[AIB] AIB notizie 21 (2009), n. 1
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Cronache dalla conservazione
2. Come si conservano i libri oggi?

Carlo Federici

Alla domanda verrebbe fatto di rispondere sarcasticamente modificando il “si” impersonale in riflessivo: se vogliono conservarsi, insomma, i libri devono contare sulle proprie forze, visto che coloro che dovrebbero occuparsene fanno poco o nulla.
Una sorta di selezione (in)naturale poiché trattandosi di manufatti umani, essi non posseggono alcuna capacità di reagire agli eventi esterni. In concreto, come tutti gli oggetti, essi non fanno altro che degradarsi giorno dopo giorno a una velocità inversamente proporzionale alla durabilità dei materiali di cui sono costituiti e alla qualità ambientale dei luoghi in cui si trovano.

In verità qualcuno sostiene che i libri “respirano” perché sono fatti di materiali “vivi”, ma a me sembra che le caratteristiche fondamentali degli organismi viventi (nutrirsi e riprodursi) non si riscontrino nei libri, sicché tenderei a classificarli tra i soggetti senza vita.
La questione non è così peregrina visto che – come direbbe Monsieur de Lapalisse o, per restare in casa nostra, i medici Corvo e Civetta al capezzale di Pinocchio – è difficile far morire qualcuno che non sia vivo.
Da cui dovrebbe discendere l’immortalità dei libri-beni culturali, immortalità da interpretare letteralmente – che non muore – senza dedurre arbitrariamente che vive sempre.

Le questioni sulla vita e la morte dei libri – più in generale dei beni culturali – potrebbero essere scambiate per oziose speculazioni filosofiche, ma in realtà da esse discende una concezione della conservazione basata sulla materia la quale, come accennavo nella puntata precedente, si dovrebbe trovare al centro dell’attenzione dei conservatori.
La materia, come tutti sappiamo, non si crea e non si distrugge: si trasforma e, nel nostro caso, tale trasformazione ci preoccupa poiché corrisponde a quel fenomeno che chiamiamo degradazione e che di norma procede molto lentamente, in maniera di fatto impercettibile.
Ciò significa che noi non ci accorgiamo del suo avanzare e ci troviamo, nella grande maggioranza dei casi, a giudicare situazioni che si sono prodotte con il trascorrere degli anni, talvolta di molti secoli.
Anche se non conosciamo modi e tempi nei quali quella componente si è degradata – nonostante decenni di ricerche, le variabili che intervengono nella cinetica generale delle reazioni di deterioramento sono tali e tante da far sì che essa resti assai complessa e ci sia sostanzialmente ignota – siamo portati a porvi rimedio come se fosse avvenuta sotto i nostri occhi e si trovi ora nella sua fase acuta.
Quasi mai ci viene fatto di pensare che quella carta o quella pergamena potrebbe aver raggiunto una condizione di equilibrio rispetto alla quale un intervento inappropriato determinerebbe un peggioramento della situazione.

Nel 2004 venne pubblicato il Codice dei beni culturali e del paesaggio nel quale, tra molte cose discutibili, c’era un articolo, il 29, che trattava della conservazione dei beni culturali e che è ancora oggi ampiamente condivisibile.
Non totalmente, poiché contiene alcune grossolanità che nessun conservatore “militante” giustificherebbe, ma difficile da contestare nella struttura portante che, per quanto mi riguarda, identifico con la definizione di conservazione e con la formazione dei restauratori.
Su quest’ultima – che ritengo fondamentale e che vorrei raffrontare a quella del bibliotecario (e dell’archivista) tornerò a breve scadenza, mentre in questa sede vorrei affrontare il primo comma dell’art. 29 poiché da esso discende (dovrebbe discendere, per meglio dire) la “nuova” (successiva al Codice) organizzazione della conservazione nel nostro Paese.

«La conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro».

Qualcuno farà osservare che il legislatore ha dimenticato di definire in concreto la conservazione.
La questione non mi pare fondamentale ma, poiché quel qualcuno non avrebbe torto, tento di rimediare alla carenza azzardando una definizione che ho provato a mettere a punto negli anni: la conservazione è il complesso delle azioni dirette e indirette volte a rallentare gli effetti della degradazione causata dal tempo e dall’uso sulle componenti materiali dei beni culturali.
È invece dirimente che una legge affermi – e quindi, almeno teoricamente, vincoli tutti i cittadini italiani a conformare le loro azioni a questi principi – che la conservazione può essere messa in atto solo mediante un’attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro, attività che risulti coerente, coordinata e programmata. In concreto però – fatti salvi rarissimi casi che in sostanza costituiscono l’eccezione – mi pare che questa disposizione del Codice sia, almeno nel settore archivistico-librario, ampiamente disattesa.
Dove mai un intervento di restauro è preceduto dallo studio della storia del libro o del documento oggetto dell’intervento?
Per non parlare delle tecniche e dei materiali utilizzati per la sua manifattura, la cui conoscenza analitica costituisce la base fondamentale irrinunciabile di qualsiasi restauro corretto.
E quante volte quel restauro è stato messo in atto correlandolo coerentemente, coordinatamente e programmaticamente con prevenzione e manutenzione?
E soprattutto se, come le apparenze porterebbero a credere, il Codice è stato elaborato e scritto al Collegio romano, dovrebbe essere chiaro che il restauro è – con lo studio, la prevenzione e la manutenzione – una componente della conservazione.
Orbene, come si spiega che all’Istituto risultante dalla fusione dell’Istituto di patologia del libro e del Centro di fotoriproduzione, legatoria e restauro venga attribuita la contraddittoria denominazione di “Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario”, quasi che conservazione e restauro fossero discipline diverse e che – peraltro ai sensi dell’art. 29 del Codice – la prima non comprendesse il secondo?

Certo, potrebbe trattarsi di una svista, di un lapsus, rivelatore tuttavia di una concezione anchilosata dello sviluppo che questi settori disciplinari hanno avuto negli ultimi anni, sviluppo che, pur recepito (aggiungerei: inopinatamente) dal legislatore, non tocca la burocrazia ministeriale, la quale continua a essere convinta che la conservazione e il restauro abbiano poco o nulla in comune.
Da qui discende una parte – va da sé, non la principale – dei mali che affliggono questo settore. Degli altri, tratterò nella prossima puntata.

cfederici@tin.it


FEDERICI, Carlo. Cronache dalla conservazione. 2. Come si conservano i libri oggi?. «AIB notizie», 21 (2009), n. 1, p. 23

Copyright AIB 2009-03, ultimo aggiornamento 2009-03-03 a cura di Zaira Maroccia
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