[AIB]AIB Notizie 5/2002
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Wu Ming: liberi di copiare

intervista a cura di Giuliana Zagra

Wu Ming, "colui che non ha nome", autore di 54, è un nome collettivo che ben rappresenta le intenzioni degli autori che lo sostanziano.
I loro nomi anagrafici infatti non sono un segreto, basta tra l'altro aprire il sito www.wumingfoundation.it per conoscerli, semplicemente non hanno alcuna importanza: ciò che Wu Ming vuole evidenziare con la sua scelta è che l'accento va posto su "ciò che è scritto" piuttosto che sulle individualità di "chi scrive". L'autore è, più che altro, un "riduttore di complessità" in quanto esemplifica e rappresenta idee e contenuti che appartengono a tutti e che l'intera società contribuisce a produrre. In questo senso è assurdo applicare il concetto di proprietà privata alla cultura e non è giusto impedire o limitare la riproduzione di opere letterarie e artistiche. Perciò sui libri firmati dal gruppo è detto a chiare lettere che ne è consentita la riproduzione. Una posizione radicale certamente provocatoria e con implicazioni scomode, che forse non avrebbe avuto particolare eco, se questo stesso gruppo di autori non avesse pubblicato già nel 1999 uno dei romanzi di maggior successo, e sicuramente tra i più appassionanti, dell'editoria italiana degli ultimi anni, Q, firmato questa volta con un altro multiple name: Luther Blisset.
Attualmente del collettivo letterario Wu Ming fanno parte i quattro autori di Q (e sulla filiazione non ci sono dubbi dal momento che è espressa direttamente nella quarta di copertina di 54), membri storici del Luther Blissett Project, a cui si è aggiunto, in corso d'opera, un quinto scrittore che fra l'altro risulta essere, col nome di Wu Ming 5, l'autore (unico o in ogni caso principale) di Havana Glam (e chissà che questo non semplifichi in parte il lavoro dei catalogatori).
Ce n'è abbastanza, tra questioni di copyright, di intestazioni e di rinvii catalografici, passando per il complesso tema della proprietà intellettuale, per alimentare il dibattito e far parlare i bibliotecari.
Noi abbiamo posto alcune domande direttamente a Wu Ming.

Cosa pensate della recente legge sul diritto d'autore che impedisce anche nelle biblioteche la riproduzione di testi in commercio per oltre il 15%? Può essere questo un modo effettivo per tutelare gli autori e per favorire il mercato del libro e di conseguenza la lettura?
La lettura si favorisce permettendo la diffusione dei testi, non restringendola.
Se uno non ha i 20 o più euro necessari a comprare un libro, non ce li ha e basta.
Che fa, interra una monetina nel Campo dei Miracoli? Il divieto di riproduzione va a colpire un target di persone che le case editrici (e quelle discografiche) hanno già perso, a causa di politiche miopi, del continuo rialzo dei prezzi e del generale calo di qualità. Nell'ambito universitario, si pensi ai numerosissimi testi messi in programma anche se mediocri o addirittura pessimi, soltanto perché scritti da amici o compagni di cordata...
Più in generale, va osservato che tutta la legislazione sul diritto d'autore a livello planetario è espressione di una mentalità oligarchica e repressiva, sempre più raggomitolata a difendere i privilegi di obsolescenti lobbies, multinazionali e potentati che campano sull'appropriazione indebita di ciò che dovrebbe essere di tutti.

Quali possibili soluzioni alternative?
Per quel che riguarda l'università, il problema è ben più a monte: è che i libri fanno schifo oppure costano l'ira d'iddio. Parlando più in generale, siamo per la libertà di riproduzione. La libertà di riproduzione non limita le vendite in libreria: sono circuiti diversi, approcci diversi, supporti diversi. Lo sperimentiamo ogni giorno con i nostri libri, che recano questa dicitura: "È consentita la riproduzione parziale o totale dell'opera e la sua diffusione per via telematica a uso dei lettori, purché non a scopo commerciale". Quest'ultima precisazione ha un significato anche politico: il diritto convenzionale, di stampo liberal-borghese, si costruisce intorno a un soggetto che, a ben guardare, è un soggetto astratto, non calato nel sociale: è il cosiddetto "individuo proprietario", descritto come perennemente uguale a se stesso a prescindere dai contesti. Noi invece crediamo ci sia una differenza enorme tra soggetti e soggetti, e quindi tra diritti e diritti. Vale a dire: non vanno messe sullo stesso piano le libertà di cui deve godere il singolo lettore che vuole leggersi un nostro libro ma non ha i soldi per comprarselo e i vincoli che invece vanno imposti ai grandi potentati economici.
Per scrivere un romanzo dei nostri occorrono tre anni di lavoro durissimo, tra ricerche, stesura, revisione e centinaia di presentazioni in giro per l'Italia. Alla grande industria cinematografica o televisiva non dev'essere consentito di parassitare questo nostro impegno e - senza cacciare un centesimo - trarre un film dalle trame che abbiamo elaborato, fare ulteriori miliardi e rafforzare la propria posizione di predominio. In questi anni abbiamo realizzato quanto sia stato importante piantare nel terreno questo paletto, anche se qualche "purista" del no-copyright ci ha criticati, ignaro dei rischi che si corrono facendo questo mestiere e, in fin dei conti, ignaro del fatto che la società è divisa in classi.
Siamo sempre alla ricerca di diciture e soluzioni più concrete, soddisfacenti e utilizzabili da altri. Intanto, potete lasciar fotocopiare i nostri romanzi e sbattere la dicitura in faccia agli ispettori SIAE o agli agenti della Guardia di finanza.

A questo punto potremmo dire che Wu Ming di fatto mette in crisi la figura stessa dell'autore come singolo individuo e di conseguenza della proprietà letteraria in quanto tale. Come nasce questa scelta e quale visione della letteratura sottintende?
Non facciamo che rendere esplicito l'implicito. In realtà nessun autore inventa o scrive da solo, e non ci riferiamo solo all'editor o al ghostwriter di turno, ma al fatto che le idee sono nell'aria e non appartengono a un singolo individuo. L'autore, qualunque autore, è più che altro un "riduttore di complessità", e svolge una funzione temporanea, cioè trae una sintesi precaria da flussi di informazione/immaginazione che vengono trasmessi dall'intera società e la riattraversano in lungo e in largo, senza sosta, come le onde elettromagnetiche.
In linea di principio, è assurdo voler imporre una proprietà privata della cultura. Se al fondo tutto è prodotto dalla moltitudine, è giusto che ogni "prodotto dell'ingegno" sia a sua disposizione. Non ci sono "geni", quindi non ci sono "proprietari". C'è lo scambio e il riutilizzo delle idee, cioè il loro miglioramento. Lo diceva già Lautreamont: perché le idee progrediscano è necessario il "plagio" (e quindi anche la sua pre-condizione, cioè la "pirateria", la riproduzione libera).
Nella storia recente questa posizione - fino a pochi secoli fa considerata ovvia e naturale - è stata sostenuta solo da esponenti delle correnti radicali e antagoniste: da Lautreamont ad Amedeo Bordiga, dai situazionisti all'Underground degli anni Sessanta, da William Burroughs al Punk, al Neoismo, dai movimenti plagiaristi degli anni Ottanta-Novanta alle culture hip hop e techno fino al Luther Blissett Project in cui abbiamo "militato" fino al 1999.
Oggi torna ad essere una visione egemone, grazie alla rivoluzione digitale e, nello specifico, al grande successo del software "libero", GNU, Linux ecc.
Dall'altra parte della barricata c'è tutto quello contro cui la sinistra, in tutte le sue sfumature, si è battuta fin dall'Illuminismo: la rendita nobiliare, la "manomorta" aristocratica, lo sfruttamento dei risultati del lavoro da parte di ceti parassitari. Ma, come dicevamo, si tratta di ceti e interessi "obsoleti": anche alla luce di come funziona l'odierna produzione di ricchezza, il copyright è ormai uno strumento superato, un rottame ideologico la cui esistenza castra l'inventività, limita lo sviluppo del "capitale cognitivo", sviluppo che oggi richiede cooperazione sociale in rete, brainstorming a tutto campo. Per essere produttive, le idee devono essere libere di circolare.
Se volessimo usare una terminologia marxiana classica, diremmo che oggi lo sviluppo delle forze produttive mette in crisi i rapporti di produzione. Pensiamo ai programmi peer-to-peer che permettono la condivisione dei file MP3. Pensiamo a tecnologie di riproduzione come i masterizzatori. La loro stessa esistenza è la prova che la Convenzione di Berna sui diritti d'autore è superata nei fatti, dallo stesso sviluppo delle forze produttive. In parole povere: non si possono mettere in commercio tecnologie come campionatori, computer, scanner, masterizzatori, fotocopiatrici, e poi far intervenire i governi e le forze di polizia perché la gente li utilizza... nel modo "sbagliato".
Contro questo vasto (e ancora non del tutto consapevole) movimento, viene messa in campo una resistenza feroce da parte delle mafie della proprietà intellettuale, col peggioramento delle leggi vigenti. Non solo: si sferra anche un contrattacco su vasta scala, per estendere la logica della proprietà intellettuale a esseri viventi e sequenze genetiche umane. Dal che si capisce che quella del copyright è la principale linea del fronte dell'attuale conflitto socio-ecologico.
Ad ogni modo, nell'industria culturale stiamo vincendo "noi", basti pensare alla musica: oggi le grandi case discografiche piangono miseria, si scagliano con violenza contro "la pirateria", vedono drasticamente ridotti i loro margini di profitto. Perfetto! Le bolle di sapone scoppiano, si ridimensionano fenomeni di parassitismo che avevano assunto proporzioni ridicole: guitti che si ritrovano miliardari solo perché nei piano-bar da trent'anni si suona la loro unica canzone di successo, una ben nota società che monopolizza l'amministrazione del "diritto d'autore" estorcendo soldi grazie a balzani cavilli legali e dividendoli tra le Grandi Famiglie che la gestiscono ecc. ecc.
La fruizione della musica (e non solo) sta cambiando, la "cultura di massa" lascia il posto a una nuova forma di cultura "popolare", in cui contano sempre di più le esibizioni dal vivo, le reti solidali, la condivisione, il do-it-yourself (autoproduzione, autodistribuzione, passaparola), e in fin dei conti importerà poco sapere chi ha composto o scritto che cosa. L'artista sarà sempre meno Divo (o Autore) e sempre più cantastorie, menestrello, bardo, griot.

Tra i bibliotecari è nato, nei confronti di Wu Ming, un quesito squisitamente catalografico: è opportuno il rinvio da Wu Ming a Luther Blisset?
È senz'altro opportuno il rimando dai libri di Wu Ming a Q e a Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0, e da questi ultimi ai saggi Nemici dello Stato e Lasciate che i bimbi.

http://www.wumingfoundation.com

Wu Ming: liberi di leggere. Intervista a cura di Giuliana Zagra. «AIB Notizie», 14 (2002), n. 6, p. 7-8.
Copyright AIB, ultimo aggiornamento 2002-06-26 a cura di Franco Nasella
URL: https://www.aib.it/aib/editoria/n14/02-06wuming.htm

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