[AIB] AIB notizie 19 (2007), n. 2
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Open Access e ricerca scientifica: un’opportunità.
Idee e spunti dal convegno "Institutional archives for research: experiences and projects in Open Access"

Elena Giglia

«L’Open Access è un’opportunità unica per la ricerca»: così Valentina Comba, auspicando sinergie inedite fra ricercatori e bibliotecari nel mutato scenario di un’università-impresa, dava inizio alla prima giornata del convegno "Institutional archives for research: experiences and projects in Open Access", tenutosi a Roma il 29 novembre e il 1 dicembre. Il convegno, ospitato dall’Istituto superiore di sanità, aveva come interlocutori privilegiati i ricercatori di area biomedica, di cui ha visto una buona partecipazione.

Proprio ai ricercatori, e alle nuove prospettive aperte dall’Open Access per una nuova comunicazione scientifica, era dedicata la prima sessione del convegno, magistralmente aperta da Jean-Claude Guédon (Open Access: better science for scientists and society) con un brillante excursus storico sui canali della scholarly communication dalla nascita delle riviste scientifiche all’era di Internet.
La cifra di lettura proposta da Guédon, la "repubblica delle lettere" già sovversiva quando nacque, nel ’600, in epoca monarchica e imperiale, può concretizzarsi oggi in una vera e propria "repubblica del sapere", diffusa, democratica, liberamente accessibile grazie ai canoni dell’accesso aperto: le due vie – l’autoarchiviazione in archivi aperti e la pubblicazione di riviste Open Access –, che già l’autore nel suo The "green" and the "gold" road to Open Access: the case for mixing and matching [1], riconosceva come complementari e non alternative, possono garantire la massima diffusione dell’informazione e quindi la crescita complessiva della conoscenza.
Guédon, sostenendo fortemente il mandato ad archiviare nei depositi istituzionali, propone nell’attesa di creare "valore simbolico" intorno ai depositi stessi, per far sì che i depositi (istituzionali o disciplinari) diventino la nuova misura di valutazione della validità della ricerca: in questo senso il professore ha anche articolato in modo chiaro una critica alle correnti forme di peer review e di metrica dell’impatto, e ha chiuso sulla speranza che da nuove forme di interazione fra ricercatori e specialisti dell’informazione, con gli strumenti dell’accesso aperto, nascano risposte inedite alla crisi della comunicazione scientifica.

Derek Law, nel suo intervento Making science count: Open Access and its impact on the visibility of science, ha fornito dati concreti sulla maggior consapevolezza delle potenzialità dell’Open Access in ogni disciplina: dai progetti in corso (DARE in Olanda, DRIVER a livello europeo, DEST in Australia), al numero crescente degli archivi aperti, alle nuove politiche mandatarie rispetto ai risultati delle ricerche finanziati con fondi pubblici (Wellcome Trust in Gran Bretagna, National Institute of Health in USA), alle politiche degli editori tradizionali che sempre più offrono l’opzione "author/institution pays" per l’accesso aperto sulle riviste dei loro pacchetti editoriali.
Se crescono gli strumenti a disposizione, il problema resta quello di riempire gli archivi: per questo bisogna puntare sui nuovi studi sulle citazioni, che dimostrano la maggiore visibilità delle ricerche pubblicate ad accesso aperto, citate prima e più frequentemente, e sulle nuove metriche di valutazione più adatte a una realtà complessa come quella di rete. Law si è poi soffermato sia sulle potenzialità di text mining e data mining offerte in ambiente Open Access – a patto però che diventi mandatario archiviare la versione finale dell’autore nel suo formato nativo, e non nel pdf che è solo il livello minimo di condivisione – sia sulla visibilità garantita dall’accesso aperto come vetrina per la produzione scientifica nazionale (progetto Cream of science in Olanda).
In questo senso, in futuro l’archiviazione in depositi istituzionali potrebbe rivestire un ruolo cruciale non solo nella valutazione della ricerca a livello di ateneo, ma anche nei rapporti nazionali e internazionali sulle istituzioni di ricerca, in cui la metrica è basata anche sulla quantità di citazioni ottenute dai singoli enti.

Francis André, dell’INIST-CNRS, ha portato l’esperienza d’oltralpe in Support of Open Archives at national level: the HAL experience. Dopo una panoramica sugli ingenti finanziamenti e sulle politiche di organizzazione della ricerca attuate in Francia (con le nuove agenzie ANR – Agence nationale de la recherche e AERES – Agence pour l’évaluation de la recherche et de l’enseignemeint supérieur, nella cui metrica di valutazione verranno ricompresi i depositi istituzionali), André ha presentato HAL – Hyper Article en Ligne: una piattaforma lanciata nel 2001 per ospitare archivi scientifici multidisciplinari, con un approccio internazionale – senza la creazione di archivi istituzionali o nazionali, ma piuttosto sull’esempio di ArXiv – e centrato sui ricercatori, per fornire l’accesso al testo pieno degli articoli (export di dati da ArXiv e PubMed Central), con una mission specifica per l’archiviazione a lungo termine. Grande importanza è stata riconosciuta ai metadati, con la creazione di un set apposito per ognuna delle tre entità individuate (autore, laboratorio, record bibliografico) per permettere ricerche incrociate e una più immediata autoarchivizione.
Grazie a questa ricchezza di metadati e all’architettura OAI-PMH, HAL è anche strumento di metaricerca, presentandosi come portale interdisciplinare, ed è personalizzabile dalle singole istituzioni, che possono farne la loro interfaccia di ricerca (specifica o multidisciplinare) ed estrarne collezioni virtuali.
HAL si pone quindi come veicolo per la valorizzazione della produzione scientifica francese - non a caso è partner del progetto comunitario DRIVER – e ha registrato, sulla scorta di un accordo nazionale siglato in Francia per il sostegno all’accesso aperto dall’80% degli enti di ricerca, una crescita esponenziale del materiale depositato nell’ultimo anno, per quanto la policy di sottomissione si limiti alle ricerche sottoposte per la pubblicazione a un reviewer.

Un’altra prestigiosa esperienza è venuta da Peter Morgan, Capturing research outputs at the University of Cambridge: experiences with DSpace, che ha presentato i due progetti volti a raccogliere, disseminare e conservare la produzione scientifica dell’Università di Cambridge.
Dopo una rapida presentazione della realtà dell’Ateneo (evidenziando la separazione fra l’area delle biblioteche e quella informatica, e la tripartizione del sistema bibliotecario in University Library, Faculty Libraries e College Libraries), degli sforzi finora fatti in progetti di digitalizzazione (CEDARS, CAMILEON) e di diffusione della comunicazione scientifica (SPARC Europe), e della conseguente credibilità e visibilità acquisita dai servizi bibliotecari presso i ricercatori, Morgan è passato a tracciare il profilo del progetto "DSpace@Cambridge": finanziato dal MIT e da Cambridge University per il triennio 2003-2006, gli scopi del progetto erano di identificare e rispondere ai bisogni degli utenti, di creare il deposito istituzionale, e non ultimo di contribuire allo sviluppo del software DSpace.
Mette conto sottolineare le linee guida: autoarchiviazione (di qualsiasi tipo di materiale) con un set di metadati Dublin Core, poi validato dallo staff bibliotecario; l’autore mantiene il copyright, e può quindi fruire del diritto di pubblicazione e riproduzione; il deposito ha la licenza di fare copie e disseminarle a scopo di studio e ricerca ma anche di conservazione; per qualcuna delle 17 comunità che lo richiedono è possibile creare collezioni con particolari restrizioni (work in progress, materiale commercialmente rilevante…).
Il bilancio del progetto è dunque decisamente positivo (tanto che è stato rifinanziato per un quinquennio); le statistiche di accesso sono buone e buono è stato sia l’impatto sulla comunità scientifica sia la visibilità sociale. Spin-off del progetto è SPECTRa, archivio aperto per la chimica, che consente il deposito di dati sperimentali (gli open data pongono problemi inediti: le policies di embargo, i criteri per il riuso dei dati…).
In chiusura, Morgan ha posto alcune questioni fondamentali: in primis ha sottolineato come l’atteggiamento corretto sia quello di cercare di capire cosa davvero serva ai ricercatori, e costruire insieme soluzioni adeguate alle loro esigenze (diverse per le diverse comunità scientifiche, questo non va dimenticato); andare oltre il materiale peer reviewed; considerare sia archivi aperti sia archivi chiusi (per particolari esigenze, quali quelle degli open data); considerare strutture federate di deposito; dimostrare quale valore aggiunto può dare alla ricerca e ai ricercatori un archivio istituzionale.

Il vivace dibattito che è seguito ha sottolineato proprio la centralità dei ricercatori: Guédon ha ribadito che gli sviluppi dell’accesso aperto devono essere orientati alle esigenze degli utenti, sempre nell’ottica della massima disseminazione del sapere, per rendere visibile la "repubblica del sapere"; Law ha posto l’accento su "institutional", sul dare visibilità alle istituzioni, e sulle precise responsabilità delle istituzioni stesse nella pubblicazione dei risultati: a questo proposito, a fronte del dubbio su come si possano conciliare la spinta alla privatizzazione della ricerca e l’Open Access, Guédon ha sottolineato come l’accesso aperto non sia che un canale alternativo di pubblicazione, che non cambia la natura del "rendere pubblico" il risultato della ricerca (sia esso coperto da brevetto o no, ma per questo esistono, come dimostrato da Morgan, esperienze di archivi misti, con embargo dei dati per un periodo critico).
Da ultimo si è riaffermata la necessità di nuove metriche di valutazione più aderenti alle nuove forme di comunicazione scientifica rispetto al tradizionale impact factor ("misused", secondo Guédon, nella valutazione della ricerca): in questo senso l’accesso aperto può dare ampie garanzie verso modalità alternative. È di inizio novembre la notizia che la Mellon Foundation ha finanziato al team di Van de Sompel una ricerca su una "usage based metrics" (cfr. progetto MESUR - MEtrics from Scholarly Usage of Resources) [2].

Il pomeriggio ha visto alternarsi nella seconda sessione, Open Access in Italy: knowledge and tools to write and search, relazioni più tecniche, ritagliate sulla specifica realtà italiana.
Maurella Della Seta e Rosanna Cammarano del Settore Documentazione dell’Istituto superiore di sanità hanno presentato un interessante studio comparato, Citation tracking of scientific publications through two different searching tools: Google scholar and Web of science, condotto a distanza di un anno su un set di 44 papers: la sovrapposizione fra i due strumenti si è rivelata solo del 51%. Google Scholar, nonostante i suoi riconosciuti limiti, ha reperito record unici, mentre Web of Science si è confermato più completo. In sostanza, i due strumenti risultano complementari.

Valentina Comba ha tracciato un panorama degli attuali metodi di valutazione della ricerca in Italia e in Europa (e degli sviluppi auspicati con le nuove agenzie), che non consentono ancora agli autori una piena autonomia di scelta su dove e come pubblicare.
Il suo A toolkit for research communities: helping authors choose the right mode of publication to maximise impact costituisce una preziosa checklist di risorse e siti web utili per spiegare i vantaggi di pubblicare Open Access, una sorta di "istruzioni agli autori" (e ai bibliotecari competenti che li devono supportare) per conoscere le riviste ad accesso aperto (DOAJ), i depositi istituzionali (DOAR/ROAR), le politiche degli editori sull’autoarchiviazione (ROMEO-SHERPA), gli studi sull’impatto, che dimostrano l’evidente maggiore disseminazione garantita dall’accesso aperto.

Enrico Alleva e Igor Branchi, dell’Istituto superiore di sanità, hanno evidenziato gli aspetti innovativi e le criticità dell’Open Access per i ricercatori: Making available scientific information in the third millennium: perspectives for the neuroscientific community.
Particolare rilievo è stato dato alla possibilità di pubblicare negli archivi aperti anche i risultati negativi (difficilmente pubblicabili altrove per le note ragioni commerciali e di interesse, ma di grande utilità per lo sviluppo della scienza) o i singoli set di dati, parti di esperimenti che non trovano spazio negli articoli tradizionali, e alla ricerca di nuove economie sostenibili per l’accesso aperto, perché se è vero che l’accesso aperto consente a tutti di leggere, non è così scontato che tutti possano permettersi di pubblicare con la formula "author pays".
Ma, di fondo, è stato espresso l’auspicio di un graduale, ma sostanziale cambio di direzione verso l’accesso aperto.

Alessandro Giuliani, dell’Istituto superiore di sanità, nel suo Open Access as an antidote for the self-referential character of science, ha fornito una suggestiva rilettura in chiave di complessità del carattere autoreferenziale che sta alla base della moderna ricerca scientifica (e dell’errore insito nella eccessiva generalizzazione): lo stesso peer review, che consente solo agli specialisti della materia di giudicare la materia stessa, crea di fatto una sorta di "ortodossia" che è nemica della reale innovazione.
In quest’ottica, l’Open Access, che di fatto estende la base dei possibili lettori, può essere un valido antidoto a una scienza divenuta un circolo chiuso, e può contribuire a ridare visibilità alla scienza e alla divulgazione delle ricerche.

Franco Toni (Biblioteca dell’Istituto superiore di sanità), investigando le Statistics of Open Access journals, ha presentato gli standard per tracciare le riviste tradizionali online, sottolineando il crescente interesse per le statistiche in termini di valutazione e selezione delle risorse.
Fra gli editori Open Access solo BioMedCentral fornisce statistiche di accesso e download. In ambiente OA ciò che conta non è tanto individuare gli IP addresses di chi scarica i file, ma quante volte i file sono scaricati: ultimamente, DOAJ offre questa possibilità per un terzo delle riviste a livello di singolo articolo.
In realtà, la mancanza di dati statistici associati alle risorse Open Access le penalizza: al di là di studi come quello di Gunther Eisenbach, Citation advantage of Open Access articles [3], che dimostrano in che percentuale le pubblicazioni ad accesso aperto siano più citate di quelle tradizionali, sarebbe fondamentale per i bibliotecari avere statistiche di accesso al materiale Open Access, per dimostrarne la validità sia in termini di valore scientifico sia di reale possibilità di incidere sui budget sempre più scarsi delle biblioteche, orientando con precise scelte gli sviluppi delle collezioni.

Sul tema delle risorse tradizionali si è incentrato il dibattito: da più parti è stato stigmatizzato l’oligopolio che di fatto caratterizza il mercato editoriale e genera la spirale dei prezzi sempre più insostenibile, ma anche la criticità del modello "author pays", non sempre sostenibile.
Valentina Comba ha ribadito la necessità di nuove sinergie anche nella definizione dei budget, facendo interagire l’area ricerca con l’area biblioteche, perché sempre più i costi della pubblicazione possono rientrare in quelli stanziati per le ricerche stesse: la pubblicazione come atto finale della ricerca.
Susanna Mornati ha sottolineato l’importanza di nuovi parametri di valutazione – l’impact factor è una misura puramente quantitativa, e viene invece usata per valutare la qualità della ricerca – e la necessità di ottenere consenso da parte dei ricercatori, insieme a una massa critica di documenti ad accesso aperto, per sensibilizzare anche gli altri stakeholders. Particolarmente apprezzate in questo senso le iniziative di alcuni governi (Brasile) che sostengono la scelta dell’accesso aperto.

La seconda giornata ha visto la presentazione di esperienze concrete di promozione dell’accesso aperto, nella sessione Institutional policies for Open Access.

Roberto Delle Donne, presidente del Gruppo Open Access della Commissione Biblioteche della CRUI, ha illustrato in Gli atenei italiani e l’informazione in Open Access le linee di azione del gruppo: il rapporto e le forme di collaborazione con altre realtà europee, il deposito delle tesi di dottorato (problema complesso, che tocca la disciplina speciale del dottorato, quella del diritto d’autore, del deposito legale, della protezione delle invenzioni intellettuali), l’anagrafe e valutazione della ricerca, la questione delle riviste elettroniche (la nuova modalità proposta è quella "institution pays").
La conclusione è stata che alle università italiane più che la concorrenza gioverebbe la capacità di fare sistema.

Laura Tallandini, riprendendo la storia dell’Open Access in Italia (dalla Dichiarazione di Messina [4] alle statistiche attuali sui depositi istituzionali attivi), ha prospettato la strada verso "Berlin 5" [5], il cui tema sarà From practice to impact: consequences on knowledge dissemination.
Nel suo Looking at the forthcoming "Berlin 5 Open Access" conference in Padova – september 2007, ha ripreso i termini della Roadmap to Open Access [6] (stabilita a Berlino e Ginevra), per chiarire che agli atenei viene assegnato il compito di implementare politiche mandatarie di deposito dei lavori dei propri ricercatori in archivi istituzionali e di incoraggiare i ricercatori a pubblicare sulle esistenti riviste open access di ambito. Fra i punti critici della Roadmap sono stati evidenziati il 6 (Creating a sustainable infrastructure), 8 (Supporting Open Access journals) e 10 (Removing barriers on the way): particolare attenzione va prestata alla motivazione dei ricercatori, alla motivazione delle istituzioni, al supporto politico.
In questo senso, grande importanza va annessa agli esempi di politiche di finanziamento (raccolte da JULIET, nuova directory che si accosta a ROMEO-SHERPA) di enti quali il Wellcome Trust, che prevede l’obbligo di pubblicazione in accesso aperto per le ricerche finanziate coi propri fondi.
Laura Tallandini ha poi illustrato gli scopi di Berlin 5 (ricognizione degli strumenti e progetti a sostegno dell’accesso aperto, sviluppo di strategie efficaci per implementare questo nuovo paradigma nel mondo della comunicazione scientifica, mantenendo alto il coinvolgimento di tutti gli attori dell’Open Access) e ha focalizzato gli argomenti che verranno trattati: lo stato dell’arte sulla condivisione della vision della Dichiarazione di Berlino, l’Open Access nei paesi in via di sviluppo, l’Open Access e la e-science (questione della circolazione dei dati grezzi e riuso dei medesimi), nuove strategie di pubblicazione nella comunicazione scientifica (impatto, nuove metriche di valutazione, nuove politiche editoriali…), sviluppo di tecnologie a supporto dell’e-publishing (consorzi nazionali e internazionali).

Paola de Castro ed Elisabetta Poltronieri, del Settore Attività editoriali dell’ISS hanno invece presentato il nuovo deposito istituzionale dell’Istituto superiore di sanità, secondo un progetto del 2005 volto a creare un archivio digitale che aggreghi le pubblicazioni nel settore biomedico prodotte dalle istituzioni di ricerca in Italia, come illustrato in Defining a policy for the ISS institutional repository.
Le strategie per la promozione sono state sia top-down (firma della Dichiarazione di Berlino da parte del Presidente dell’ISS), sia bottom-up (abbonamento a BioMed Central, questionario interno per valutare la consapevolezza dello staff rispetto all’accesso aperto, creazione di un gruppo pilota di ricercatori che pubblichino in accesso aperto – e i cui dati di citazione (1579 accessi in 4 mesi per un articolo, 1498 in sei mesi per un altro) e le impressioni positive vengono diffuse a tutti.
La creazione dell’archivio digitale con D-Space ha visto il riversamento della base dati bibliografica delle pubblicazioni dell’ISS (16.000 citazioni, alcune delle quali in full-text) e la partnership con il CRO di Aviano e il Policlinico San Matteo di Pavia per il futuro inserimento di materiale.
La politica d’Istituto prevede l’archiviazione di tutto il materiale con copyright ISS, e, per quello con diverso copyright, l’archiviazione di post-print o pre-print.

A Paola Gargiulo, del CASPUR, è toccato il compito di illustrare la piattaforma PLEIADI [7] (PLEIADI initiative: a digital platform for the Italian Open Access community), a supporto della ricerca, localizzazione, disseminazione dei contributi ad accesso aperto.
Con i suoi servizi personalizzati per gli utenti (profili, servizi di alert, RSS feed) PLEIADI si propone quale portale per garantire la maggiore visibilità e impatto alla produzione accademica italiana, e, fino alla creazione di un analogo progetto in Germania e del progetto europeo DRIVER [8], finora era il prototipo di questo tipo di strumento.

Il dibattito che è seguito ha preso le mosse dall’appunto del prof. Fantoni, che proponeva un sistema di "reward" per gli autori che pubblicano ad accesso aperto, una sorta di incentivo alla fidelizzazione, che potrebbe essere un alert sul numero di citazioni ricevute dal singolo articolo.
La discussione si è quindi spostata verso le forme di finanziamento e coordinamento, sulla scorta della nota di Laura Tallandini che additava gli sforzi compiuti da progetti quali JISC e DARE, che segneranno la differenza da qui a dieci anni rispetto alla scarsa attenzione dedicata in Italia a questi temi.

Nell’ultima sessione, "Opportunities and services to develop Open Access", Antonella De Robbio ha invece segnato i confini fra Open Access and copyright, tenuto conto dei fini istituzionali degli atenei (didattica e ricerca) e della complessità della questione della proprietà intellettuale della ricerca nelle diverse tipologie di documenti (articoli, tesi, papers, tesi di dottorato ecc.).
Due sono gli attori principali: da una parte le istituzioni, cui spetta il dovere di stilare politiche e regole chiare sul diritto d’autore, di vigilare sulla cessione indiscriminata di diritti a terzi, di definire politiche mandatarie di deposito in accesso aperto, anche per garantire il riuso a fini didattici e di ricerca del materiale prodotto; dall’altra gli autori, con una precisa chiamata a ritenere il copyright (molti dei contratti editoriali che prevedono il trasferimento dei diritti di fatto poi non offrono nessuna tutela supplementare), a pubblicare con editori che in qualche modo rispettino il diritto ad autoarchiviare (la directory di SHERPA indica un 76% di editori che lo consentono), a essere comunque consapevoli delle pesanti implicazioni culturali, sociali ed economiche delle loro scelte di pubblicazione.
Di grande interesse il lavoro del gruppo di Zwolle [9], che tenta una mediazione e una corretta riallocazione dei diritti fra sette diversi stakeholders (autori, università, editori, utenti, biblioteche, finanziatori, utilità pubblica) e sette punti strategici (usi didattici, riutilizzazioni future, riconoscimento produzioni quali beni intangibili: diritto morale, questioni economiche e finanziarie, questioni di accesso, questioni di qualità, questioni amministrative, gestione dei diritti).
Solo sulla base di una corretta identificazione delle parti in gioco e dei loro interessi sarà possibile fissare accordi e politiche che garantiscano la capacità di usare, gestire e controllare le opere nel rispetto reciproco dei diritti di ciascuno. Lo Scholars’ copyright project (nato all’interno di Creative Commons) dovrebbe prevedere nuove licenze in questo senso.

Antonio Fantoni ha presentato The digital library at Sapienza: Università di Roma and the effort for Open Access, sottolineando, contro i timori espressi da alcune comunità, l’importanza della condivisione dei risultati delle proprie ricerche, nate sulla scia di ricerche effettuate in precedenza e conosciute attraverso i canali della comunicazione scientifica.

Paolo Roazzi e Corrado Di Benedetto del Settore Informatico dell’ISS hanno mostrato l’implementazione di DSpace per l’archivio istituzionale dell’ISS.

Adriana Valente ha dato una lettura sociologica dell’accesso aperto, mentre Maria Rosaria Bacchini ha portato l’esperienza di FeDOA, l’archivio aperto dell’Università di Napoli Federico II.

Susanna Mornati, leader del progetto AEPIC, ha presentato infine SURplus, un nuovo prodotto per la valutazione e rendicontazione della ricerca, attività mandatarie per gli atenei ma di difficile realizzazione per la eterogeneità, frammentazione e spesso duplicazione dei dati da raccogliere e gestire. Interamente basato su software open source, SURplus intende fornire un supporto applicativo per la gestione integrata delle informazioni relative alle attività e ai prodotti della ricerca.
La sua architettura service-oriented è a moduli integrati, per gestire il workflow del progetto di ricerca (finanziamenti, contratti, convenzioni, la gestione dell’iter di presentazione), l’archiviazione dei risultati della ricerca nell’archivio istituzionale (con generazione dell’archivio della ricerca, e contemporaneamente esposizione dei metadati e quindi ampia disseminazione dell’informazione), le statistiche e gli indicatori di valutazione, e un modulo Gateway di interoperabilità verso l’esterno e verso i sistemi informativi di ateneo, garantendo l’integrazione fra sistemi diversi.

Nei due giorni del convegno si sono alternate relazioni tecniche e suggestioni operative, esperienze concrete e contributi di ampio respiro teoretico, fornendo un quadro vivace del momento attuale dell’Open Access in Italia in area biomedica, ma non solo.
Sul sito del convegno [10] si trova l’abstract book.
Gli atti verranno pubblicati a cura dell’ISS, mentre i contributi in formato .ppt sono in fase di archiviazione su E-LIS [11] e una bibliografia [12] sull’argomento è disponibile sul Servizio Informazioni biomediche dell’Università di Torino.

elena.giglia@unito.it

[1] J.C. Guédon, The "green" and the "gold" road to Open Access: the case for mixing and matching, «Serials Review», 30 (2004), n. 4, p. 315-328.
[2] http://www.mesur.org/Home.html
[3] G. Eisenbach, Citation advantage of Open Access articles, «PLoS Biology», 4 (2006), n. 5, p. 157 (http://biology.plosjournals.org/perlserv/?request=get-document&doi=10.1371/journal.pbio.0040157)
[4] http://www.crui.it/link/?ID=1811
[5] http://oa.mpg.de/openaccess-padua/index.html
[6] http://oa.mpg.de/openaccess-berlin/roadmap.html
[7] http://www.openarchives.it/pleiadi/
[8] http://www.driver-repository.eu/index.php
[9] http://copyright.surf.nl/copyright/zwollegroup.php
[10] http://www.iss.it/publ/even/cont.php?id=1972&lang=1&tipo=16
[11] http://eprints.rclis.org/view/conftitle/Institutional_archives_for_research_:_experiences_and_projects_in_Open_Access.html
[12] http://hal9000.cisi.unito.it/wf/BIBLIOTECH/Portale-bi/Open-Access/Bibliograf/index.htm


GIGLIA, Elena. Open Access e ricerca scientifica: un’opportunità. Idee e spunti dal convegno "Institutional archives for research: experiences and projects in Open Access". «AIB notizie», 19 (2007), n. 2, p. 11-16.

Copyright AIB 2007-03, ultimo aggiornamento 2007-04-05 a cura di Zaira Maroccia
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