«Bibliotime», anno X, numero 1 (marzo 2007)

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Maurizio Festanti

Il bibliotecario tra inclusione ed esclusione



Nel corso delle ricerche effettuate per preparare una piccola mostra sui libri censurati del Cinquecento presenti nelle raccolte della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, mi sono imbattuto in un certo numero di libri espurgati: volumi che portano le tracce, spesso pesanti, a volte invece solo marginali o appena percettibili, degli interventi censori che hanno cancellato brani, tagliato pagine, annerito frasi o anche solo un nome.

E riflettevo sul fatto che questi interventi, che ora fanno inorridire la nostra coscienza democratica, in realtà era quello di non escludere dal circuito della lettura libri che altrimenti, per il solo fatto di riportare nomi di autori protestanti e quindi eretici, sarebbero dovuti semplicemente scomparire, essere distrutti, cancellati.

Il senso degli indici espurgatori infatti, come tutti sanno, è quello di salvare questi testi dalla distruzione: testi che non trattavano di cose religiose, ma magari giuridiche, letterarie, mediche, scientifiche, e che dunque risultavano fondamentali per l'aggiornamento di intere categorie professionali. Espurgarli, togliendo quelle poche frasi che offendevano l'ortodossia cattolica, magari semplicemente cancellando un titolo elogiativo accostato al nome di un intellettuale protestante, significava consentirne la lettura e lo studio, far rivivere un libro altrimenti condannato all'oblio.

Ecco un caso di quello che potremmo definire, per richiamare il titolo della nostra tavola rotonda, non di censura per esclusione, ma paradossalmente di "censura per inclusione", di una "selezione" cioè fatta per far vivere l'informazione, non per oscurarla.

Questa circostanza mi richiamava alla mente, naturalmente mutatis mutandis, quella funzione di "selezione", appunto, che il bibliotecario è chiamato oggi a svolgere per individuare le informazioni significative nella mole immensa e indistinta di dati informativi non pertinenti o inutili o fuorvianti.

Noi siamo abituati a pensare che questo ruolo di filtro sia legato alla situazione attuale dell'editoria e che sia nato soprattutto in corrispondenza della crescita esponenziale della produzione delle informazioni, prima tipografiche e poi digitali. In realtà è un tema antico quanto la stampa stessa, tanto che fin dalle origini della tipografia si è sviluppata una concezione della censura che potremmo definire "elitaria" e che si è indirizzata a una sorta di selezione per meritocrazia, con l'obiettivo di far sopravvivere solo le opere che hanno un valore culturale, e condannare all'oblio i libri che intasano con la loro ingombrante e inutile presenza il mercato editoriale, rendendo più ardua l'individuazione dei testi di qualità, confusi nella marea di opere superflue o dannose.

A questo proposito, tra le diverse testimonianze, risulta particolarmente significativo un brano tratto dai Dialoghi (Venezia, Gabriel Giolito de' Ferrari, 1562) di Lodovico Domenichi, un umanista che, come altri intellettuali del suo tempo, era perfettamente inserito nel mercato editoriale, tanto da averne fatto una fonte di reddito, se non proprio una professione. Nel Dialogo della stampa, nel quale alcuni umanisti discorrono sui pro e i contro della tipografia, quasi facendo un bilancio dei vantaggi e degli svantaggi che ha prodotto ad un secolo dalla sua nascita, uno degli interlocutori cita tra i principali guasti proprio la moltiplicazione a dismisura dei libri e quindi anche dei libri dannosi:

[Alberto Lollio:] Hora tornando a proposito, come potete voi dire che il gran numero de' libri e la lettione delle cose diverse faccia danno a begli intelletti, e non più tosto arricchisca la mente, riempiendola di degni concetti e di rare inventioni?

[Francesco Coccio:] Provate a essere a una tavola, dove sieno infiniti cibi diversi, e la maggior parte cattivi, vedrete come voi vi acconcierete il gusto e lo stomaco nel pigliare un boccone quà e un altro là, alla fine non saprete discernere qual sia il buon sapore, né qual cibo più giovi allo stomaco. La selva de' libri che ci si para innanzi a guisa di giardino pieno di molti frutti, ha finalmente pochi alberi da cavarne costrutto, perciocchè quale è torto, e qual mezzo secco, e l'uno punge, e l'altro puzza. Onde non c'è poi tempo da corre de' frutti buoni, se pur se ne trovano alcuni. Ma se l'huomo pascesse il suo intelletto d'ottima dottrina, che ne' pochi libri è riposta, egli partorirebbe poi frutti degni di gloria e d'honore […]. Se per editto universale si tagliasse la strada, vietando che ogni libruzzo da tre soldi non si stampasse, e la universalità de' reggimenti a ciò s'accordasse, sarebbe bello e proveduto a questo danno.

Come si vede, si fa ricorso a metafore diverse, qui si parla di indigestione, di selva inestricabile, mentre oggi si parla di rumore di fondo, ma il tema rimane lo stesso.

Questa breve digressione storica intendeva sottolineare come il problema di una selezione per qualità ci accompagni fin dalla nascita del libro moderno, ed è esattamente il tema che ci troviamo di fronte quotidianamente nel nostro lavoro, quando il bibliotecario compie il gesto di scegliere un libro e di escluderne un altro. Un gesto che ha profonde implicazioni culturali, etiche, sociali perché nella sua essenza racchiude il significato ultimo di tutte le problematiche legate al ruolo della biblioteca nella nostra società.

Un gesto la cui responsabilità è oggi meno gravosa, perché non è più un gesto coltivato in solitudine come nel passato. Oggi il bibliotecario nella sua decisione è sostenuto da una serie di sussidi che lo aiutano in questa scelta: può verificare se esistono altre copie del libro in altre biblioteche del territorio; può far riferimento ad una serie di principi e criteri generali che indirizzano la propria politica degli acquisti nel contesto di un sistema o nel contesto di una strategia controllata di incremento del patrimonio; ha a disposizione strumenti di analisi e dati statistici che gli consentono di interpretare le dinamiche dei propri utenti e dei loro interessi di lettura…

Tutto questo è vero: resta però il fatto che, pur con questi strumenti che sono fondamentali per indirizzare le proprie scelte in vista di obiettivi che la biblioteca persegue, davanti al libro da scegliere, di fronte alla decisione se acquistarlo o escluderlo, il bibliotecario è solo con la sua coscienza, o meglio, è solo con la sua visione del mondo, le sue idee politiche, le sue convinzioni religiose, i suoi pregiudizi culturali o sociali che avranno un peso decisivo, al di là delle sue stesse intenzioni, nel fargli accogliere quel libro in biblioteca o nell'escluderlo.

E non ci aiuta nemmeno molto dire, com'è giusto del resto, che la stella polare nell'indirizzare le nostre scelte deve essere il criterio della qualità: il discernere cioè il cibo buono o il frutto migliore, per ritornare alle metafore del Domenichi, nella congerie di cibi indigesti o nella selva di arbusti secchi. Dire che dobbiamo attenerci alla qualità non fa che spostare il problema.

E' certo encomiabile l'impegno di molte biblioteche nel cercare di definire una sorta di codice dei criteri per la selezione del materiale che entra in biblioteca. E' tanto encomiabile quanto, a mio avviso, abbastanza vano: chi e come decide che un libro è accurato e affidabile, che è rilevante rispetto alla cultura contemporanea, che ha valore come documento dei tempi ? Chi decide, e come, l'autorevolezza dell'autore o dell'editore?

Tutti noi bibliotecari naturalmente siamo pronti a reagire e a denunciare eventuali pressioni esercitate dall'esterno nel tentativo di orientare in qualche modo la politica degli acquisti. Sono senza dubbio reazioni e denuncie sacrosante, perché innanzitutto costituiscono un attentato alla libera circolazione delle idee e alla libertà di espressione, che è quindi quanto dire l'essenza stessa della censura, ma anche perché sono una violazione della professionalità del bibliotecario, il solo che può decidere cosa conviene che entri o no in biblioteca, sulla scorta della visione strategica che ha del servizio bibliotecario e informativo nella sua comunità.

Detto questo, tuttavia, è appunto su questa professionalità che si dovrebbe approfondire la riflessione. Cosa significa innanzitutto essere professionali nel momento della scelta degli acquisti? Significa certo mettere in campo la conoscenza del patrimonio e quindi la consapevolezza di cosa è organico e cosa è estraneo alla sua crescita armonica e coerente; significa mettere in campo la propria esperienza che ci mette in grado di orientarci nel determinare la qualità delle opere e di presumere l'interesse di una pubblicazione in riferimento ai comportamenti di lettura individuali e di gruppo dei nostri utenti; significa valutare l'ingresso di un libro in un contesto più ampio che supera il perimetro fisico della nostra biblioteca e si allarga ad una rete più vasta, di cui conosciamo le peculiarità e le caratteristiche.

Naturalmente tutto questo va bene. Ma forse non basta. Perché, prima di tutto questo, forse professionalità significa riuscire davvero a spogliarci delle nostre idee e convinzioni; significa riuscire ad aprirci a punti di vista diversi e anche lontani dal nostro, significa vincere la tentazione di credere che le nostre idee, proprio perché nostre, siano quelle giuste.

Nel Codice deontologico dei bibliotecari svizzeri c'è una cosa che a me piace molto: tra le responsabilità cui il bibliotecario deve ottemperare si dice infatti che egli "in ogni circostanza deve operare con discernimento". Di per sé sembra un'affermazione banale, ci mancherebbe che si dicesse il contrario. Più interessante è invece la nota che definisce l'affermazione: "Operare con discernimento: il bibliotecario, la bibliotecaria si sforza di prendere coscienza delle sue preferenze e dei suoi pregiudizi e di farne astrazione nel suo lavoro".

E' questo esercizio di autoanalisi che mi sembra tanto utile quanto forse poco praticato. E' più facile, come fa il nostro codice, dire che il bibliotecario deve essere obiettivo e imparziale. Il problema è che tutti sono convinti di esserlo. Sono infatti convinto che se Prodi e Berlusconi fossero due bibliotecari, avremmo due biblioteche completamente diverse, ma entrambe fatte con l'assoluta buona fede di soddisfare le esigenze dei lettori, nel rispetto delle loro idee e con la più totale imparzialità.

Meno scontata invece è una prassi che, partendo da una analisi dei propri convincimenti più radicati, ci porti a capire fino a che punto la nostra intima visione del mondo influenza il nostro lavoro; meno scontato è il mettersi nei panni di chi ha una visione del mondo completamente diversa e capire non tanto fino a che punto noi siamo rispettosi delle sue idee (perché fin qui forse non ci sono molti problemi), ma soprattutto fino a che punto ci facciamo carico delle sue esigenze informative (e qui forse qualche problema comincia a esserci perché il rispetto delle idee è tutto sommato un esercizio passivo, un'affermazione di principio, mentre soddisfare bisogni informativi per assecondare idee che non condividiamo richiede un esercizio attivo, una forzatura che crea una contraddizione rispetto ai princìpi cui crediamo) .

C'è a volte nel nostro atteggiamento un aspetto che definirei "pedagogico": ci sentiamo cioè investiti della parte di chi deve educare il pubblico (educare certo ai valori di cui si dà per scontato siamo portatori: la libertà, la democrazia, la tolleranza, la solidarietà, anche se naturalmente si tratta della "nostra" libertà, della "nostra" democrazia, della "nostra" solidarietà…).

Ma questo problema rimanda a una domanda più generale, che richiama il tema del seminario di oggi e che può sintetizzarsi così: cos'è un comportamento etico, se riferito a un bibliotecario?

Se cerco mentalmente di far riferimento a un modello ideale di bibliotecario, mi vengono in mente per prima cosa alcune doti, quasi fossero qualità innate che il bibliotecario dovrebbe possedere naturalmente. Non so come dire, ma la dimensione etica del bibliotecario mi sembra che dovrebbe essere un "a priori", per ricorrere a categorie kantiane e per richiamare anche il Kant del "cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me". Una condizione cioè che precede la professione, più che una serie di regole e di comportamenti da elencare in una carta dei doveri e da applicare nella professione.

Quali sono queste doti? Sono quelle legate ai valori che richiamavo prima e che si possono riassumere in un forte senso civico, una forte coscienza civile, una forte motivazione a contribuire alla crescita sociale e culturale della propria comunità, con tutto quello che naturalmente ne discende.

Capisco di peccare di eccessivo idealismo, ma credo che ognuno di noi abbia la percezione, anche solo confusamente, di esercitare una professione "nobile". Da dove deriva questa sensazione? Da tanti fattori: dal fatto ad esempio di sentirsi pienamente al servizio della collettività e questo è forse il dato più importante, la consapevolezza che ci salva nei momenti di maggiore frustrazione; dal fatto di sentirsi protagonisti del processo di sviluppo civile e culturale del contesto sociale in cui operiamo, dando un contributo concreto, che può essere toccato con mano, misurato; dal fatto di considerarci non astrattamente un baluardo a difesa dei principi fondanti della democrazia e di combatterne i nemici: i pregiudizi, l'emarginazione, l'ignoranza, l'esclusione, il razzismo, la censura.

Ci sentiamo nel nostro lavoro dalla parte giusta, dalla parte del bene e se la morale è appunto il saper distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ecco che questa consapevolezza è già alla base delle dimensione etica del nostro lavoro. A me pare quindi che, al di là di quello che è giusto formalizzare in qualche modo in un codice deontologico, in regole di condotta professionale, un comportamento etico è quello di sentirsi degni di questa nobiltà che avvertiamo, è quello di ispirare le nostre decisioni, i nostri atti a questo principio: non tradire la nobiltà del nostro mestiere.

C'è però anche un rovescio della medaglia, su cui vorrei soffermarmi molto brevemente, anche se la complessità del tema richiederebbe una riflessione ben più approfondita e articolata di quanto io sia in grado di fare.

Difatti in questa aura di nobiltà che circonda la nostra professione vedo anche un rischio, spesso inconsapevole, e per questo più sottile: sentirsi dalla parte giusta, dalla parte del bene può portare a credere di avere la verità in tasca, e che il nostro compito sia quello di convincere anche gli altri di questa verità. Il rischio della professione come "missione" e del bibliotecario quindi come "missionario": quante volte ce lo siamo ripetuti giocando spesso sull'equivoco della "mission" della biblioteca. Il rischio cioè di sentirsi troppo investiti della parte, tanto da assumere il ruolo di "portatori sani" di democrazia, se non di esportatore di valori, di cui ci sentiamo i veri depositari. Ora, voi capite bene che in un'epoca in cui si teorizza, e tragicamente si pratica, l'esportazione della democrazia con le armi, l'uso dell'equilibrio e della cautela in questo senso non è mai troppo.

Sappiamo dove porta questo atteggiamento: si parte dall'idea che la biblioteca è uno strumento per educare il popolo e si arriva alla necessità di preservare il popolo dalle letture ritenute pericolose o dannose o, appunto, "diseducative". Si arriva alla censura, naturalmente per il bene stesso del popolo.

Secondo me l'etica del bibliotecario deve essere vissuta "laicamente", non da missionari: il che significa coltivare sempre il dubbio, non avere troppe certezze da imporre come valori assoluti, mettersi continuamente in discussione, avere una mente aperta, soprattutto oggi che si vivono rapporti sempre più diretti con utenti che provengono da altre culture, da altre tradizioni, da altri credi religiosi.

Era Talleyrand, mi sembra, che ammoniva i suoi funzionari con un "Surtout, pas trop de zèle". Non penso che questo consiglio si possa inserire in un codice deontologico del bibliotecario, ma credo che non sarebbe male farne una piccola postilla a parte da tenere sempre a mente.

Maurizio Festanti, Biblioteca Panizzi - Reggio Emilia, e-mail: maurizio.festanti@municipio.re.it





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