«Bibliotime», anno XIII, numero 1 (marzo 2010)

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Giuliana Benvenuti

Ha ancora senso parlare di periodici di cultura? *



1. Premessa

Le riviste "di cultura" hanno subìto una prima profonda trasformazione nel corso dell'Ottocento, quando il processo di specializzazione ha condotto alla proliferazione di periodici a specifico carattere disciplinare [1]. Nel Novecento si è dato anche un processo inverso, la nascita di riviste interdisciplinari, contrarie all'eccesso di specialismo, volte all'intersezione dei saperi e a ribadire l'esigenza di uno sguardo articolato alle produzioni culturali. Questa esigenza non credo possa oggi dirsi esaurita, piuttosto coinvolge il piano della scelta del supporto più adatto a veicolare un progetto culturale e a istituire un rapporto con la sfera pubblica, vitale per una rivista di cultura.

"Il Politecnico" di Vittorini offre un buon esempio di apertura al dibattito culturale, in seno ad una pubblicazione estremamente innovativa anche per la veste tipografica e per l'originale interrelazione tra testi e immagini. Un periodico dalla precisa identità, che si occupava di cultura con proposte innovative e interdisciplinari e aveva alle spalle un editore che condivideva e appoggiava questa iniziativa di rinnovamento. In tema di innovazione occorre oggi riflettere sull'opportunità di mantenere il supporto cartaceo o di prediligere una versione on-line, che garantisce rapidità nella trasmissione del sapere e diffusione in molti casi maggiore, o ancora di utilizzare entrambi i supporti in modi potenzialmente innovativi. Il sistema peer review che viene proposto ai periodici di ambito umanistico dai criteri di valutazione che il Ministero sta mettendo a punto, introduce infine nuove prospettive.

Una buona domanda, da correlare a quella che dà il titolo a questo intervento è: esistono ancora editori in grado di esprimere una progettualità forte in ambito culturale, insomma editori "di cultura"? Questi interrogativi credo coinvolgano direttamente le difficili scelte e le nuove sfide che le Biblioteche si trovano ad affrontare in anni di profonda trasformazione del loro ruolo pubblico, sociale e culturale.

2. Editoria e università

Gli studi sul ruolo della mediazione editoriale nell'edizione di testi letterari ci rendono consapevoli del rapporto tra le modalità secondo le quali gli editori definiscono le caratteristiche delle loro edizioni e i gruppi di lettori ai quali si rivolgono entro un campo letterario definito [2]. Come scrive Marco Fumagalli, offrendo un'ottima sintesi:

In quest'ottica l'edizione di un testo, intesa come l'insieme degli atti che concorrono a farne un libro stampato e pubblicato, è un'operazione che veicola insieme al testo stesso, in proporzioni variabili da caso a caso, un'idea di letteratura, un'interpretazione, almeno alcuni aspetti di un'intenzione commerciale e le tracce di pratiche in senso lato culturali ben precise, propri delle figure che progettano o compiono gli atti dell'edizione, collocati nello spazio tra il testo originale e il lettore [3].

Un libro è dunque un oggetto culturale specifico che veicola, insieme al testo, anche un'idea di editoria e della relazione tra editore e lettori. Considerazione che va ovviamente estesa anche all'oggetto rivista e ci spinge a esaminare rapidamente la situazione dell'editoria nell'Italia contemporanea, nella quale si è realizzato un processo di concentrazione editoriale che ha riguardato, in misura più o meno rilevante, i principali paesi europei e gli Stati Uniti.

Dall'inizio degli anni Ottanta abbiamo assistito all'emergere sulla scena mondiale di una "industria globale della comunicazione" [4] i cui effetti sul mercato editoriale non sono privi di contraddizioni: a fronte della forte concentrazione della produzione libraria nelle mani di pochi editori che fanno parte delle grandi imprese di comunicazione, si è avuta per un verso la proliferazione dei piccoli editori, mentre per altro verso la nascita dei conglomerati ha dato luogo ad una situazione che viene ben riassunta dal titolo di un libro di Schiffrin, Editoria senza editori [5].

Su questa situazione ha riflettuto Ferretti, notando come si sia passati da un'editoria fatta dai grandi editori, portatori di ideologie e punti di vista identificabili sulla letteratura (Einaudi, Feltrinelli, etc.) a una strategia editoriale di breve periodo, volta alla vendita quale unico - o quasi - parametro di selezione dei libri da pubblicare [6]. Si tratta di una serie di modificazioni rilevanti che non si possono qui analizzare nel dettaglio. Basti un'osservazione di carattere generale: i conglomerati e la concentrazione della comunicazione significano controllo da parte di pochi sull'informazione, mentre fonti alternative di comunicazione o modi alternativi di intendere il mestiere dell'editore, il ruolo della letteratura e i modi nei quali produrre e diffondere cultura, sono relegati ai piccoli editori e a un pubblico ristretto, benché potenzialmente e di fatto allargato dalla comunicazione in Internet.

All'interno di questo quadro va collocato il ruolo dell'Università, che in Italia appare diverso rispetto alla situazione di molti altri paesi. Mi riferisco al fatto che l'Università in Italia non ha una produzione editoriale autonoma paragonabile a quella di altri paesi europei e degli Stati Uniti. Anche per questa diversa tradizione di rapporti con l'editoria, le università italiane spesso finanziano la pubblicazione degli studi prodotti al loro interno presso gli editori, molto spesso piccoli editori, fenomeno che dà luogo alla cosiddetta editoria assistita. Numerose riviste accademiche si trovano oggi in una situazione di dipendenza dai finanziamenti degli atenei o del ministero, il quale, come vedremo, sta cercando di introdurre regole che modifichino questa situazione. Anche per queste ragioni molti bibliotecari, costretti a fare i conti con i tagli di spesa, suggeriscono oggi di guardare alle riviste scientifiche se non altro come a modelli di utilizzo delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e di procedere dunque ad una graduale trasformazione delle riviste cartacee in riviste on-line, ma anche ad uno sfruttamento delle possibilità offerte dal canale e-prints e dalla "filosofia dell'open-access" [7].

3. Carta o web?

Prendiamo il caso concreto di tre diversi periodici che si rivolgono a pubblici differenti. Una rivista è accademica e strettamente letteraria, un'altra è sempre accademica, ma cerca l'incontro con la realtà extrauniversitaria e anche per questo è più aperta alle analisi interdisciplinari, la terza, infine, è meno settoriale, definiamola rivista di cultura, presupponendo che abbia tra i suoi scopi l'analisi culturale e la riflessione sulla ridefinizione dei saperi oggi in atto, e assumiamo, com'è verosimile, che solo quest'ultima trovi un editore interessato ad investire nel suo progetto. Tutte e tre queste riviste si porranno oggi questioni analoghe, legate alla loro sopravvivenza e diffusione, questioni che coincidono in molti punti con quelle che in altro contesto si stanno ponendo i bibliotecari. In modo particolare sono due i punti del dibattito che si incrociano:

  1. come sfruttare le opportunità del web;
  2. come abbattere i costi.

Le due questioni non sono certo separate, dal momento che l'eliminazione della rivista cartacea è uno dei mezzi per abbattere i costi. Tuttavia, per una rivista di cultura che non nasca come settoriale e accademica, la questione mi pare porsi in modo significativamente più complesso rispetto a come si pone per altre tipologie di periodico.

Una rivista di settore che ha come proprio principale obiettivo quello di far circolare tra gli specialisti, quasi tutti accademici o comunque in grado di accedere alle tecnologie necessarie per la consultazione on-line, i risultati di ricerche individuali o di gruppo, non incontrerà particolari difficoltà nella trasformazione on-line. A rigore, sarebbe auspicabile che gli articoli pubblicati da riviste di questo tipo fossero direttamente acquisiti e diffusi on-line dalle università, senza la mediazione di piccoli editori. Uno sforzo di partecipazione e collaborazione tra ricercatori, istituzioni universitarie e biblioteche potrebbe risolvere il problema con efficacia, anche creando archivi open access. Una trasformazione questa, materiale e culturale ad un tempo, che coinvolge l'idea stessa di biblioteca e delle sue funzioni di conservazione, diffusione e produzione del sapere.

Per affrontare la scelta tra veste cartacea e trasformazione on-line, oltre alle questioni del costo e della diffusione occorre portare la riflessione sulla trasformazione dei luoghi del dibattito culturale, in particolare per l'ambito letterario, che è quello che meglio conosco, sul progressivo spostarsi della discussione sulla contemporaneità fuori dalle riviste accademiche, soprattutto sui blog, o meglio sui litt-blog. In queste sedi a mutare è la natura stessa della comunicazione, le sue forme, che non sono più quelle codificate delle riviste accademiche, bensì quelle, molto meno formalizzate, di una discussione più o meno aperta e caratterizzata da interventi brevi, scritti spesso "a caldo" dentro un dialogo dai ritmi decisamente più serrati di quelli che può offrire il dibattito sulle riviste tradizionali.

Credo che si tratti di luoghi di discussione di grande interesse, che escono dal circuito dell'accademia, ma anche da quello del giornalismo culturale più tradizionale, da pagina della cultura per intenderci. Non credo tuttavia sia auspicabile, né in fondo possibile, che queste diverse forme di dibattito critico si escludano a vicenda; in altri termini immagino che continueranno a convivere e che, forse, la concorrenza dei blog potrà far scomparire qualche rivista più vicina a questo stile di comunicazione, ma non potrà sostituire le riviste di taglio accademico, che svolgono un'altra funzione, quella di una riflessione più ponderata, che necessita della forma saggistica per essere restituita al lettore.

A complicare il quadro, è necessario segnalare che esiste una sorta di disagio più profondo nella critica letteraria, che è stato espresso da critici autorevoli [8] e che riguarda il rapporto con il pubblico: in breve, il venir meno della funzione del critico come guida, colui che sottopone a vaglio la produzione letteraria e indirizza il pubblico, istanza di mediazione tra autore e pubblico. Si tratta di un disagio che non investe soltanto dei critici e dei periodici militanti, ormai pressoché scomparsi, ma riguarda il senso stesso della letteratura come forma di intervento sulla realtà, e in generale l'affievolirsi del rapporto tra critici letterari e lettori (un rapporto che ha sempre avuto nei periodici il proprio luogo di esistenza).

Insomma, la questione dei periodici di cultura si interseca con quella della funzione della critica, ovvero con le domande se sia ancora possibile creare luoghi di riflessione e selezione non fondata su parametri commerciali, e come raggiungere i lettori non specialisti. Per questo non bastano le riviste specialistiche, che piuttosto si rivolgono ad una ristretta comunità scientifica, né bastano i giornali, che non offrono spazi sufficientemente autonomi ed ampi. Quanto ai periodici di cultura, possiamo affermare che essi svolgono una funzione specifica e insostituibile, ma faticano a raggiungere il pubblico.

Converrebbe dunque pensare, per molti di essi, a una trasformazione che li renda più accessibili. Anche di diffusione, anzi principalmente di diffusione, per non dire di sopravvivenza, in molti casi si tratta, dal momento che se anche le biblioteche smettessero di abbonarsi a questi periodici la loro esistenza sarebbe ben poco garantita. La scelta di produrre una rivista on-line può seguire due intenzioni:

  1. far sopravvivere una rivista già cartacea;
  2. creare ex novo una rivista.

In entrambi i casi è il rapporto con il pubblico a mutare, ed è proprio questo a rendere più complessa la decisione nel caso delle riviste di cultura. Il lettore di tali riviste non è detto che apprezzi il passaggio on-line per questioni generazionali e di abitudini alla lettura. Inoltre, la decisione di mantenere il supporto cartaceo può essere legittimamente dettata dalla persuasione che questo tipo particolare di periodico sia confezionato e destinato ad una fruizione contigua a quella del libro, oltre ad avere una unità interna da salvaguardare (non solo nel caso del numero monografico). Se questi periodici sparissero dalle librerie e dalle biblioteche il loro pubblico potrebbe ridursi, piuttosto che ampliarsi. Per questa ragione molti editori non considerano, almeno per il momento, conveniente il passaggio all'on-line, ma piuttosto affiancano la versione on-line a quella cartacea.

In una situazione di fluidità come quella attuale, nella quale vecchie e nuove tecnologie convivono, così come convivono vecchi e nuovi media, ogni passo dev'essere ponderato. Se prendiamo l'esempio della convergenza tecnologica, possiamo osservare come dalla persuasione che i vecchi media sarebbero stati sostituiti dai nuovi e che si sarebbe passati da una fruizione su più media alla creazione di una macchina in grado di svolgere tutte le funzioni, alla constatazione che questo non è avvenuto pur essendo possibile sul piano delle tecnologie disponibili. In breve, la situazione attuale propone piuttosto la convivenza tra vecchi e nuovi media, dove i vecchi cercano di rendersi sempre più interattivi.

Forse qualcosa di simile sta investendo anche l'editoria: accanto ai libri, troviamo la loro versione consultabile on-line, e nelle nuove forme di narrazione trans- o cross-mediale anche una loro estensione on-line. Nel caso dei periodici queste forme di consultazione che prevedono diverse piattaforme non sono difficili da realizzare. Una rivista può avere una versione cartacea e una estensione in internet, ovvero non semplicemente un sito nel quale vengono riprodotti i contenuti della versione cartacea, bensì una estensione con contenuti diversi e la possibilità di forme interattive di dibattito e partecipazione.

Da queste trasformazioni le riviste di cultura sono chiamate in causa in una duplice dimensione: per un verso sono le sedi di analisi di questi fenomeni, per altro verso dovrebbero essere le prime ad avere la possibilità di sperimentare nuovi modi di interazione con il proprio pubblico.

4. Parametri di valutazione della ricerca e valutazione dei periodici

Nei mesi scorsi sono state pubblicate le proposte di un gruppo di lavoro delle aree 10 e 11 (Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche; Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche) istituito dal Consiglio universitario nazionale in merito alla valutazione della ricerca nell'area umanistica [9]. Al Cun è stato contestualmente affidato il compito di individuare i criteri che identificano il carattere scientifico o meno delle pubblicazioni (L. 9 gennaio 2009, n. 1, art. 3-ter).

L'identificazione dei criteri suddetti si interseca con la più ampia questione di come stabilire una scala di valori differenziati dei prodotti scientifici, che chiama in causa l'attività del CIVR (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca) e dell'ANVUR (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca). La valutazione del singolo prodotto si interseca a quella delle strutture di ricerca universitarie. Il punto è allora come pervenire alla valutazione di un' enorme mole di pubblicazioni, che sarebbe impossibile analizzare nel dettaglio.

La via d'uscita indicata dal gruppo di lavoro segue, non senza correttivi, il modello della valutazione dei prodotti della ricerca scientifica, proponendo di far pesare la sede editoriale delle pubblicazioni. Questa proposta si innesta su quelle formulate dal Cun in merito alla valutazione delle riviste (su quella delle case editrici non c'è ancora una proposta condivisa e possiamo immaginare che gli editori siano restii a lasciarsi classificare in fasce e posizionare su una scala di valore) che mirano alla creazione di una graduatoria divisa in sei aree di merito e costruita sulla base di un punteggio assegnato sui seguenti parametri: presenza di peer review anonima; livello di internazionalizzazione; presenza nei più importanti repertori internazionali; presenza in biblioteche italiane e straniere; regolarità e continuità di pubblicazione; presenza in rete.

L'applicazione di questi parametri avrebbe conseguenze di vasta portata anche in merito all'orientamento della futura produzione scientifica nell'area umanistica. Per questo è attualmente in corso un vivace dibattito entro il mondo delle riviste e all'interno delle società che raggruppano gli studiosi delle aree scientifico-disciplinari investite da questi probabili provvedimenti. Al di là del peso attribuito in percentuale diversa ai sei parametri individuati e ad alcune questioni di carattere bibliometrico, il dibattito si è incentrato sui possibili effetti di queste indicazioni per quello che riguarda la diversità delle riviste e dei settori nei quali esse operano, per alcuni dei quali certi criteri, in particolare quello dell'internazionalizzazione, risulterebbero limitanti. L'attenzione viene richiamata sulla pluralità dei comportamenti virtuosi, non necessariamente legata all'applicazione rigida di questi parametri.

Tra i criteri individuati spicca la presenza o meno in rete, che pesa per un 12% sulla valutazione. Infine, il criterio dirimente, che pesa per il 30%, è quello della doppia valutazione anonima e tra pari dei contributi, il sistema peer review, sul quale occorrerebbe forse una riflessione ulteriore. Per i periodici di area umanistica molti auspicano un maggiore riconoscimento del giudizio del comitato scientifico delle riviste, trattandosi in molti casi di contributi nei quali l'aspetto interpretativo e critico è determinante. Il sistema peer review è salutato come un positivo meccanismo di selezione dei materiali pubblicabili, tuttavia si teme che un doppio giudizio esterno sposti eccessivamente la responsabilità delle scelte all'esterno del comitato scientifico. Non pochi, per questo, preferirebbero che a un giudizio esterno si affiancasse, sempre anonimo per l'autore e per il revisore, quello di un interno.

La complessità e la delicatezza della formulazione di gradutorie di riviste è stata del resto toccata con mano durante l'iter accidentato del progetto dello European Reference Index for the Humanities, pensato dalla European Science Foundation nel 2001 [10]: la pubblicazione delle prime liste di graduatorie delle riviste umanistiche ha sollevato immediate e vivaci polemiche.

Per condurmi in conclusione ai problemi che incontrano le biblioteche, credo sia opportuno rilevare che in questa discussione non è stato previsto un loro ruolo attivo, nonostante la riflessione dei bibliotecari si sia fermata, per altri scopi, su questioni analoghe; ad esempio nel repertorio degli spogli dei periodici italiani curato nel 2004 da Enrico Martellini su iniziativa della Biblioteca Nazionale di Firenze [11] si incontrano criteri di classificazione delle riviste (tra i quali l'autorevolezza riconosciuta dalla comunità di riferimento che poggia su quella dei membri del comitato scientifico) che potrebbero integrare utilmente la discussione messa in atto dal Ministero.

Giuliana Benvenuti, Dipartimento di Italianistica - Università di Bologna, e-mail: giuliana.benvenuti2@unibo.it


Note

* Questo articolo riprende il testo della relazione tenuta in occasione del Seminario I periodici in biblioteca tra crisi e opportunità, Modena, Biblioteca della Fondazione San Carlo, 10 dicembre 2009.

[1] Michele Santoro, Il sistema periodico. Breve storia delle riviste tra comunicazione scientifica e pratica bibliotecaria, "Bibliotime", a. 7 (2004), 1, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-vii-1/santoro.htm>.

[2] Alberto Cadioli, La cultura editoriale, in Alberto Cadioli - Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale, Napoli, Liguori Editore, 2007, p. 4.

[3] Marco Fumagalli, Le edizioni Rosa e Ballo e Rizzoli del Bubù di Montparnasse: tra ragioni autoriali, traduttive e editoriali, in corso di stampa presso l'editore ETS negli Atti del Convegno annuale della MOD, Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria (Padova, Università degli Studi – Venezia, Università Ca' Foscari – 16-19 giugno 2009). Su questi aspetti cfr. l'ormai classico Roger Chartier, L'ordine dei libri, Milano, il Saggiatore, 1994.

[4] Bernard Guillou - Laurent Maruani, Les stratégies des grands groupes d'édition, "Cahiers de l'économie du livre", 1, 1991.

[5] André Schriffin, Editoria senza editori, Bollati Boringhieri, 2000.

[6] Per una riflessione sugli effetti della proliferazione di piccoli editori in Italia e più in generale per un quadro delle sue recenti trasformazioni cfr. Gian Carlo Ferretti, Storia dell'editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Torino, Einaudi, 2004; Les contradictions de la globalisation éditoriale, sous la direction de Gisèle Sapiro, Paris, Nuoveau Monde, 2009.

[7] Si vedano Antonella De Robbio, Gli archivi e-prints in Italia, "Bibliotime", 7 (2004). 1, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-vii-1/derobbio.htm>; Ead., Open Access all'UNESCO per un accesso universale alla conoscenza, "Bibliotime", 8 (2005), 3, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-viii-3/derobbio.htm>.

[8] Cfr. tra gli altri Cesare Segre, Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993; Romano Luperini, Breviario di critica, Napoli, Guida, 2002; Mario Lavagetto, Eutanasia della critica, Torino, Einaudi, 2005.

[9] Si veda il sito <http://cpl.lettere.unimi.it/archive/upld.smq7Tu.pdf>.

[10] Si veda il sito: <http://www.esf.org/research-areas/humanities/erih-european-reference-index-for-the-humanities.html>.

[11] Progetto RES. Repertorio degli Spogli dei periodici italiani. Sintesi dello studio di fattibilità, a cura di Enrico Martellini, <http://www.bncf.firenze.sbn.it/oldWeb/progetti/RES/Sintesi%20RES.pdf>.




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