilità numerica, è costituito da dipendenti che svolgono lavori di routine, non critici dal punto di vista aziendale e quindi facilmente rimpiazzabili. L'aggiustamento alle condizioni di mercato è assicurato all'azienda dal rapporto di lavoro di cui essi sono detentori: part-time, contratti a termine, job sharing, interim. Non a caso è costituito principalmente da lavoratori giovani e da donne. Il gruppo più esterno è anche il più eterogeneo: in esso possiamo trovare, ai due estremi, sia addetti alla pulizia che consulenti di altissimo livello. La caratteristica del gruppo è di essere detentori di abilità (o disabilità) professionali che l'azienda non intende possedere al proprio interno, ma di cui non può fare a meno. A secondo della tipologia del lavoro svolto (nonché delle condizioni del mercato) gli "esterni" possono essere utilizzati per incrementare la flessibilità numerica o per supportare il core.

Ai diversi tipi di lavoratori corrispondono anche diverse metodologie formative e di arricchimento delle conoscenze professionali: per i lavoratori centrali la formazione fa parte dell'attività lavorativa, per quelli periferici vige l'on job training, tipicamente svolto nell'azienda a spese della collettività; il gruppo esterno, infine, non ha alcun supporto formativo, anche se in alcuni casi la loro possibilità di lavoro è legata all'altissimo livello di know-how posseduto [2].

3.   America, Europa, paesi socialisti

Se volgiamo lo sguardo ai decenni passati, parlando di flessibilità del lavoro emergevano tre modelli ben precisi, geograficamente caratterizzati: quello americano, quello europeo, quello dei paesi ad economia socialista (di questi ultimi soltanto la Cina e Cuba ancora resistono). Legato al grado di flessibilità vi è la diversa concezione dello Stato.

Negli Usa il non intervento – o quantomeno l'intervento minimo – dello Stato negli affari del cittadino, e quindi anche nel lavoro, ha caratteristiche storiche, che costituisce patrimonio comune sia con i governi democratici che con quelli conservatori. All'origine di ciò possiamo porre il pensiero politico di Hobbes e di Locke. Hobbes (Il Leviatano, 1657) afferma che lo stato di natura dell'uomo è la guerra di tutti contro tutti (Bellum omnium contra omnes), e che ogni uomo è lupo per gli altri uomini (homo homini lupus).

Nello stato naturale ognuno ha diritto su tutti, ogni uomo aspira a soverchiare il suo prossimo, i desideri di potere di ogni uomo si sovrappongono e si scontrano inevitabilmente. Ciò che può porre un limite a questa situazione di anarchia è il patto sociale che porta inevitabilmente alla costituzione di uno Stato sovrano. Attraverso un patto sociale gli uomini rinunciano quindi alla loro assoluta libertà individuale e si affidano ad un uomo o ad un gruppo di uomini che li possano guidare, cancellare il caos e facendo confluire le molteplici volontà in una sola volontà.

Dunque, secondo Hobbes, si pone fine alla guerra di tutti contro tutti solamente assoggettando la volontà dispersa dei molti in un'unica volontà sovrana ed asssoluta, ma lo stato diventa il Leviatano, il mostro biblico, un Dio mortale appena al di sotto del Dio immortale.

Secondo Locke (Two Treatises of Government , 1690) esiste una legge di natura che è la ragione stessa, quella ragione di cui parlava anche Hobbes. È la ragione che insegna agli uomini la fondamentale uguaglianza, cioè che nessuno deve danneggiare la vita degli altri. Nello stato di natura essa è la sola legge valida, perciò la libertà degli uomini sta nel non sottostare ad alcuna volontà ma al solo rispetto della norma naturale. Il diritto naturale dell'uomo coincide pertanto con i seguenti tre diritti: diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà.

La pace fra gli uomini nello stato di natura è per Locke concepibile ma precaria e, per evitare lo stato di guerra che si potrebbe generare se qualcuno ricorresse alla forza per ottenere il controllo sulla vita e sulle cose degli altri, gli uomini si pongono in società ed abbandonano lo stato di natura. Ma la formazione di uno stato non toglie al singolo quei diritti che godeva allo stato di natura. Infatti gli uomini si organizzano in comunità proprio per conservare e tutelare questi diritti. Lo stato, nato con questi precisi limiti, è diverso da quello concepito da Hobbes che, come si è visto, è assoluto. Quindi la diversa concezione dello stato di natura fa si che il contratto non dia origine ad un potere assoluto, ed esso venga stipulato dai cittadini come atto di libertà, diretto a mantenere e garantire la libertà stessa. Data la natura del contratto in Locke, i cittadini conservano il diritto di ribellarsi allo stato quando questo diventa tiranno e trascende i limiti che gli sono stati imposti al momento della fondazione.

All'estremo opposto i regimi ispirati al socialismo reale: il lavoro è un obbligo del cittadino, in quanto, come recita la costituzione bolscevica del 1918 [3], «Chi non lavora non mangia». Ma allo stesso tempo quella stessa costituzione aboliva la proprietà privata, riportava allo stato la proprietà di tutti i mezzi di produzione e della terra, e poneva così le basi per un sistema economico statale privo di competizione e di produttività, che alla lunga avrebbe portato il lavoro a divenire una punizione. La costituzione cinese del 1982, mentre introduceva la proprietà privata, afferma che «lo stato, attraverso vari canali, crea le condizioni per l'impiego, rafforza la protezione nel lavoro e migliora le condizioni di lavoro, e inoltre, sulla base dello sviluppo della produzione, eleva le retribuzioni del lavoro e il trattamento assistenziale» (art. 42). Ne discende che «Il lavoro è un dovere glorioso per tutti i cittadini che ne abbiano le capacità. I lavoratori delle imprese statali e delle organizzazioni economiche collettive in città e campagna, hanno il dovere di comportarsi verso il proprio lavoro con l'atteggiamento di padroni dello stato. Lo stato favorisce l'emulazione socialista nel lavoro, premia i lavoratori modello e progrediti. Lo stato favorisce la dedizione dei cittadini al lavoro d'obbligo». Fortunatamente l'articolo successivo stabilisce che «I lavoratori della Rpc hanno diritto al riposo. Lo stato sviluppa impianti per il riposo e per il ristoro dei lavoratori, determina la durata del lavoro e l'ordinamento di vacanze per impiegati-operai» (art. 43).

Il problema della flessibilità, quindi, non si pone neanche: è lo stato che gestisce il mercato del lavoro, sulla base di considerazioni di utilità generale.

Ma l'introduzione di logiche di mercato capitalistiche, in questi due paesi, avvieneoggi su misura di forme "flessibili" ormai inaccettabili nei paesi occidentali: non sembra un caso che Naomi Klein, in NO LOGO [4], parla diffusamente del lavoro nelle zone di libero scambio della Cina (ma ne esistono anche in Indonesia, Filippine, Messico e molti altri paesi), ove le aziende funzionano senza alcuna interferenza esterna, né sono obbligate al rispetto di normative e contratti. La descrizione delle condizioni di lavoro in questi paesi, dove si può arrivare a 100 ore settimanali di lavoro in condizioni spaventose, è la parte più interessante e più utile nel libro. I lavoratori ricevono un salario di sussistenza e spesso è obbligatorio lo straordinario non retribuito. La maggior parte della forza lavoro in queste aziende è costituita da giovani donne, emigrate da altre province, che vengono considerate facilmente dominabili ed incapaci di organizzarsi. Citiamo la Klein:

I gruppi sindacali concordano sul fatto che un salario che consenta di vivere a un operaio cinese che lavora alla catena di montaggio dovrebbe aggirarsi intorno a 87 centesimi di dollaro all'ora. Negli Stati Uniti e in Germania, dove le multinazionali hanno chiuso centinaia di stabilimenti tessili per trasferire la produzione nelle zone industriali di esportazione, i lavoratori del settore dell'abbigliamento ricevono in media, rispettivamente, 10 e 18,50 dollari all'ora. Ma nonostante gli enormi risparmi sui costi del lavoro nelle zone franche, i fornitori che producono articoli per i marchi più noti e ricchi del mondo si rifiutano di pagare ai lavoratori cinesi gli 87 centesimi che potrebbero consentire loro di coprire il costo della vita, combattere le malattie e mandare un po' di denaro alle famiglie. Uno studio del 1998 sulla produzione di articoli firmati nelle zone franche cinesi ha indicato che Wal-Mart, Ralph Lauren, Ann Taylor, Esprit, Liz Claibome, Kmart, Nike, Adidas, J.C. Penney pagavano solamente una parte di quei miserabili 87 centesimi: alcuni pagavano addirittura 13 centesimi all'ora.

Per capire in che modo società multinazionali ricche e che presumibilmente si attengono alle leggi riescano a ricreare una situazione da 1800 con livelli di sfruttamento indicibili (e venire ripetutamente pizzicate) bisogna considerare il meccanismo del subappalto. A ogni livello d'appalto, subappalto e lavoro a domicilio, i produttori cercano di abbassare sempre di più il prezzo e si prendono una piccola fetta del profitto. In fondo a quest'asta al ribasso vi è il lavoratore, spesso a tre o quattro livelli più in basso in termini di appalti e subappalti rispetto alla società che ha piazzato l'ordine originale, e la sua paga è stata erosa a ogni passaggio. "Quando le multinazionali spremono i subappaltatori, i subappaltatori spremono a loro volta i lavoratori", riferisce una relazione del 1997 sulle fabbriche di scarpe Nike e Reebok in Cina. [p. 193].

Dice Antonio Polito su «Repubblica» del 13 marzo 2000: «Non a caso le 'corporation' mantengono un assoluto e pudico segreto su dove si produce ciò che finisce nelle vetrine dei nostri negozi. Il principio fordista, secondo il quale il lavoro umano non solo produce cose, ma anche i salari necessari a comprare quelle cose, è lì completamente ribaltato».

Ciò introduce un primo importante indizio: nei paesi di nuova industrializzazione le grandi corporations sembrano cercare soltanto la flessibilità salariale, che secondo la logica europea dovrebbe essere di mero supporto e subordinata alla flessibilità funzionale e a quella numerica.

4.   Flessibilità "buona" e flessibilità "cattiva"

Se osserviamo la storia della contrattazione collettiva aziendale in Italia dall'inizio degli anni Novanta [5], vediamo che essa segue due fasi distinte: sino al 1993 i sindacati si interessano per lo più di flessibilità "interna" alle imprese, o di "buona flessibilità". Si stipulano, per i lavoratori dipendenti in forza dell'unità produttiva, accordi per aumentare le turnazioni, per lavorare al sabato (ma non alla domenica), nascono i calendari annuali che rendono i mesi elastici per seguire meglio la stagionalità della domanda. Le ore lavorate in più vengono di solito retribuite con pagamenti aggiuntivi e con il recupero in altri periodi dell'anno o in giorni della settimana lontani dal week end. A richiesta dei lavoratori, si introduce la flessibilità in ingresso o in uscita e la possibilità di recuperare le ore non lavorate non nella stessa giornata, ma bensì durante la settimana o il mese seguente. Le aziende, dal canto loro, ottengono spesso la programmazione delle ferie e la programmazione di alcune giornate di fermo produttivo.

Forme di flessibilitè [diagramma]

A partire dal 1994 compaiono i contratti destinati ad essere applicati agli esterni anziché agli interni, e qui la flessibilità diventa meno "buona". Si introducono turni speciali e il lavoro alla domenica o durante i week end, mentre iniziano a farsi strada contratti per nuove assunzioni a termine e part time. A partire dal 1997, con la legge Treu, compaiono in azienda i lavoratori interinali. Chi è dentro, insomma, inizia a farsi attento alla flessibilità dell'impresa, ma a spese di chi dovrà entrare in azienda. Non sempre le cose filano lisce: all'ATM di Milano, il più grande sindacato si rifiuta di firmare un accordo che riduce le giornate di ferie dei nuovi assunti, ma ormai la strada è aperta, e il sindacato sempre di più si trova coinvolto nella contrattazione della flessibilità, soprattutto di quella degli altri.

I lavoratori, insomma, hanno di fatto sposato la logica corrente, ed accettato che il lavoro andava flessibilizzato anche oltre la funzionalità della mansione, e sono scesi nell'arena della flessibilità numerica e salariale.

Nello stesso tempo le imprese hanno cercato di limitare quanto più possibile le forme di flessibilità verso le quali avevano minore interesse. Nel periodo 1984-1994 la contrattazione dell'orario di lavoro, che interessava il 73% dei contratti stipulati, passa a meno del 15%.

Orario nei contratti di lavoro, periodo
1984/1994 [istogramma]

Una ricerca condotta da chi scrive nel 2003 su un campione di piccole e medie imprese dell'Emilia Romagna [6] conferma che la flessibilità degli orari (in ingresso e in uscita) interessa soltanto 18 aziende su 100, e non per tutti i lavoratori, ma per gruppi selezionati, quasi si trattasse di un benefit. Quelle stesse imprese, invece, utilizzano nel 74% dei casi contratti di lavoro flessibili: le tipologie più frequenti sono i contratti di formazione lavoro, seguiti a breve distanza dalle collaborazioni coordinate e continuative, dal part-time e dai contratti a tempo determinato.

Ma a questi lavoratori viene sempre chiesto di operare tra le mura dell'azienda: le imprese italiane che fanno uso della flessibilità spaziale permessa dalle nuove tecnologie (telelavoro) rimangono sempre pochissime.

Naturalmente non è detto che la flessibilità abbia conseguenze economicamente negative: Paolo Sestito, in un bel libro dedicato al mercato del lavoro [7], ricorda che le forme flessibili di impiego, e in particolare il part time, sono responsabili dei 4/5 dell'aumento occupazionale avutosi tra il 1995 e il 2000.

E naturalmente avere un mezzo lavoro (per mezza giornata, come avviene nel part time, o per alcuni mesi all'anno come avviene nel lavoro interinale) è meglio che non averne.

Ma la domanda che ci poniamo è: perché solo alcune forme di flessibilità, in particolare quella che permette di disfarsi in fretta dei lavoratori e di pagarli il meno possibile, si sono affermate e non altre? Perché i giovani debbono perdere speranza in un lavoro a tempo indeterminato? Perché i cinquantenni con un contratto a vita vengono sostituiti (spesso con incentivi all'uscita sontuosi) con dei co.co.co ventenni?

Ma com'è successo che l'ideologia della flessibilità all'americana abbia vinto così a mani basse?

5.   La marcia della flessibilità

Come Accornero fa notare nel suo ultimo libro San Precario lavora per noi [8], la marcia della flessibilità non data al noto "pacchetto Treu" (legge 196/1997), ma viene da molto più lontano. L'impianto garantista del diritto del lavoro inizia con la legge 264/1949, che attribuisce allo Stato il compito di gestire domanda e offerta di lavoro, e viene ulteriormente rafforzato nel 1960 (legge 1369) vietando i subappalti di manodopera (pratica questa diffusa nell'edilizia e tra le cooperative). Ma la flessibilità fa capolino subito dopo: nel 1962, con la legge 230, si consente "in via eccezionale" l'assunzione a termine. In particolare la citata legge (art. 1) afferma che [9]:

Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate.

È consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto;

a) quando ciò sia richiesto dalla speciale natura dell'attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima;

b) quando l'assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, semprechè nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione;

c) quando l'assunzione abbia luogo per la esecuzione di un'opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale;

d) per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi sia continuità di impiego nell'ambito dell'azienda;e) nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi;

f) quando l'assunzione venga effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti, e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell'organico aziendale che, al 1º gennaio dell'anno a cui le assunzioni si riferiscono, risulti complessivamente adibito ai servizi sopra indicati. Negli aeroporti minori detta percentuale può essere aumentata da parte delle aziende esercenti i servizi aeroportuali, previa autorizzazione dell'ispettorato del lavoro, su istanza documentata delle aziende stesse. In ogni caso, le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui alla presente lettera.

La legge di cui sopra rimarrà in vigore sino al 2001, allorquando verrà abrogata in quanto in contrasto con la Direttiva CE 70/1999, che liberalizza il contratto a termine: «È consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» [10]. Ma tra il 1962 e il 2001, le casistiche che abilitano al ricorso al lavoro a termine aumentano in continuazione, grazie a successivi decreti ed accordi sindacali.

Nel 1984 la legge 863 introduce varie innovazioni nel senso della flessibilità del lavoro: la riduzione dell'orario per evitare i licenziamenti tramite speciali contratti di solidarietà (art. 1), il part time (art. 2), i contratti di formazione lavoro (art. 3), e la chiamata nominativa per la metà degli assunti (art. 6). Poi, nel 1991, la chiamata numerica venne definitivamente soppressa e la possibilità di "scegliersi" il lavoratore divenne la normalità). È chiaro, quindi, che il pacchetto Treu, e la successiva legge Biagi si installano in un solco già arato, in parte allargandolo, in parte deviandolo.

Il citato libro, tra l'altro, avanza l'ipotesi che il fenomeno della precarietà in Italia sia più percepito che rilevato. In pratica, vi sarebbe un sensibile scostamento tra precarietà effettiva e timori della stessa. Secondo Accornero i dati statistici e le ricerche confermano che l'area dei lavoratori a rischio di precarietà non supera, comunque li si vogliano contare, il 14% del totale degli occupati, ed è quindi in linea con le medie europee. Ed essere a rischio non significa automaticamente diventare precario: molti lavoratori flessibili, dopo una prima occupazione a termine, transitano nelle fila dei lavoratori a tempo indeterminato. Il paese davvero campione di flessibilità, come noto, è la Spagna, ove i lavori a termine, dopo la cura dei governi conservatori, interessano un terzo degli occupati. Ma nonostante ciò sono proprio gli italiani quelli che ai sondaggi esprimono la minore sicurezza rispetto al posto di lavoro: appena il 58% degli occupati si sente stabile nell'occupazione, mentre in Europa sono il 69%. Per Accornero la sovra-rappresentazione della precarietà dipende da due cause: da una parte lo "smontaggio" dell'apparato garantista, costruito nel dopoguerra, del lavoro subordinato, che ha portato, nel giro di pochi anni, a mettere in soffitta la centralità del contratto a tempo indeterminato e del sistema pubblico di collocamento (che magari collocava pochi, ma dava pari opportunità a tutti), con relativa proliferazione delle tipologie contrattuali non standard, arrivate ormai con la legge Biagi, tra tipi puri e varianti, ad oltre 40.

Dall'altra parte vi è il fatto, nota Accornero, che le nuove forme di lavoro sono state introdotte senza un adeguato sistema di tutele che garantisse i lavoratori flessibili. In definitiva, se si vuole che la flessibilità diventi davvero una opportunità e non una trappola, qualcuno dovrà farsi carico delle sue conseguenze sociali ed umane, dando sicurezza ai lavoratori flessibili. Se ciò non accadrà, conclude Accornero, «il post fordismo potrebbe andare in crisi perché ha portato all'estremo la flessibilità».

6.   Le ricette per mitigare la flessibilità

Il dibattito attualmente in corso in Italia sul superamento della legge Biagi (ma come detto, è ingiusto attribuire alla legge 30 la colpa della precarizzazione del lavoro: semmai il suo torto è di aver confuso le carte moltiplicando gli strumenti contrattuali, inventandone di nuovi inattesi ed inutilizzabili, ruota a mio avviso attorno a un punto centrale: qual'è il punto di bilanciamento tra chi sostiene (come ad esempio Tiraboschi, ed altri) che la legge non va cambiata (o almeno non in modo sostanziale), ma semmai ne vanno mitigati gli effetti introducendo un sistema di tutele e di welfare per i lavoratori flessibili, e coloro (sostanzialmente l'ala sinistra dello schieramento di governo attuale) che invece ritengono indispensabili modifiche legislative intese a limitare la possibilità per le aziende di ricorrere al lavoro flessibile, soprattutto in forme che precarizzano il lavoratore.

A mio avviso, qualsiasi soluzione non potrà che partire dalla considerazione che le mancate tutele dei lavoratori flessibili non costituiscono un errore, una dimenticanza del legislatore, di destra e di sinistra. Chi scrive avanza un differente scenario, datato sin dagli anni Ottanta, che parte dalla richiesta di maggiore competitività delle aziende, per soddisfare la quale, senza troppe spese di ammodernamento dell'apparato produttivo del paese, si doveva operare sui costi della manodopera. Non essendo praticabile la riduzione delle retribuzioni né degli oneri sociali sui padri (gli occupati erano tutelati da forti sindacati in competizione tra di loro e quindi molto ricettivi alle proteste) si è deciso di agire sui figli (cioè i giovani in cerca di prima occupazione). Questi, anziché rimanere per anni nel limbo della ricerca di un lavoro con regole simili a quelle dei genitori, avrebbero dovuto trasformarsi in forza lavoro scolarizzata e a costi bassi.

Il processo è iniziato concretamente con la riforma delle pensioni (legge 335/1995) allorquando, introducendo il fondo del 10% per i lavoratori parasubordinati, si sono sdoganati i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, che erano sino ad allora oggetto di molte cause intentate dall'INPS che ravvedeva in questa tipologia occupazionale il tentativo dei datori di lavoro di mascherare il lavoro dipendente, evadendo gli obblighi contributivi. Che il fondo fosse realmente in grado di erogare anche una pensione degna di tale nome non sembra ancora garantito, nonostante l'incessante aumento dell'aliquota su cui tutti i governi successivi hanno insistito. Spesso, solo per fare cassa in occasione delle leggi finanziarie.

A seguire, nel decennio successivo, si sono introdotti, tutto sommato senza reale opposizione sociale, nuovi tipi contrattuali con tutele decrescenti, che hanno interessato di fatto esclusivamente i giovani, e in particolare i laureati, come gli stage formativi. I dati Almalaurea del 2005, ad esempio, confermano che a un anno dalla laurea hanno un contratto a tempo indeterminato solo il 47% dei maschi e il 33% delle donne [11]. A questo va aggiunto che il ricorso al lavoro flessibile è stato ampiamente utilizzato anche dalla pubblica amministrazione – in passato tipicamente un datore di lavoro ad alte garanzie contrattuali – che ha trovato così il modo per superare il blocco delle assunzioni spendendo anche di meno. Secondo l'Aran [12] nel 2002 le pubbliche amministrazioni hanno attivato 86.745 rapporti di collaborazione coordinati e continuativi, ai quali vanno sommati altri 74.395 lavoratori assunti a termine, con contratto di formazione lavoro o tramite agenzie interinali. In totale, oltre 160 mila persone, pari al 7% del personale del comparto. Oggi, secondo stime di parte sindacale, i lavoratori flessibili superano il 10% del personale, e a volte hanno contratti rinnovati da più anni, e quindi sono tutt'altro che occasionali.

Luciano Gallino [13] auspica una flessibilità sostenibile, in quanto ormai è troppo tardi per disfarsene. La precarietà ha ormai colpito tutti. Se questa è la flessibilità del presente, argomenta il sociologo torinese, il mondo del lavoro dovrà in fretta sapersi riconquistare nuove tutele e nuove sicurezze, dovrà inventarsi una flessibilità appunto sostenibile. Individuato lo scopo, il sociologo indica almeno cinque itinerari per raggiungerlo: 1) fare in modo che la perdita, anche ripetuta, di un posto di lavoro non sia vissuta come un trauma, ossia come un passo verso l'esclusione definitiva dal mercato del lavoro; 2) evitare che dalla precarietà dell'occupazione consegua anche l'instabilità della vita privata; 3) dare continuità e progressione a profili di carriera discontinui; 4) ridare consistenza su nuove basi all'idea di "luogo di lavoro" come luogo di identità personale e integrazione sociale; 5) attenuare le diseguaglianze di genere, età, zona geografica di fronte alla flessibilità.

Chi scrive è convinto che il lavoro atipico, in definitiva, venga usato – nonostante i tentativi di addolcire la pillola – anzitutto perché costa poco e fornisce manodopera docile, ricattabile e scolarizzata. E ciò rende altamente improbabile che una ricetta di espansione delle tutele sociali possa seriamente essere presa in considerazione dai governi, almeno a breve scadenza.

Ma questo modello di flessibilità è negativo sia per i lavoratori, che soffrono del precariato, sia per le imprese, in quanto portano solo risparmi economici sulla manodopera che potrebbero rivelarsi effimeri (in quanto surclassati dalle nazioni del Far East). Meglio sarebbe puntare a forme di flessibilità positiva, come ad esempio la conciliazione dei tempi, che generano maggiore soddisfazione dei lavoratori, e potrebbero portare alle imprese guadagni ben più consistenti in termini di produttività, innovazione e qualità dei servizi prodotti. In fin dei conti che lavoro di qualità svolgono i Call center che assumono e licenziano ogni mese? O quanto può essere soddisfatto e ben disposto verso l'azienda chi lavora in uno stesso posto da cinque anni, con un contratto rinnovato ogni sei mesi? E cosa succederà se tra un anno, in piena ripresa economica, il lavoratore che abbiamo a contratto da anni se ne andrà perché ha finalmente chi gli offre un impiego a tempo indeterminato? La flessibilità è una scelta ragionata degli imprenditori o una autosuggestione indotta? Chi può dimostrare che sia davvero un buon affare licenziare un buon impiegato di cinquant'anni, dargli una buonuscita di 500 mila euro e sostituirlo con un collaboratore a progetto laureato di 25 anni da sostituire dopo dodici mesi?

Oggi esiste tra le aziende un mantra della flessibilità. Uso la parola Mantra non a caso: come sappiamo il Mantra è una potente e breve formula che secondo i credenti, ripetuta all'infinito, ha la capacità di trasformare la coscienza. Se ci ipnotizziamo da soli, finisce che quello che ci vogliono far credere diventa vero... E molti imprenditori, come buona parte dei politici, degli accademici e di chi conta sono ormai ipnotizzati e credono davvero – a volte persino in buona fede – che l'attuale modello di flessibilità sia, se non l'unico possibile, almeno il migliore.

 


Note

[1]   Va notato, per inciso, che differenziali retributivi di tal genere sono accettati, stando ad una indagine condotta nel 1985-86 dalla Comunità europea nei dodici paesi membri (Eurostat, 1987), con favore dal 56% dei lavoratori dipendenti. Ma, al contempo, con grandi variazioni dovute al paese di residenza, al sesso (le donne sono meno favorevoli degli uomini) ed alla funzione svolta nell'organizzazione.

[2]   Si pensi, ad esempio, ai manager "in affitto".

[3]   <http://www.marxists.org/history/ussr/government/constitution/1918/>.

[4]   N. Klein, No logo, Milano: Baldini & Castoldi, 2001.

[5]   A. Accornero – P. Di Nicola, La flessibilità e gli orari di lavoro, a cura di G. Galli, Roma: SIPI, 1996, I, p. 297-358.

[6]   F. Della Ratta Rinaldi – E. Como – P. Di Nicola, e-GAP – Workpackage 1: Survey. Italian Case, February 2003.

[7]   P. Sestito, Il mercato del lavoro in Italia, Bari: Laterza, 2002.

[8]   A. Accornero, San Precario lavora per noi, Milano: Rizzoli, 2006.

[9]   <http://www.di-elle.it/Leggi/62-230.htm>.

[10]   <http://www.di-elle.it/Leggi/Dlgs368-2001.htm>.

[11]   <http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/>

[12]   Aran, Il lavoro flessibile nella pubblica amministrazione e nella autonomie locali, Roma: ottobre 2004.

[13]   L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Bari: Laterza, 2001.


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