«Bibliotime», anno XIV, numero 3 (novembre 2011)

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Anna Galluzzi

Biblioteche pubbliche tra crisi del welfare e beni comuni della conoscenza. Rischi e opportunità



Abstract

The essay intends to analyse future risks and opportunities for public libraries, starting from two important socio-economic phenomena: on the one hand, the evolution of public-private relationship and the crisis of welfare state; on the other, the deep change of goods and services in the knowledge economy. The analysis is carried out by means of an interdisciplinary approach, considering the bibliographic sources in the juridical and socio-economic domain. A situation of complexity comes out, which raises many doubts on the future of public libraries, since they are overwhelmed by more general events which they are not able to govern on their own.

1. Introduzione

Della biblioteca pubblica, del suo significato, della sua storia e delle differenze che ne hanno caratterizzato origini e sviluppo nei diversi paesi si è ampiamente e diffusamente dibattuto nella letteratura biblioteconomica italiana (Traniello, 1997; 2002; 2005) e internazionale (Black, 1996; Lowell, 1998; Bertrand, 1998, 1999 e 2006; Barnett, 1987), cosicché non se ne proporrà in questa sede l'ennesima panoramica descrittiva. Si dà dunque per acquisito che oggetto dell'analisi che segue è la biblioteca pubblica nella sua accezione tecnico-biblioteconomica, e dunque un modello di biblioteca che ha una sua precisa origine storico-geografica, ma che nei suoi elementi essenziali di carattere amministrativo e valoriale ha trovato ampia diffusione e consenso anche al di fuori del contesto iniziale.

La prospettiva di analisi punterà, in questo caso, ad identificare alcuni importanti aspetti della dinamica socio-economica contemporanea in cui le biblioteche sono immerse, allo scopo di analizzare rischi e opportunità emergenti per il futuro prossimo delle biblioteche pubbliche. L'orizzonte geografico-culturale preso in considerazione non è esclusivamente quello italiano (su cui pure si proporrà qualche riflessione specifica), bensì quello del mondo occidentale nel suo complesso che - per effetto dei fenomeni globali e sovranazionali - sembra attualmente accomunato da una medesima sorte.

Le due tematiche di contesto oggetto di analisi sono l'evolversi della dinamica pubblico/privato nelle società occidentali contemporanee e i processi di smaterializzazione dei beni e dei servizi all'interno dell'economia della conoscenza, tematiche peraltro strettamente correlate Una piena comprensione delle dinamiche che stanno attualmente investendo le biblioteche pubbliche deve, infatti, tener conto sia della loro natura giuridico-amministrativa, ossia dell'involucro formale nel quale sono inserite, sia di quella sostanziale, ossia del "mercato" cui appartengono e del ruolo che vi svolgono.

Nella seconda parte si proveranno ad enucleare i fattori emergenti dal contesto che giocano a favore delle biblioteche e che sembrerebbero aprir loro nuovi spazi di azione, e quelli che invece ne mettono a rischio l'esistenza sul piano materiale e/o su quello della rilevanza concettuale e fattuale.

2. La dinamica pubblico/privato(/comune?)

2.1. Analisi di contesto

Per quanto riguarda l'evolversi della dinamica pubblico/privato, una corretta lettura dei fenomeni in atto presuppone una riflessione sulla classificazione dei beni e un approfondimento sul percorso storico di quell'importante modello economico-sociale che è lo stato sociale.

Una classificazione definitiva e universalmente accettata dei beni all'interno del continuum pubblico-privato di fatto non esiste, in quanto i criteri adottati nel tempo da autori diversi ne hanno profondamente condizionato l'interpretazione (Samuelson, e Nordhaus, 1983; Musgrave, 1995). Nondimeno, si può affermare che tra i criteri più utilizzati per definire la natura dei beni ci siano la sovranità dell'individuo, ossia la possibilità che questi ha di effettuare una scelta libera, e la presenza di esternalità, ossia di ricadute (positive o negative) sulla società nel suo complesso (Brosio, 1986 p. 51). All'interno di questo orizzonte teorico si possono distinguere i beni pubblici puri, i beni sociali e i beni privati.

I beni pubblici puri sono quelli caratterizzati da non-rivalità (ossia il consumo da parte di un individuo non è alternativo né determina svantaggi rispetto alla fruizione di un altro individuo) e da non-escludibilità (ossia l'impossibilità o l'elevata difficoltà di escludere singoli o gruppi dalla fruizione del bene stesso). Si pensi ad esempio alla difesa nazionale, oppure più banalmente all'illuminazione cittadina. Per tali beni, in virtù delle caratteristiche appena citate, non entrano in gioco né la scelta dell'individuo né la valutazione delle esternalità.

I beni sociali sono quei beni rivali ed escludibili che, in virtù delle elevate esternalità positive, vengono sottratti al mercato allo scopo di preservare l'interesse collettivo e si distinguono in beni sociali puri e beni meritori. La differenza consiste nel fatto che per i beni sociali puri l'interesse collettivo coincide con la scelta dei singoli, mentre per i beni meritori la preferenza è espressa solo da una parte della collettività, però l'esistenza di valori condivisi (ossia valori che "il singolo, in quanto membro della comunità, è disposto ad accettare anche qualora questi siano in contrasto con le sue preferenze individuali", Musgrave, 1995 p. 186) convince il decisore politico a porre a carico del pubblico questi beni.

Così, ad esempio, mentre i servizi di assistenza sanitaria o quelli per la sicurezza dei cittadini sono beni sociali in quanto interessano l'intera collettività, l'istruzione ovvero gli asili nido sono beni meritori in quanto, pur essendo fruiti solo da una parte della comunità, sono di solito riconosciuti dall'opinione pubblica come un contributo al miglioramento della qualità di vita della comunità nel suo complesso e - in ogni caso - sono parte integrante dei valori condivisi e accettati dai suoi componenti. Di conseguenza, sono posti a carico del pubblico e finanziati dall'intera comunità. Se ne deduce che i beni meritori (ancora di più di quelli sociali puri) sono il risultato di una strategia e di una valutazione del soggetto pubblico e rientrano in un preciso orizzonte di valori politici e sociali e dunque, per continuare a restare nella sfera pubblica, devono "dimostrare" l'esistenza di esternalità positive e che queste siano anche percepite e condivise da parte della collettività e del potere politico (Arrow, 1951; Olivo, 2010 p. 104-112).

I beni privati, infine, sono quelli il cui beneficio è esclusivamente a vantaggio del singolo (quindi le esternalità sono assenti o minime) e la scelta di fruirne è totalmente a carico dell'individuo stesso. In realtà, i confini tra queste categorie sono fluidi e la collocazione di un bene nell'una o nell'altra non è né semplice né scontata. Infatti, al di fuori della categoria dei beni pubblici puri, si registrano tassi variabili di rivalità e di escludibilità, cosicché entrano in gioco i comportamenti collaborativi o competitivi dei singoli, studiati e rappresentati attraverso i noti esempi della "tragedia dei beni comuni" di Hardin (1968) e del dilemma del prigioniero [1] (Ostrom, 2006 p. 12-14). In particolare, Hardin dimostra che di fronte a un bene scarso e rivale, cioè un bene la cui disponibilità è limitata e si esaurisce con l'uso, il comportamento dei singoli e dei gruppi tende ad essere competitivo e a sfruttare la risorsa a proprio vantaggio (il fenomeno del cosiddetto free riding), sebbene questo tipo di comportamento esaurisca la risorsa più rapidamente con un conseguente svantaggio per tutti (si parla per questo di "tragedia dei beni comuni"). Il "dilemma del prigioniero" pone, invece, l'accento sul fatto che – in assenza di una possibilità di coordinamento attraverso la comunicazione e di informazioni complete – il principio di razionalità non paga, in quanto la scelta più razionale può rivelarsi quella meno conveniente sia per il singolo che per la comunità.

A fronte di questo panorama comportamentale, le scienze politiche e sociali hanno individuato due possibili soluzioni:

Qualunque sia l'approccio adottato, il presupposto di fondo è il medesimo, ossia l'impossibilità per le collettività di autogestirsi evitando la "tragedia dei beni comuni" e la necessità che un soggetto esterno imponga delle regole e un sistema di controlli nell'utilizzo di questi beni.

Le collettività organizzate hanno scelto nel corso del tempo i livelli di bilanciamento tra queste due soluzioni, ossia il grado di coinvolgimento e lo spazio di azione del soggetto pubblico (stato e sue articolazioni ed emanazioni) e del mercato, in altre parole l'estensione della sfera pubblica e di quella privata (Geuss, 2005). Generalmente il settore pubblico avoca a sé la responsabilità di tutti quei beni che non hanno rilevanza economica (come i beni pubblici puri), ovvero di quelli per i quali il mercato non garantirebbe un risultato ottimale in termini di efficienza ed efficacia (i cosiddetti "fallimenti del mercato", Pareto, 1896) o ancora di quelli che – pur in presenza di un possibile mercato –, in virtù dell'elevato grado di esternalità positive, devono essere difesi dalla "tragedia dei beni comuni" (come i beni meritori e quelli sociali puri).

L'estensione della categoria dei beni sotto la responsabilità dei soggetti pubblici varia, però, da stato a stato e si è modificata nel corso del tempo, anche in relazione all'evolversi del concetto di stato sociale.

Lo stato sociale (concetto simile sebbene non del tutto coincidente a quello di welfare state) (Ritter, 1996; Esping-Andersen, 1990, 1996, 1999 e 2002) è un sistema politico-economico-sociale che si fonda sul principio di uguaglianza sostanziale, da cui deriva la finalità di ridurre le diseguaglianze sociali. Esso si propone di fornire servizi e garantire diritti considerati essenziali per un tenore di vita accettabile, dall'assistenza sanitaria e d'invalidità alla pubblica istruzione, dall'accesso alle risorse culturali al sostegno a chi è disoccupato. Le risorse necessarie alla gestione ed erogazione di questi servizi provengono dal bilancio dello Stato (e sue articolazioni, secondo i principi di sussidiarietà in essere nei diversi paesi) che allo scopo attinge alla cittadinanza mediante il prelievo fiscale, di solito proporzionale al reddito. Scopo dello stato sociale è quello di garantire la libertà personale e l'autodeterminazione mediante la liberazione dei cittadini dalla dipendenza materiale (Sennett, 2006).

Le origini dello stato sociale si possono far risalire alla seconda metà del XIX secolo e sono strettamente connesse ai fenomeni dell'industrializzazione e dell'ascesa della classe proletaria; rispetto ai quali tale modello venne utilizzato primariamente come strumento di pace sociale (Stein, 1921).

È difficile fare un discorso unitario quando si parla di stato sociale, perché contesti statali, culturali e sociali differenti hanno sviluppato fin dal principio sistemi con caratteristiche diverse e hanno adattato l'idea originale di stato sociale all'evoluzione della situazione socio-economica (Esping-Andersen, 1990; Masulli, 2003). In generale, i modelli adottati in contesti e momenti storici differenti sono diretta conseguenza dell'interpretazione più o meno estensiva del concetto di bene e servizio pubblico.

Negli ultimi decenni, in conseguenza di due accelerazioni coincise con la crisi economica degli anni '70 e con la caduta del muro di Berlino e del modello economico-politico del socialismo reale, si è assistito alla messa in discussione ideologica e pratica delle politiche di welfare e a un tendenziale – e in certi casi deciso – spostamento verso l'ampliamento degli spazi di gestione privata, ossia l'affidamento di un numero crescente di servizi alla libera dinamica del mercato. Qualcuno parla di vera e proprio vittoria del capitalismo e dell'avvio di una fase che, in concomitanza con la globalizzazione dei mercati, è stata definita di turbo-capitalismo (Luttwak, 1998; Sennett, 2006). Lo stato sociale è stato messo in discussione dalle fondamenta, in favore di una visione liberistica e di una fiducia allargata nei confronti della capacità del mercato di comporre gli interessi dei singoli all'interno di un quadro di benessere collettivo.

In alcuni casi la proprietà di questi beni è stata trasferita a soggetti privati, altre volte invece responsabilità e controllo (la cosiddetta governance) sono rimasti nelle mani degli enti pubblici, mentre la gestione è stata privatizzata allo scopo di ottenere risultati migliori in termini di efficienza a fronte di risorse pubbliche sempre più scarse e di un costo crescente di questi servizi.

In questo panorama già piuttosto complesso è andata a innestarsi una delle peggiori crisi economiche dell'ultimo secolo, quella che ha cominciato a far sentire i suoi devastanti effetti tra il 2007 e il 2008 (mettendo in ginocchio le economie nazionali) e che ha spinto molti economisti ed osservatori verso un atteggiamento più critico nei confronti del turbo-capitalismo e delle sue incontrollabili – e fragili – basi finanziarie. Il dibattito ideologico tra sostenitori del pubblico e del privato ha trovato nuova linfa e nuova materia di discussione, senza che si sia però riusciti a dare una risposta convincente e non puramente ideologica alle sfide future (Pennacchio cur., 2010).

È stata, inoltre, sollevata qualche perplessità rispetto alla dicotomia pubblico/privato ed ha cominciato a farsi largo un concetto (e una categoria di beni) che si colloca a metà strada tra il pubblico e il privato, ossia i beni comuni (Ostrom, 2006; Shirky, 2010 p. 135-151). Si tratta di risorse collettive scarse e rivali che, anziché essere cedute da parte della collettività alle istituzioni pubbliche o al mercato, sono autogestite attraverso accordi che i gruppi stessi si danno e aggiornano nel corso del tempo in relazione alle sopravvenute esigenze. Si deve, in particolare, agli studi di Elinor Ostrom (2006) l'approfondimento dei meccanismi che sono alla base della gestione dei beni comuni, e anche l'emergere della necessità di una riflessione supplementare che permetta da un lato di valutare i margini di applicabilità di questo concetto (se cioè solo su scala locale o anche più estesa, se non addirittura globale), dall'altro di considerare le possibili alternative al binomio pubblico/privato. Negli ultimi anni si parla sempre più spesso di beni comuni in riferimento a beni come la qualità dell'aria, gli equilibri dell'ecosistema ecc., la cui gestione va al di là degli spazi d'azione degli stati, ma che proprio per questo sono sfruttati senza scrupoli e senza l'emersione di responsabilità sociali; il concetto di bene comune tende tuttavia ad estendersi man mano che si riconosce la possibilità e la necessità di un coinvolgimento della collettività nella gestione della "cosa pubblica".

2.2. Il posizionamento delle biblioteche pubbliche

Il fatto che queste biblioteche siano state denominate "pubbliche" fin dal principio dimostra di per se stesso che la dinamica della relazione pubblico/privato è centrale per comprenderne la storia passata nonché la vicenda presente; in particolare, le diverse possibili interpretazioni del concetto di pubblico, la varietà di categorie che in esso sono racchiusi e l'evoluzione nel corso del tempo del peso relativo di tali categorie hanno inciso profondamente sulla forma che queste biblioteche hanno assunto in aree geografiche e culturali diverse e permettono - almeno in parte - di spiegare le difficoltà che le biblioteche pubbliche stanno attraversando nell'attuale fase storica.

Innanzitutto, è opportuno verificare se e in che modo le origini della biblioteca pubblica entrano in relazione con la nascita dello stato sociale. A questo proposito, è bene ricordare che gli studiosi di storia delle biblioteche concordano nel far risalire la genesi della biblioteca pubblica al contesto angloamericano della seconda metà dell'Ottocento, in diretta relazione con i mutamenti sociali determinati dalla Rivoluzione industriale e con la graduale estensione del concetto di stato sociale (Traniello, 1997; Black, 1996).

Il Public Libraries Act inglese del 1850 appartiene al complesso dei provvedimenti di riforma approvati nel periodo in cui la Gran Bretagna cominciava ad uscire dalla fase peggiore della rivoluzione industriale. Fin dalle prime elaborazioni di una storia complessiva dell'istituto, le origini della biblioteca pubblica anglosassone sono spiegate con riferimento al quadro degli interventi in campo educativo e, più genericamente, sociale a favore delle classi più deboli. La rivoluzione industriale costituisce, dunque, non solo il contesto storico di riferimento per la nascita dell'istituto, ma anche l'orizzonte concettuale entro il quale esso viene collocato fin dal principio (Traniello, 1997 p. 185-193).

È vero che non è mancata alle origini della public library in Gran Bretagna qualche dichiarazione circa il ruolo per così dire "universale" di tale istituto, a beneficio di tutti i cittadini e non di singoli gruppi o classi sociali. Ma a fronte di queste affermazioni di principio, innumerevoli sono le attestazioni di una concezione della biblioteca pubblica come rivolta in primo luogo, ed essenzialmente a quella classe sociale che nell'Europa continentale veniva identificata con il "popolo" e nella Gran Bretagna industriale era designata come working class.

La public library delle origini è una biblioteca liberamente accessibile a tutti, ma è anche un servizio gratuito per le classi lavoratrici, allo stesso modo delle iniziative assistenziali ed educative: la sua destinazione è quindi chiaramente e direttamente popolare ed è perfettamente in linea con l'idea di welfare che si andava sviluppando in Inghilterra in quegli anni, ossia un intervento dello stato rivolto primariamente alla working class a fini di pacificazione e di stabilità sociale (Gaggi, e Narduzzi, 2006 p. 3-12). Non sorprende dunque che nella documentazione del tempo una buona parte degli esponenti della classe politica liberale vedesse la public library a supporto della morale sociale nel senso da essi auspicato e, soprattutto, dell'ordine politico, contro le spinte sovversive provenienti anche dalla diffusione di una letteratura non facilmente controllabile, in una logica complementare e parallela rispetto a quella da cui erano nati i provvedimenti che riguardavano il mondo del lavoro (Traniello, 1997 p. 135-138).

L'aspetto più originale e innovativo del Public Libraries Act consiste semmai nel far leva direttamente sul sistema del self-government per l'istituzione e il mantenimento di queste biblioteche. Si tratta, in pratica, di una legge che abilita le amministrazioni locali a istituire, a spese dei propri contribuenti, un servizio che - soprattutto all'inizio - è avvertito solo da pochi come veramente essenziale. La public library è, dunque, un istituto locale non in quanto frutto di una decisione di decentramento da parte dell'autorità statale, ma in quanto nasce - in ogni singolo caso - per decisione di un'amministrazione locale che verrà a configurarsi come library authority e che si assumerà la piena e diretta responsabilità di tale istituzione. Tale responsabilità ha un carattere estremamente concreto e si esprime anzitutto sul terreno finanziario, mediante un'imposta che viene prelevata per questo specifico servizio e la cui introduzione è soggetta all'approvazione da parte della maggioranza dei contribuenti (Traniello, 1997 p. 241-243; 247-250).

La novità sostanziale della public library sta nel fatto che essa viene pensata come un servizio la cui attenzione è demandata esclusivamente alla libera scelta dei cittadini, i quali contestualmente se ne assumono la responsabilità finanziaria. Quanto di più lontano, da questo punto di vista, dalle biblioteche "pubbliche" nate per lasciti di privati, o per volontà di un principe, o anche per decisione di un'amministrazione locale assunta senza alcun coinvolgimento della popolazione e con l'intenzione più o meno palesemente espressa di approfittare di un eventuale apporto da parte di un altro ente amministrativo di grado superiore (Traniello, 1996 p. 279-285).

La configurazione giuridica della public library angloamericana appare, dunque, quella tipica di un bene meritorio, ossia di un bene che, pur operando a beneficio di una parte della collettività, è considerato dall'istituzione pubblica dotato di esternalità positive tali da porlo a carico della fiscalità pubblica (sottraendolo così al mercato). La particolarità della public library sta però nel fatto che tale riconoscimento da parte dello stato è sottoposto al controllo di legittimità locale, dal momento che l'istituzione e il mantenimento di queste biblioteche è a carico del governo locale e solo dietro approvazione della comunità relativa.

Come ci fa notare Paolo Traniello, la necessità per la public library di creare e allargare il consenso intorno a sé e giustificare agli occhi dell'intera comunità di riferimento l'opportunità della sua esistenza e del suo finanziamento è stata decisiva per il suo definitivo sviluppo (Traniello, 1997 p. 250-256). La public library delle origini rappresenta, dunque, un'originale categoria di bene, sostanzialmente meritorio a livello statale, ma di fatto trattato a livello locale come un bene comune, in quanto sottoposto alla scelta (sebbene non gestito direttamente) dalla comunità di riferimento.

Rispetto alla collocazione delle biblioteche pubbliche all'interno della categoria dei beni pubblici, Paolo Traniello ha inoltre sottolineato l'importanza della vicenda francese a seguito della Rivoluzione in particolare per le sue ricadute sul futuro sviluppo del servizio bibliotecario pubblico nell'Europa continentale (Traniello, 1997 p. 30-51).

Il decreto dell'Assemblea costituente del 2 novembre 1789 stabilisce che "tutti i beni ecclesiastici sono a disposizione della nazione", e dunque la massa più ingente di raccolte librarie allora esistenti in Francia esce dall'alveo istituzionale in cui erano state fino allora costituite e custodite per entrare a far parte della categoria dei "beni nazionali". Nel concetto di beni nazionali viene posta in primo piano la stessa idea di nazione, con i tre significati che questa idea ha assunto nella Rivoluzione: sociale, politico e storico.

Sul piano sociale, la nazione si configura come un corpo di cittadini uguali, anzitutto davanti alla legge, ma anche, almeno in prospettiva, nella possibilità di accesso ai beni. Se il principio di eguaglianza affermato dalla Rivoluzione non intacca la proprietà privata, esso tuttavia certamente comporta la disponibilità comune dei beni nazionali; il pubblico delle biblioteche diventa pertanto la nazione stessa. Sul terreno politico, al centro dell'idea di nazione si colloca il concetto di unità, cui fa da corollario quello dell'assoluta indivisibilità del paese. Ne consegue sul piano bibliotecario una tendenziale centralità organizzativa, per cui ogni biblioteca pubblica viene considerata di pertinenza statale. Infine, nel suo significato storico, l'idea di nazione comporta la salvaguardia e la valorizzazione dei documenti della storia nazionale. Si stabilisce, inoltre, che le raccolte librarie, come d'altra parte l'insieme dei documenti ai quali era attribuibile un valore storico di testimonianza culturale, non avrebbero potuto essere oggetto, come previsto per gli altri beni nazionali, di atti di alienazione a fini di politica economica.

Nel caso francese, le finalità delle biblioteche pubbliche sono cambiate nelle diverse fasi della vicenda rivoluzionaria in ordine alla destinazione specifica per esse individuata: dall'educazione rivoluzionaria al sostegno di un nuovo sistema scolastico nel quale si potesse integrare anche la pubblica lettura degli adulti. Inoltre, l'ente territoriale di volta in volta prescelto per la raccolta dei libri e la costituzione delle biblioteche non è mai stato riconosciuto come protagonista e responsabile del servizio bibliotecario, ma solo come spazio locale in cui organizzare beni e strutture di interesse e di appartenenza direttamente ed esclusivamente nazionali (Traniello, 1997 p. 30-51).

La declinazione francese della biblioteca pubblica si avvicina, dunque, più al concetto di "bene pubblico puro" piuttosto che a quello di "bene meritorio", in quanto si inserisce in una politica nazionale di gestione e valorizzazione di un patrimonio culturale la cui fruizione è considerata sostanzialmente non rivale e non escludibile. La nazionalizzazione del patrimonio bibliotecario in funzione della realizzazione di un sistema di biblioteche pubbliche è una risposta all'idea che il patrimonio culturale appartiene a tutti i cittadini e che le sue esternalità positive e la sua fruizione devono restare disponibili a tutta la nazione. Nel contesto francese rimane, invece, del tutto sullo sfondo il valore sociale del bene "biblioteca", così come è molto marginale la considerazione della biblioteca come servizio pubblico che, al contrario, è presente e chiara fin dall'origine nel mondo angloamericano.

La differenza tra queste due realtà culturali si riconosce, dunque, sia a livello di soggetto pubblico titolare del bene (stato o comunità locali), sia di accezione del concetto di bene pubblico, sia di funzionalizzazione del bene all'erogazione di servizi, sia di natura degli eventuali servizi erogati. L'impianto concettuale francese accomuna molte nazioni dell'Europa continentale, dove non a caso la normativa statale ha continuato per lungo tempo a riguardare solo le biblioteche concepite come strutture di conservazione di raccolte librarie stratificatesi nel tempo o istituite come supporto alla ricerca alta.

Anche l'idea della biblioteca come istituto di educazione e di informazione rivolto primariamente ai ceti socialmente subalterni ha trovato spazio nell'Europa continentale, ma è rimasta in buona parte priva di legittimazione e sostegno dello stato centrale; queste biblioteche dette "popolari" sono state a lungo lasciate all'iniziativa di singoli gruppi e sono rimaste sostanzialmente emarginate rispetto alle politiche nazionali. Tale è stato, ad esempio, il caso italiano, dove la vicenda della biblioteca popolare dall'unità all'avvento del fascismo si è svolta su due diversi piani: quello delle iniziative di "educazione popolare", parallele ed attigue alla faticosa realizzazione di un sistema scolastico nazionale di base, e quelle dovute ad enti ed associazioni legati al nascente movimento socialista (Traniello, 1997 p. 144-156; Vecchiet, 2011).

Lo sviluppo successivo della biblioteca pubblica nei diversi paesi è stato profondamente condizionato dalle premesse iniziali e dall'inquadramento giuridico che ne ha caratterizzato le origini nelle diverse realtà nazionali.

In particolare, nel mondo angloamericano la public library ha seguito le orme del welfare state e del suo rapporto col modificarsi della composizione sociale. Un fattore determinante per gli sviluppi della public library è stato l'andamento del "matrimonio d'interesse" tra il sistema dei servizi pubblici e l'espansione del ceto medio, vera spina dorsale delle società occidentali nel corso del Novecento e principale motore dell'economia nazionale anche grazie al sistema di protezione e alle garanzie costruite dalle politiche sociali (Gaggi, e Narduzzi, 2006 p. 13-21). In questa realtà, le public libraries da un lato hanno contribuito ad accrescere le possibilità formative e informative di questo ceto medio in espansione, legittimando e rafforzando tale struttura sociale (e dunque operando in linea con le politiche nazionali), dall'altro, hanno potuto contare sull'allargamento numerico del pubblico di riferimento, i cui bisogni e le cui possibilità si sposavano perfettamente con le finalità di un servizio gratuito sostenuto dalla fiscalità locale.

Nei contesti in cui le biblioteche pubbliche erano considerate "beni pubblici" di carattere culturale più che sociale, inseriti negli interessi nazionali più che legati alle comunità locali, beni patrimoniali più che servizio pubblico, il loro legame con lo stato sociale si è instaurato su altri piani: in particolare la loro sorte ha seguito da vicino le alterne fortune che la cultura (nel suo rapporto con il sistema scolastico, il benessere collettivo e il turismo) ha avuto nelle politiche nazionali.

Il caso italiano, in un certo senso, è un sistema misto dal momento che entrambe le interpretazioni hanno trovato applicazione, sebbene in maniera ambigua e mai del tutto chiarita dal punto di vista normativo. Ci si trova così di fronte sia a biblioteche pubbliche statali chiamate a rappresentare la cultura scritta del nostro paese, sia a biblioteche territoriali che aspirano a fornire un servizio formativo e informativo ai cittadini (Traniello, 2002 p. 315-335).

Per quanto riguarda queste ultime, è stata l'attuazione del dettato costituzionale in merito al decentramento regionale la spinta primaria alla realizzazione di un sistema di biblioteche pubbliche legate alle comunità locali e in qualche modo ispirate al modello che si era da tempo sviluppato in Gran Bretagna e, seppure con qualche accento diverso, nell'Europa settentrionale. Tutto questo è però avvenuto in Italia negli anni Settanta, anni in cui gli equilibri politico-sociali si erano ampiamente strutturati come conseguenza della ricostruzione del dopoguerra e del boom economico degli anni Cinquanta. Dice bene Traniello quando afferma che

La proposta di applicare in Italia l'istituto della biblioteca pubblica di derivazione anglosassone appariva, allora, insieme tardiva e prematura. Era tardiva perché le istanze culturali e le esigenze informative che si erano poste all'origine dell'istituto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e più tardi in Europa settentrionale […] erano intrinsecamente legate a una fase del processo di industrializzazione e della vita politica che non corrispondeva più, se mai vi aveva corrisposto, all'organizzazione del mondo del lavoro e delle classi sociali presente in Italia, dove una possibile aggregazione culturale, soprattutto dei ceti medi, veniva allora immaginata mediante l'uso di strumenti totalmente diversi.

Ma era nel contempo sotto altri aspetti prematura, perché la stessa realtà della biblioteca pubblica si era, lungo un secolo di storia, profondamente evoluta; si sarebbe quindi trattato, da questo punto di vista, di realizzare strutture bibliotecarie assai più complesse e avanzate di quelle che erano sorte nel mondo anglosassone alla metà del secolo precedente, disegno per il quale mancavano, nell'Italia di allora, non solo la volontà politica e i mezzi finanziari, ma la stessa base sociale che avrebbe dovuto sostenerlo (Traniello, 2002 p. 206).

3. L'economia della conoscenza e la convergenza al digitale

3.1. Analisi di contesto

L'altro importante fenomeno di contesto che può certamente contribuire a gettare luce sulle prospettive future delle biblioteche pubbliche è il ruolo della conoscenza nella dinamica economica e tecnologica contemporanea. La gestione della conoscenza è uno degli interessi più antichi manifestatisi all'interno delle società organizzate. Non v'è dubbio, però, sul fatto che negli ultimi decenni la conoscenza sia stata una delle principali protagoniste delle dinamiche sociali, economiche e tecnologiche e che sia diventata il principale motore di produzione della ricchezza mondiale, come esito di un lungo processo che ha visto modificarsi profondamente il panorama economico-sociale internazionale (Drucker, 1999; Rooney, Heam, e Ninan, 2005; Grazzini, 2008; Sennett, 2006).

Nello specifico, questo processo potrebbe essere fatto risalire al momento in cui, dopo l'abbandono delle campagne e la lunga fase industriale e manifatturiera, il peso relativo dei servizi (il cosiddetto terziario) crebbe progressivamente portando con sé un parallelo cambiamento sociale, quello che ha visto il ridimensionamento numerico e del peso politico del proletariato a vantaggio del ceto medio, vero e proprio collante politico ed economico delle società occidentali nel corso del Novecento. Il ceto medio, infatti, è stato il protagonista quasi assoluto dell'economia nel passaggio dal secondo al terzo settore, diventando il principale produttore della ricchezza nazionale cui lo stato, a sua volta, destinava buona parte delle politiche sociali per garantire quel benessere diffuso che faceva del ceto medio il principale sostenitore degli equilibri politici, nonché il mercato primario di assorbimento del surplus produttivo che esso stesso contribuiva a determinare (Gaggi, e Narduzzi, 2006 p. 3-12).

All'interno di un contesto ormai dominato dall'economia di servizi, il processo di saturazione dei mercati ha fatto sì che nel tempo l'attenzione si spostasse progressivamente sugli aspetti soft delle transazioni economiche, sul valore simbolico dei beni e dei servizi, sulla creazione di senso e sul contesto esperienziale di fruizione. Poi, l'emergere del fenomeno della globalizzazione, l'avvento delle nuove tecnologie e il ruolo preponderante delle transazioni finanziarie nella produzione di ricchezza hanno ulteriormente e definitivamente modificato il panorama economico-sociale e hanno cominciato a delineare le caratteristiche di quella che è stata chiamata società informazionale o anche network society.

Da un lato, la possibilità di attingere alla forza lavoro disponibile a livello globale, di gran lunga meno costosa e meno vincolata da rigidi meccanismi di protezione sociale, la saturazione produttiva dei mercati occidentali e la successiva crescita di nuovi mercati su scala globale hanno determinato la fine dell'unitarietà del processo produttivo e il fenomeno della delocalizzazione della produzione e della manodopera. Dall'altro, la centralità assunta dalle nuove tecnologie nel mercato finanziario globale ha rapidamente spostato l'attenzione dei protagonisti dell'economia occidentale dalla fase di produzione a quelle di ideazione, innovazione e creazione di senso, segnando il passaggio a un'economia immateriale i cui motori trainanti sono la ricerca, la produzione e lo sfruttamento della conoscenza, quella che è stata da molti denominata "economia della conoscenza".

L'attuale stadio del capitalismo [...], che secondo Drucker inizia a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, è [...] caratterizzato della [sic!]"rivoluzione manageriale", in particolare dal "management delle conoscenze" che sostituisce il "management dei lavoratori" dell'epoca taylorista e fordista. L'economia diventa economia della conoscenza, e i lavoratori diventano prevalentemente lavoratori della conoscenza. L'economia della conoscenza porta il sapere formale a prevalere su quello concreto, la scienza sulla tecnologia, e trasforma la scienza collegandola strettamente alla creazione del valore economico. Le innovazioni di prodotto diventano sempre più rapide e importanti e dipendono in larga misura da scoperte e invenzioni prodotte da università e laboratori scientifici (Grazzini, 2008 p. 4).

Il mondo del lavoro è andato così trasformandosi sempre più nella direzione della mobilità, della flessibilità e della fluidità, e ha finito per premiare i singoli e i soggetti collettivi (pubblici e privati) capaci di rinnovarsi rapidamente, di partecipare alla elaborazione di idee di successo e di aggiornare continuamente il proprio bagaglio conoscitivo, adeguandolo alle mutate esigenze, anche se ciò ha significato lasciare indietro parti sempre più estese della società.

È accaduto dunque che, mentre all'avvento dell'economia della conoscenza il ceto medio aveva continuato ad essere protagonista delle dinamiche economico-sociali, l'affermarsi del capitalismo finanziario e della network society ha segnato il passaggio del testimone tra una classe stabile e conservatrice qual era appunto il ceto medio e il gruppo dei knowledge workers. Questi ultimi sono caratterizzati da un'eterogeneità sociale che non ne fa una classe sociale in senso tradizionale, ma sono accomunati dal coraggio di rischiare rinunciando a progetti a lungo termine, dalla disponibilità a reinventarsi continuamente e dalla capacità di produrre innovazione.

Tale passaggio ha innescato un processo di polarizzazione sociale che, di fronte all'erosione del ceto medio, vede concentrarsi potere e ricchezza in un numero sempre più limitato di persone, mentre si va delineando un nuovo proletariato che ha accesso a una grande varietà di servizi non già in virtù delle politiche sociali attuate dal welfare e del surplus economico garantito dal lavoro - come accadeva per quello nato dalla rivoluzione industriale -, bensì grazie all'avvento del low cost in ogni settore produttivo e di servizio (Gaggi, e Narduzzi, 2006 p. 45-53; Grazzini, 2008 p. 150-151). Si tratta di una base sociale estesa e poco omogenea che, pur godendo di minori garanzie rispetto al vecchio ceto medio, ha possibilità addirittura più ampie. Infine, alla base della piramide sociale c'è un gruppo ancora più numeroso di "nuovi poveri" e di "nuovi esclusi", la cui situazione socio-economica è tale da non rendere possibile neppure la fruizione dell'offerta low cost. Si tratta di una configurazione sociale che è stata resa tanto più visibile e portata all'attenzione mondiale dalla crisi economica degli ultimi anni (Castells, e Himanen, 2006 p. 93-118).

Questa struttura economica e sociale sembrerebbe mettere in discussione gli stessi presupposti del welfare state; da più parti si fa osservare che la presenza dello stato come proprietario e gestore unico di beni e servizi per i cittadini, oltre che essere causa di inefficienza, costituirebbe un ostacolo al pieno dispiegarsi delle potenzialità del mercato nel sostenere benessere, progresso e innovazione. Si assiste così ad un appello quasi generalizzato alla liberalizzazione e privatizzazione dei servizi, nonché alla realizzazione della massima flessibilità del mondo del lavoro. Tuttavia, esistono degli studi che dimostrano l'esistenza di esperienze alternative nel panorama occidentale, come ad esempio quella finlandese, analizzata da Castells e Himanen (2006).

I due autori mettono in evidenza che, negli ultimi decenni, la Finlandia è diventata uno dei paesi con gli indici di crescita e innovazione più alti al mondo grazie al progresso nel settore delle nuove tecnologie e della comunicazione mobile, ma senza tradire - e anzi fors'anche grazie a - un forte welfare state universalistico caratterizzato da alti livelli di tassazione e alto gradimento della cittadinanza. Secondo Castells e Himanen, a completare la triade di motivazioni che spiega il successo finlandese ci sarebbe - accanto al ruolo esercitato dallo stato attraverso il welfare e a quello del mercato dell'innovazione tecnologica - un movimento proveniente dal basso basato sulla convinzione dei cittadini che il benessere collettivo sia un bene comune per cui spendersi in prima persona, anche sfruttando le nuove tecnologie [2].

In ogni caso, al di là della compatibilità o meno tra uno stato sociale forte e un'economia moderna e in crescita, resta sempre valido il principio per cui, nell'attuale panorama economico, la conoscenza, intesa come gestione dei contenuti informativi e dei flussi di comunicazione, possibilità di sfruttare i risultati della ricerca, capacità di sviluppare innovazione, è sempre più determinante, in particolare nella competizione globale che vede le economie occidentali in difficoltà a tenere il passo delle economie emergenti come la Cina e l'India, prima semplici serbatoi di manodopera a basso costo, ora sempre più incubatori di idee e di nuova conoscenza (Rampini, 2006; Dahlman, 2007; Gaggi, e Narduzzi, 2006 p. 55-60, 71-84). È dunque per questo che l'appropriazione privatistica di beni quali l'informazione, la conoscenza e i flussi comunicativi rappresenta uno dei principali obiettivi dei protagonisti dell'economia mondiale in qualunque settore (Hess, e Ostrom, cur., 2009 p. 3-27, 83-125; Grazzini, 2008, p. 95-117, 215-232).

La conoscenza, però, è per sua stessa natura un bene non scarso, non rivale e non escludibile, dunque un bene pubblico per eccellenza, in quanto la sua peculiarità sta nel fatto che maggiore ne è la circolazione, la fruizione e la condivisione, maggiori sono le probabilità di produrre nuova conoscenza. Una privatizzazione della conoscenza è, dunque, da un lato tecnicamente difficile - e lo è ancora di più in un'economia in cui la convergenza al digitale dei contenuti rende la riproducibilità degli stessi praticamente a costo zero - e dall'altro non è la scelta strategicamente più vantaggiosa (Hess, e Ostrom, cur., 2009 p. 3-27; Shirky, 2009 p. 21-61).

Non è possibile comprendere appieno lo statuto della conoscenza nel panorama economico attuale se non analizzando le profonde trasformazioni che Internet ha prodotto sui processi di produzione e circolazione del sapere e sulla natura stessa dei media. In particolare, si deve ricordare che negli ultimi anni la rete è andata progressivamente trasformandosi da canale di comunicazione monodirezionale e deposito di contenuti in strumento di partecipazione e di produzione collettiva della conoscenza. Fenomeni come Wikipedia, i blog, i social networks e, più in generale, gli strumenti del cosiddetto Web 2.0 rappresentano esempi diversi di un medesimo processo che si basa sull'amatorializzazione nella produzione di contenuti, sulla cosiddetta "saggezza delle masse", sul capovolgimento dei paradigmi classici del processo di pubblicazione (dal paradigma del "seleziona e poi pubblica" a quello del "pubblica e poi filtra"), sulla convergenza della comunicazione mediale al digitale (Shirky, 2009 p. 43-61; Shirky, 2010 p. 41-56).

Si è così andato delineando un aspro confronto tra quei soggetti che - forti della normativa sul copyright - sostengono criteri restrittivi di accesso ai contenuti della produzione intellettuale, e masse di utenti della rete che immettono contenuti disponibili liberamente e gratuitamente, nonché riutilizzabili integralmente secondo la filosofia propria del Web 2.0. Una lettura superficiale potrebbe far pensare che la contrapposizione sia tra i professionisti della conoscenza (in particolare soggetti e istituzioni che fin qui ne hanno curato la distribuzione) e la gente comune che invade la rete con contenuti inaffidabili e di scarsa qualità, spesso in violazione delle norme di copyright, ovvero tra il mondo commerciale e quello no-profit.

In realtà, i termini della questione sono molto più complessi e articolati, se è vero che anche importanti soggetti dell'area commerciale hanno deciso di sposare la logica della rete puntando su gratuità e partecipazione e sviluppando modelli economici alternativi in cui i guadagni (anche considerevoli) arrivano dalle quotazioni finanziarie e da pubblicità e accordi commerciali con terze parti, oltre che da forme di autofinanziamento; mentre le istituzioni tradizionalmente investite del ruolo di immagazzinamento, valutazione, indicizzazione e distribuzione dei contenuti - pur prive di finalità commerciali - non sempre credono nel modello open e partecipativo della rete e si convertono ad esso.

Allo stato attuale, dunque, il panorama è molto frastagliato: da un lato, infatti, ci sono gruppi di professionisti che cominciano a mettere in discussione il modello tradizionale di circolazione dei contenuti, a considerare l'impianto della normativa sul copyright in contraddizione con le sue finalità originarie e a chiederne una revisione che tenga conto del mutato scenario determinato dalla rete, finendo per passare, per così dire, tra le fila del nemico (si vedano per esempio i movimenti open access in ambito accademico) (Bailey, 2010; Guerrini, 2010). Dall'altro lato, il modello del "pubblica, poi filtra" e i meccanismi collaborativi che sono propri della dimensione partecipativa della rete stanno dimostrando di essere in grado di realizzare contenuti di qualità paragonabili a quelli realizzati dai professionisti e di avere una capacità di risposta e un tasso di aggiornamento di gran lunga superiori (Sachaf, 2009). Lo scontro frontale che si sta giocando in questi anni sul tema del copyright è, in un certo senso, la rappresentazione simbolica dell'irriducibilità di due mondi che approcciano la conoscenza e i contenuti intellettuali gli uni come beni scarsi e i secondi come beni non scarsi.

Su questo e su molte prospettive della rete in un'ottica sociale le posizioni di accademici e guru sono molto contrastanti. C'è chi – ad esempio Shirky (2009; 2010) e Benkler (2007) – vede le "magnifiche sorti e progressive della rete" e ritiene che una volta superata la monodirezionalità dei media tradizionali e, data la possibilità alle persone di svolgere un ruolo attivo e di partecipare alle conversazioni, il cambio di paradigma si possa considerare ormai avvenuto e sia destinato a produrre conseguenze sempre più profonde non solo rispetto al mercato della conoscenza, bensì anche rispetto alla società nel suo complesso.

C'è invece qualcun altro – leggi ad esempio Schirrmacker (2010) e Morozov (2011) – che non solo è scettico rispetto alla portata effettiva di questi fenomeni di partecipazione, ma soprattutto ne vede anche le possibili conseguenze negative. Ad esempio, Evgeny Morozov sottolinea che Internet in sé non è né buono né cattivo, bensì rispecchia le caratteristiche della società nella quale si sviluppa, così come il suo presunto supporto alla nascita di un nuovo tipo di democrazia basato sulla trasparenza e l'apertura dei governi non tiene conto che i governi democratici hanno bisogno proprio di tutte queste cose – segretezza, ipocrisia, rimozione – per operare in maniera efficace (Morozov, 2011 p. 245-274).

Non staremo qui a indagare le motivazioni che spingono le persone a usare il loro tempo per produrre contenuti senza un compenso economico, secondo quella che Castells e altri chiamano la logica hacker (Castells, e Himanen, 2006 p. 61-64; Ziccardi, 2011), né analizzeremo il fenomeno della lunga coda (Anderson, 2007) applicato alla "saggezza delle masse" (ossia quel fenomeno per il quale c'è quasi sempre uno zoccolo duro di persone che produce la gran parte di contenuti, e un numero elevatissimo di individui che contribuisce e partecipa in maniera molto limitata (Shirky, 2009 p. 92-98).

Il fatto è che si va delineando un panorama globale in cui l'informazione e la conoscenza fanno fatica ad essere tenuti artificialmente all'interno di recinti, creando scenari di aperto conflitto tra un'economia globale che ha fatto della gestione dell'informazione e del sapere un affare su scala planetaria, un potere politico per il quale la riservatezza è una delle condizioni fondamentali della governabilità (Morozov, 2011 p. 245-274), un mondo di professionisti dell'informazione e della conoscenza la cui esistenza affonda le ricerca nella scarsità del bene "conoscenza" tipica dell'epoca pre-Internet (Shirky, 2010 p. 29-56) e un movimento dal basso che mette in discussione tutti questi presupposti ed è in grado di creare una "sfera pubblica" alternativa, di moltiplicare i punti di vista, di produrre soluzioni nuove, ma anche di accrescere il disorientamento e di consentire nuove forme di manipolazione (Morozov, 2011).

Per di più, come osservatori e studiosi mettono in evidenza e vicende recenti sembrano dimostrare [3], questi fenomeni nati sulla rete spesso non restano limitati solo all'agorà virtuale, bensì si trasferiscono al mondo reale mettendo in connessione persone e movimenti che fino a poco tempo fa non ne avrebbero avuto l'occasione, mobilitando gruppi sempre più ampi di cittadini, costruendo un'opinione pubblica alternativa a quella dei canali mediatici tradizionali. D'altra parte, non si deve dimenticare che la stessa rete, che da un lato sembra aver favorito un modello inclusivo e partecipativo, dall'altro ha favorito la nascita di quella new economy che ha portato con sé il turbocapitalismo, modello economico basato sullo strapotere finanziario e sull'esclusione di gruppi e ceti sociali incapaci di tenere il passo del rapido cambiamento (Luttwak, 1998; Sennett, 2006).

3.2. Il posizionamento delle biblioteche pubbliche

Tutti i fenomeni che sono stati analizzati nel paragrafo precedente riguardano molto da vicino le biblioteche, in quanto queste sono tradizionalmente uno degli attori del "ciclo del sapere", nello specifico il soggetto che si occupa – non necessariamente in via esclusiva - di immagazzinare, indicizzare, distribuire e promuovere i prodotti dell'industria editoriale. Il segmento di mercato in cui si collocano le biblioteche, insieme a numerosi altri soggetti pubblici e privati, è dunque quello della conoscenza; di conseguenza, tutto ciò che impatta su produzione e circolazione della conoscenza è di interesse primario per le biblioteche.

Dunque, la centralità acquisita dall'informazione e dalla conoscenza nell'economia contemporanea potrebbe dare alle biblioteche quello che in termini manageriali si chiama vantaggio competitivo, in quanto garantisce una posizione di primo piano a quelle istituzioni che, nel mare magnum dei contenuti immessi quotidianamente sulla rete, svolgono una funzione di selezione e valutazione basata sui criteri dell'affidabilità e dell'autorevolezza, ovvero favoriscono lo svilupparsi dello spirito critico del cittadino-utente di Internet e creano opportunità di elaborazione di idee e innovazione.

Non è un caso che le economie maggiormente in crescita e che dimostrano di avere maggiori possibilità di far fronte alla recessione economica e di rilanciarsi sono quelle che investono di più sul settore della ricerca e sviluppo, valorizzando le università, la formazione continua, la disponibilità estesa di accesso alla rete, la possibilità di fruire ampiamente delle risorse informative digitali e cartacee. È questo ad esempio uno dei punti di forza del succitato modello finlandese, nel quale il ruolo dello stato è in buona parte finalizzato a garantire un'elevata qualità e un'ampia disponibilità di questi servizi (Castells, e Himanen, 2006 p. 157-181). Molti osservatori ritengono che anche sul fronte asiatico la partita tra i due giganti, Cina e India, si giocherà sul medio-lungo termine sulla qualità del capitale intellettuale che essi saranno in grado di sviluppare e sulla quantità di innovazione che produrranno più che sulla capacità di produrre a bassissimi costi (che è attualmente il loro principale vantaggio competitivo).

A questo si deve aggiungere che, col manifestarsi dei travolgenti effetti della recessione economica, cresce l'importanza sociale ed economica delle strutture che offrono possibilità formative a supporto della ricerca del lavoro. Da questo punto di vista, è opportuno ricordare che in particolare le biblioteche pubbliche si sono accreditate - in molte parti del mondo - come strutture di supporto e di integrazione alla formazione di carattere formale e, negli ultimi anni, sempre di più nel settore del lifelong learning, ossia della formazione lungo tutto l'arco della vita che è una delle chiavi di volta della network society. Inoltre, il fatto che esse siano state tra i primi luoghi e - in alcuni casi anche gli unici - a garantire un accesso gratuito alla rete le ha configurate come una delle strutture pubbliche più attente alle potenzialità e al carattere inclusivo che Internet può avere. Su questa base molte biblioteche pubbliche hanno anche organizzato servizi strutturati per aiutare gli utenti nella ricerca di informazioni sul lavoro, dimostrando la loro responsività alle necessità del contesto sociale.

Dall'altro lato, il processo di amatorializzazione dei processi di produzione e di gestione della conoscenza e la crisi di molte professioni e istituzioni nate nell'epoca della scarsità - di cui si è parlato in precedenza - mettono in discussione e aprono degli interrogativi rispetto al ruolo di mediazione su cui la biblioteca è stata originariamente fondata e ha successivamente investito le sue risorse. Del resto, è il medesimo paradosso che nella società contemporanea stanno vivendo altri attori e professionisti dell'universo della conoscenza, come editori, librai, giornalisti, distributori di contenuti musicali e video, i quali hanno scelto ciascuno strategie differenti, non tutti e non sempre di avanguardia, per riaccreditarsi in questo nuovo contesto di riferimento.

4. Rischi e opportunità per il futuro delle biblioteche

L'analisi di contesto fin qui proposta è il presupposto essenziale per capire cosa agisce a favore di una lunga e prospera vita delle biblioteche pubbliche e cosa invece ne mette a rischio le prospettive future [4]. Ne viene fuori un quadro complesso e in parte contraddittorio che di seguito si è provato a ricostruire.

4.1. Perché le biblioteche pubbliche potrebbero sopravvivere

La principale e più diffusa argomentazione che i bibliotecari portano a sostegno delle biblioteche pubbliche è il loro ruolo in quanto "infrastruttura della democrazia". Come scrive Antonella Agnoli sul "Manifesto" del 23 aprile scorso "il problema non è se i cittadini ci vadano o no: è che devono avere la possibilità di andarci. Non c'è teoria moderna della democrazia che ammetta un cittadino disinformato e ignorante. Una biblioteca arricchisce il tessuto democratico rendendo possibile ai cittadini di informarsi non nella solitudine di un computer casalingo ma in un confronto con altri cittadini, altri documenti, altri formati. Di questo lavoro incessante le biblioteche sono un luogo necessario. Anche se ci si va soltanto per leggere la "Pittsburgh Post Gazette" o il "Resto del Carlino"" (Agnoli, 2011 p. 11).

Le biblioteche pubbliche dunque permettono ai cittadini non solo di essere informati, ma anche di esercitare il loro spirito critico grazie alla possibilità del confronto con fonti e formati diversi, nonché con altre persone. Questa argomentazione, una volta riconosciutone il fondamento teorico, è sempre valida nella misura in cui i mutamenti socio-economici non vanno a mettere in discussione le basi democratiche della nostra società, anzi semmai fanno emergere - sia all'interno delle consolidate democrazie occidentali sia nei paesi di nuova democrazia e in quelli che hanno avviato un percorso in questa direzione - la necessità di una maggiore libertà, trasparenza e uguaglianza nell'accesso all'informazione e il bisogno di nuove opportunità di riconoscimento ed esercizio dei propri diritti, mantenendo immutata l'esigenza di luoghi e occasioni che garantiscano il pieno sviluppo dello spirito critico dei cittadini.

Il secondo valido argomento alla sopravvivenza delle biblioteche riguarda il fatto che esse stanno nel "mercato" giusto: la centralità della conoscenza nella network society e la crescente importanza del lifelong learning operano a vantaggio delle biblioteche pubbliche da sempre impegnate nell'offrire servizi in questo ambito e capaci di sviluppare ulteriormente questo loro ruolo. Una conferma indiretta della validità di questa motivazione è che le realtà nelle quali le biblioteche sono oggetto di una rilevante attenzione attraverso la realizzazione di nuove sedi fisiche e le sperimentazioni di carattere tecnologico sono proprio quelle che investono di più in innovazione e conoscenza, e ciò spesso coincide con economie più vitali e più capaci di guardare avanti.

Di fronte a una società sempre più polarizzata e sempre meno coesa, un terzo ruolo importante che le biblioteche pubbliche possono svolgere è quello di contribuire a creare uguaglianza, o meglio a colmare i gap delle situazioni di partenza dei cittadini, offrendo a tutti, anche quelli senza mezzi economici o personali, l'opportunità di accedere e fruire di un vasto patrimonio informativo e conoscitivo. Esse fungono, dunque, da camera di compensazione delle disuguaglianze, e lo fanno fin dalla loro nascita con riferimento a contesti sociali differenti.

Così, inizialmente le biblioteche pubbliche hanno dovuto rispondere alla profonda modificazione sociale delle città determinata dalla Rivoluzione industriale e alla necessità di integrare la nuova classe sociale proletaria nella partecipazione alla vita civile. Successivamente, esse sono diventate uno degli strumenti del welfare per garantire omogeneità e stabilità alla classe media. Oggi potrebbero rappresentare un baluardo contro le nuove disuguaglianze, in risposta alla polarizzazione sociale che la logica del turbocapitalismo e la network society hanno favorito, aggiungendo a quelle già esistenti nuove classi di esclusi, di svantaggiati, di marginali (gli anziani, i senzatetto, gli immigrati, gli analfabeti digitali, i nuovi poveri, le persone con handicap).

All'interno del medesimo orizzonte di senso, le biblioteche pubbliche sono inoltre in grado di tesaurizzare la loro natura di spazio pubblico puro, "piazze del sapere" come dice Antonella Agnoli, dunque luoghi terzi, non commerciali, inclusivi, di confronto, spesso sacrificati nelle città contemporanee agli spazi privati (Agnoli, 2009).

Un'altra argomentazione a sostegno delle biblioteche pubbliche potrebbe essere l'emergere - negli ultimi anni (soprattutto a seguito della recessione) - della consapevolezza che l'intervento pubblico resta ancora essenziale per rimediare ai disastri di un mercato finanziario spesso incontrollabile e al di fuori delle regole e che i meccanismi regolativi dello stato sociale sono spesso ancora indispensabili per compensare situazioni che le logiche di mercato lascerebbero sfociare in conflitto sociale e politico. Si torna così piuttosto insistentemente a parlare della necessità di salvaguardare i beni pubblici e si aprono nuovi spazi di consenso sociale per il sostegno di questi beni, compresi quelli che appartengono al settore della cultura.

Appare inoltre promettente l'attenzione crescente riservata alla categoria dei beni comuni, sia in termini di richiesta di una governance sovranazionale per quelle risorse naturali e culturali di carattere globale su cui le politiche nazionali non hanno possibilità di intervento e che gli attori economici globali tendono a sfruttare o a danneggiare senza nessuna forma di regolamentazione, sia in termini di rinnovato vigore del ruolo gestionale e della partecipazione attiva di gruppi, associazioni o semplicemente persone che condividono lo stesso interesse per quei beni da loro riconosciuti strategici e/o importanti. Difficile dire esattamente in che termini, ma le biblioteche pubbliche potrebbero avvantaggiarsi di questi fenomeni, ritagliandosi ancora uno spazio di senso nel welfare pubblico, ovvero legando le loro sorti a quelle di soggetti collettivi – non necessariamente pubblici – che siano interessati a garantirne la sopravvivenza e a sostenerle finanziariamente.

Di fronte a un universo informativo che diventa sempre più esteso e orizzontale, e di conseguenza sempre più dispersivo, un altro punto di forza delle biblioteche è il fatto di essere l'espressione di un paradigma conoscitivo che punta contestualmente all'ampiezza e alla profondità.

Allo stato attuale, questo è un ruolo rispetto al quale le biblioteche - per vari motivi - non hanno veri e propri concorrenti, neppure nell'universo della rete. Infatti, le biblioteche, nate per mettere a disposizione di un pubblico via via più vasto collezioni la cui estensione temporale, geografica e di contenuti andasse al di là delle possibilità e degli interessi di un singolo, grazie alla loro secolare storia e al loro speciale statuto, conservano e mettono a disposizione in esclusiva patrimoni documentari altrimenti non accessibili. Si tratta da un lato di raccolte che nessun'altra istituzione possiede né sono fruibili online, dall'altro lato della produzione editoriale coperta da copyright che è esclusa da una fruizione libera in rete ed è solo in parte resa disponibile dall'offerta editoriale delle librerie (fisiche e virtuali, sebbene la concorrenza di queste ultime stia diventando sempre più agguerrita).

Infine, un'argomentazione che diventa via via più spendibile è il ruolo crescente che le biblioteche pubbliche possono svolgere a supporto del tempo libero e dello svago dei cittadini, considerati ormai elemento imprescindibile di quel benessere collettivo e individuale che ha acquisito negli ultimi anni un'importanza crescente anche nelle valutazioni economiche.

Di fronte al modello del turbocapitalismo e dell'economicismo spinto, diverse voci si sono levate contro l'utilizzo del PIL (Prodotto Interno Lordo) come indicatore unico dello stato di salute di una nazione, dal momento che si tratta di un indicatore che misura la crescita (o la decrescita) della produttività senza tener conto di parametri più immateriali di benessere di una collettività e dei suoi componenti e senza tener conto dei fenomeni di disuguaglianza sociale (Sen, 2010 p. 278-298; Palmieri, 2010 p. 411-451). A questo proposito si sono formulate varie ipotesi di indicatori o set di indicatori che - nel valutare la situazione di uno stato - considerino, oltre alla produttività – anche altri elementi quali le opportunità, la soddisfazione, i fattori di rischio, le condizioni di salute, l'offerta culturale, il tempo libero, la qualità dell'offerta di svago ecc., sebbene nessuna di queste ipotesi sia stata applicata sistematicamente per la comparazione internazionale, ostacolata sia dal mono-pensiero economicistico sia dalla difficoltà di questo tipo di misurazioni (Palmieri, 2010).

4.2. Perché le biblioteche pubbliche potrebbero morire

Se - come emerso dal paragrafo precedente - esistono dei margini significativi per continuare a svolgere un'efficace azione di advocacy a favore delle biblioteche pubbliche, dall'altro lato molte sono le nubi nere che non solo si stagliano al loro orizzonte, ma già ne stanno condizionando la vita quotidiana.

Innanzitutto, è opportuno sottolineare che il ruolo delle biblioteche come "infrastruttura della democrazia" deve fare i conti con il fatto che la democrazia stessa, nelle forme in cui la conosciamo, sta attraversando una profonda crisi i cui segnali sono la perdita di centralità dei parlamenti, la distanza e il crescente malcontento dei cittadini nei confronti del mondo politico, lo strapotere di partiti sempre più sganciati dalle loro basi, il trasferimento del dibattito politico nelle arene mediatiche, l'assenza di politiche di medio e lungo termine a vantaggio di obiettivi che garantiscano un ritorno immediato in termini meramente elettorali (Alonso, Keane e Merkel, 2011; Deffenu, 2006). Se si guarda al di là delle dichiarazioni propagandistiche, non v'è dubbio che il modello di democrazia che è stato sviluppato nei secoli dal mondo occidentale stia mostrando i segni di una pericolosa sclerotizzazione, di uno scollamento dalle dinamiche sociali e di un asservimento al sistema economico globale, mentre si vanno delineando movimenti di opinione dal basso, che spesso trovano espressione nella rete e che, allo stato attuale, difficilmente possono essere incanalati nelle dinamiche tradizionali dei sistemi democratici parlamentari.

A questo si aggiunga che il trionfo del turbocapitalismo e la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi con gli esiti migliori per l'utente-consumatore, associati alla crisi economica e alla delegittimazione sociale della capacità del settore pubblico di essere in grado di garantire efficienza e qualità paragonabili al privato, mettono seriamente a rischio la sopravvivenza dei servizi pubblici nelle forme attuali. L'ingresso di attori privati, già ampiamente diffuso a livello di gestione della "cosa pubblica" a seguito dei fenomeni di esternalizzazione e liberalizzazione, riguarda ormai sempre di più anche la proprietà e la governance di beni e servizi prima saldamente in mano pubblica.

In questo processo di erosione dello stato sociale (Shapiro, 2007; Narduzzi, 2010), i governi nazionali e locali - investiti dalla crisi politica ed economica - tendono a privilegiare il mantenimento di quelli che prima abbiamo definito beni sociali puri, ossia quelli che, oltre ad avere ampie esternalità positive, rientrano nell'orizzonte di preferenze della gran parte dei cittadini (si pensi ad esempio alla sanità, alle politiche di sostegno al lavoro, agli ammortizzatori sociali, alle pensioni). I cosiddetti beni meritori, ossia beni che, pur avendo riconosciute esternalità positive, solo una parte limitata della popolazione sceglierebbe autonomamente, di solito trovano spazio nelle politiche nazionali nei periodi di crescita e prosperità economica, ovvero quando rispondono a precisi obiettivi di carattere politico e sociale.

Oggi, di fronte all'emergere di nuovi equilibri sociali, alcuni di questi beni meritori (si pensi alla scuola, all'università e alle biblioteche appunto), in quanto progetti a lungo termine e con ritorni di benessere sociale difficilmente quantificabili e non sempre direttamente riconducibili ad essi, perso anche l'appeal che avevano all'interno delle strategie politiche del passato, stanno diventando i principali serbatoi cui sottrarre le sempre minori risorse pubbliche a disposizione per destinarle semmai ai beni sociali puri, a loro volta sempre più costosi.

Persino l'applicazione alla biblioteca di criteri di gestione manageriale e l'adozione di metodi nuovi di valutazione delle attività e dei servizi (Ventura, 2010; Di Domenico, 2009; Ventura, 2007; Lietti, e Parise, 2006) – pur necessari da un lato per evitare sprechi e garantire una maggiore efficienza, dall'altro per parlare una lingua comune con amministratori e finanziatori nell'offrire dimostrazione dei risultati ottenuti - non costituiscono una garanzia di riconoscimento politico e sociale. Allo stesso modo, l'attenzione crescente delle biblioteche nel costruire valore per gli utenti e confrontarsi con i relativi livelli di soddisfazione, nonché l'adozione di metodi sempre più sofisticati per misurare il loro impatto economico e sociale, pur rappresentando importanti fattori di sviluppo, non sempre si dimostrano efficaci nel convincere le amministrazioni di appartenenza a rivedere tagli e piani degli investimenti.

Da questo punto di vista si riscontra tra l'altro una sorta di paradosso tra l'impegno delle biblioteche a un miglioramento della propria efficacia e della soddisfazione dei bisogni degli utenti e il punto di vista delle amministrazioni pubbliche, che in qualche modo teme la crescita del servizio in quanto premessa di maggiori necessità economiche o di pretese più elevate da parte degli utenti.

Alle dinamiche di polarizzazione sociale il mercato risponde con il paradigma economico del low cost, che risponde alle necessità di fruizione di prodotti e servizi da parte di quella base sociale che non ha più la stabilità e le protezioni garantite al vecchio ceto medio dal welfare. L'emergere di un'offerta privata di tipo low cost potrebbe presto riguardare da vicino anche le biblioteche, per effetto della riproposizione in campo editoriale di quanto avvenuto nel settore musicale. Quest'ultimo, sotto la spinta della distribuzione in rete e delle inevitabili violazioni del copyright grazie alla facile riproducibilità dei contenuti digitali, ha scelto la strada dell'atomizzazione nella distribuzione dei contenuti (vendita di brani anziché interi CD) e di una politica dei prezzi che rende il mercato digitale concorrenziale e di certo vantaggioso rispetto a quello analogico. Al momento, il fenomeno è meno evidente nel campo della distribuzione editoriale (ma del resto lo era all'inizio anche nel mercato musicale), soprattutto in conseguenza del tentativo dei potenti attori commerciali già presenti sul mercato di mantenere immutati i modelli economici rispetto al passato analogico.

Con l'espansione del mercato degli ebook cominciano però ad affacciarsi – sebbene siano ancora nettamente minoritari - modelli commerciali e distributivi differenti. Potrebbe così accadere che le biblioteche, che in passato offrivano un supporto gratuito allo studio e alla lettura in un contesto in cui l'acquisto di un numero significativo di libri era riservato esclusivamente ad alcune categorie sociali, si trovino a perdere il loro pubblico di riferimento, visto che le classi elevate non hanno alcun problema ad acquistare e la base sociale, pur avendo un potere d'acquisto più basso del vecchio ceto medio, può attingere a servizi e prodotti low cost (Gaggi, e Narduzzi, 2006).

Tale scenario non metterebbe in discussione il ruolo delle biblioteche pubbliche come camera di compensazione delle opportunità a vantaggio dei nuovi esclusi (quella base sempre più ampia della popolazione che la network society ha tagliato fuori per mancanza di competenze e di accesso alla rete o ha collocato ai margini della società dei consumatori, in quanto non dotato neppure dei mezzi minimi di sostentamento). Si tratta però di un ruolo che non riesce facilmente ad accreditarsi sul piano politico in una società che sempre di più affida al mercato e ai suoi rischi il ruolo primario di determinare il successo o il fallimento delle persone, la loro ricchezza o la loro povertà, senza garantire alcun tipo di copertura rispetto a tale rischio.

Non v'è dubbio sul fatto che la penetrazione sociale e il radicamento territoriale delle biblioteche pubbliche possano costituire un importante strumento di contrattazione politica: il misero 10-15% di utenti che utilizzano attivamente le biblioteche pubbliche italiane [5] è sicuramente meno spendibile di fronte agli amministratori rispetto a percentuali dal 30 al 50% di altri paesi dell'Europa settentrionale e del Nord America [6]. Nondimeno si tratta di bacini che dal punto di vista elettorale vengono considerati poco determinanti a fronte di altri il cui peso numerico ovvero lobbystico è di gran lunga superiore.

Percentuali così diverse incidono semmai sulla possibilità di una reazione popolare ai tagli che riguardano le biblioteche. In Italia solo in contesti territoriali particolari si è assistito a mobilitazioni popolari a sostegno di una biblioteca o di un gruppo di biblioteche in difficoltà a causa delle politiche locali o nazionali; di solito il taglio dei fondi in questo settore passa invece totalmente inosservato. In altri paesi non è raro vedere la gente scendere nelle piazze a difendere le biblioteche, e scrittori e intellettuali farsi promotori di iniziative e sottoscrizioni a loro sostegno [7]. Negli Stati Uniti, di fronte alla necessaria approvazione dei finanziamenti ai servizi bibliotecari di base da parte delle comunità locali, continuano ad essere maggioritarie quelle che votano a favore di questo sostegno (come il recente rapporto 2011 dell'American Library Association ha sottolineato). Ciò detto, nemmeno le alte percentuali di utilizzo dei servizi e l'esistenza di un sostanziale sostegno popolare sembrano salvare le biblioteche pubbliche dalla crisi che in una società modellata sulle leggi di mercato non lascia scampo e sta già determinando la chiusura di numerose strutture in tutto il mondo occidentale [8].

Se ne deve concludere che il problema fondamentale sta probabilmente nell'orizzonte di valori e nella visione strategica di una società e della sua classe politica, fuori dai quali è difficile, se non impossibile, condividere il progetto-biblioteca. In questo scenario, non è secondario il rafforzarsi, nell'opinione comune, dell'idea che Internet stia rendendo le biblioteche (nonché numerose altre istituzioni e professioni legate alla conoscenza e alla comunicazione) strutture sorpassate, come conseguenza dei fenomeni - già precedentemente citati - di convergenza al digitale dei media, di amatorializzazione della produzione dei contenuti informativi, della produzione partecipativa del sapere e delle potenzialità collegate alla "saggezza delle masse".

Il fenomeno della convergenza al digitale fa sì che gran parte dei contenuti che un tempo venivano distribuiti su supporto analogico stiano rapidamente transitando al formato digitale, sia quelli prodotti ex-novo in digitale, sia quelli originariamente analogici. I numerosi progetti di digitalizzazione di archivi cartacei, sonori e visivi stanno, mano a mano, creando un'alternativa digitale alla fruizione del formato originale, sebbene l'esistenza della normativa sul copyright ponga dei grossi vincoli alle iniziative di digitalizzazione e – ancora di più – alle possibilità di distribuzione dei contenuti digitalizzati. Ad esempio, il mastodontico progetto di Google (Google Books [9]) di digitalizzare milioni di libri mediante accordi con biblioteche ed editori, garantendo una fruizione gratuita di tutti i materiali non coperti dal copyright e una fruizione parziale delle risorse soggette a copyright, è il caso più noto (e più imponente) tra i progetti di digitalizzazione di massa attualmente in corso, rispetto al quale si sono registrate le reazioni più diverse (De Robbio, 2011).

In particolare, le biblioteche sollevano perplessità rispetto all'idea di affidare a un soggetto commerciale come Google i loro contenuti, mentre gli editori sembrano fermamente intenzionati a impedire a Google di diventare distributore primario di un numero crescente di contenuti e gestore dei diritti per una parte di essi. È infatti abbastanza recente la sentenza che pone vincoli molto più restrittivi al progetto Google Books proprio a seguito della class action condotta da un gruppo influente di editori (Dotta, 2011; Di Caro, 2011).

È evidente che le biblioteche non hanno i mezzi per condurre un processo di digitalizzazione di massa che solo un soggetto commerciale come Google può forse sperare di realizzare. Le biblioteche potrebbero, però, concentrarsi su progetti di digitalizzazione rivolti a fondi particolari, a nicchie e minoranze linguistiche che la logica globale di Google potrebbe invece trascurare. Non si può inoltre sottovalutare il peso crescente che l'amatorializzazione della produzione di contenuti e le potenzialità legate allo "sfruttamento" della "sapienza delle masse" hanno - e ancor di più potranno avere nel prossimo futuro - sull'orizzonte informativo e conoscitivo.

Come si è visto, Internet non è soltanto un altro strumento a disposizione delle persone e un altro modo per fare le stesse cose del passato, bensì è un'opportunità del tutto nuova di connettere persone (anche in funzione di obiettivi da realizzare nel mondo reale) e di esprimere punti di vista, mettere a frutto talenti, collaborare a costi organizzativi quasi inesistenti. Il concetto di autorevolezza e il ruolo delle istituzioni di mediazione stanno cambiando profondamente e si trasformano rispettivamente nel concetto di reputazione e nel ruolo di facilitatori e partner. In questo senso, le biblioteche fanno fatica a difendere un ruolo esclusivo nelle attività di immagazzinamento, indicizzazione e distribuzione non solo rispetto ad altri attori del tradizionale "ciclo del sapere", bensì anche rispetto ai loro potenziali utenti, sempre meno rassegnati ad essere destinatari passivi di scelte effettuate a monte da qualcun altro e sempre più desiderosi di scegliere e costruirsi i propri modi e percorsi di fruizione.

Strumenti quali LibraryThing [10] e Anobii [11] sono riusciti a realizzare obiettivi che i cataloghi delle biblioteche e gli standard bibliotecari e tecnologici sono ancora lontani dal realizzare. Accade dunque che, rispetto a un passato in cui i bibliotecari e le biblioteche dettavano legge nel loro ambito, essi si trovino oggi a inseguire le innovazioni che la rete può permettersi di trattare semplicemente come mode passeggere.

Infine, la competizione sempre più forte esercitata dalla distribuzione di contenuti gratuiti di qualità in rete solleva preoccupazioni e determina un inasprimento delle relazioni tra tutti gli attori tradizionalmente coinvolti nell'archiviazione, indicizzazione e distribuzione dei contenuti, ossia editori, biblioteche, librerie e distributori in genere. Il rischio di vedere assottigliarsi un mercato già messo a rischio da Internet, ma ancora potenzialmente capace di produrre grandi profitti fa sì che questi soggetti, anziché cooperare, tentino di sottrarre spazi di azione agli altri attori accentrando funzioni e ruoli che prima sarebbero stati condivisi. Si assiste così al tentativo degli editori di diventare i principali se non unici intermediari dei contenuti informativi, tagliando fuori i distributori e le biblioteche.

Il caso più eclatante è quello degli ebook che, dopo essere stati a lungo e inutilmente annunciati come il futuro del mercato del libro, sembrano ora effettivamente in espansione; su questo fronte gli editori stanno tentando un colpo di mano rispetto alle tradizionali eccezioni che la normativa nazionale e internazionale prevede per la fruizione dei libri coperti da copyright a favore delle biblioteche (Gentilini, 2010; Blasi, 2010), limitando fortemente le possibilità di prestito ovvero rendendo la procedura di prestito molto complicata o ancora facendosi intermediari in prima persona e direttamente attraverso i loro siti di questo tipo di servizio [12].

Inoltre, parallelamente a quello che già era accaduto con i periodici elettronici, gli editori propongono contrattazioni su pacchetti editoriali in cui i margini di scelta e di personalizzazione sia dei titoli che dei costi sono estremamente limitati per le biblioteche [13] (Frazier, 2001; Bucknell, 2010). All'interno dello stesso orizzonte di senso vanno inseriti i tentativi dei distributori (librerie commissionarie e similari) di estendere il loro business dall'intermediazione nella vendita di prodotti editoriali all'organizzazione dei modi di fruizione, attraverso la realizzazione di portali sempre più sofisticati ma anche sempre più incapaci di comunicare gli uni con gli altri [14] (Farkas, 2011). Per di più, il processo di concentrazione dei mercati su questo fronte ha raggiunto livelli talmente considerevoli negli ultimi anni che la stessa distinzione tra editori e distributori in molti casi tende a perdere di significato.

In questa competizione senza esclusione di colpi, com'è tipico delle logiche di mercato, a risultare vincenti sono sempre i soggetti più forti economicamente e capaci di esercitare una lobby più significativa sulle scelte di politica pubblica. Appare dunque quasi superfluo chiedersi chi è destinato ad avere la peggio nel mercato della distribuzione dei contenuti digitali ed è piuttosto improbabile che – in un contesto in cui l'intervento pubblico volto a riequilibrare le forze di mercato in difesa di istanze e interessi collettivi è stato in parte delegittimato – le istituzioni pubbliche evitino alle biblioteche di soccombere alle logiche dei soggetti più forti sul mercato.

Ciò detto, la fortuna futura di questi aspiranti monopolisti dei contenuti digitali non dipenderà solo dall'aver schiacciato o asservito a sé i soggetti più deboli, ma anche dai modi in cui evolverà la rete e si svilupperanno i processi di produzione collaborativa di contenuti liberamente accessibili e i movimenti open access in ambito accademico e specialistico, nonché dal modello economico che la stessa rete favorirà. Ciò vuol dire anche che gli esiti potrebbero non essere i medesimi per le biblioteche pubbliche e per quelle universitarie, dal momento che - pur essendo alcuni processi comuni - contenuti, interessi e livelli di partecipazione potrebbero essere diversi o prendere direzioni non uniformi. 

5. Considerazioni finali

Mi si dirà: perché ci si è soffermati così a lungo sui motivi per cui le biblioteche potrebbero non sopravvivere? Forse per pessimismo, ovvero per scaramanzia, o ancora per disinteresse verso il ruolo importante di questa istituzione e di questa professione (cui pure appartengo)? Niente di tutto questo. Intorno a me leggo e ascolto difese su basi puramente ideologiche, ragionamenti fallaci e centrati su salti logici e assenza di nessi riconosciuti, arroccamenti dettati esclusivamente dalla paura, scelte difensive che allo stato attuale finiscono per favorire solo gli attori economicamente e politicamente più forti nel mercato della conoscenza.

Mi viene perciò il dubbio che, dietro certi atteggiamenti difensivi delle biblioteche, non ci siano solo legittime preoccupazioni quanto – più o meno inconsciamente – una disperata difesa del proprio ruolo di intermediazione. Infatti, quanto più rapidamente vanno avanti i progetti di digitalizzazione di massa, tanto più si accentuano i fenomeni di disintermediazione che già sono sotto gli occhi di tutti, mettendo in pericolo il ruolo tradizionale delle biblioteche. D'altra parte, non è certo mantenendo in piedi vincoli temporanei e artificiali che ci si può garantire il futuro, perché lì dove un'istituzione venga percepita come un impedimento all'accesso alla conoscenza anziché uno strumento per facilitarla e promuoverla non tarderanno ad emergere delle alternative che finiranno per delegittimare definitivamente l'istituzione.

Si ricordi che la conoscenza – dall'avvento di Internet in poi e ancora di più dopo l'esplosione del Web 2.0 – è sempre più percepita per quello che realmente è, ossia un bene non scarso e non rivale, cosa che secoli di scarsità contingente dei supporti e delle professionalità ci avevano fatto dimenticare. La nascita dei bancomat nel giro di pochi anni ha fatto sì che un numero irrisorio di persone si rechi allo sportello a ritirare dei soldi (a meno di cifre considerevoli o situazioni particolari), perché il rivolgersi allo sportello era una necessità senza alcun vantaggio, e dunque appena si è creata l'alternativa questa ha spazzato via il modello precedente, cui credo nessuno di voi vorrebbe tornare. Tutto questo per dire che le biblioteche devono raffigurare se stesse come una scelta, e non come un obbligo o una necessità.

Bisogna dunque evitare di ripetere l'atteggiamento di quegli amanuensi che, all'avvento della stampa, difendevano convinti la loro professione sulla base di presunti criteri di qualità (ma forse solo per paura di essere soppiantati) e che nel giro di un paio di generazioni passarono dall'essere professionisti riconosciuti e ricercati a svolgere un ruolo a supporto di interessi di nicchia. Nel XV secolo gli amanuensi coesistevano a fianco dei primi editori, ma non svolgevano più un servizio insostituibile. Nonostante ciò, la consapevolezza della propria importanza rimase immutata. Nel 1492, circa mezzo secolo dopo la comparsa della stampa, Giovanni Tritemio, abate di Sponheim, si mosse in un'appassionata difesa della tradizione amanuense in De Laude Scriptorum (Lode agli scrivani) [...]. De Laude Scriptorum non fu copiato dagli amanuensi; fu impaginato con i caratteri mobili, in modo da ottenere molte copie in poco tempo e a basso costo - un compito per cui gli scrivani erano del tutto inadeguati. Il contenuto del volume lodava gli amanuensi, ma la sua forma stampata li condannava (Shirky, 2009 p. 52-53).

Personalmente, credo sia ora di accettare il cambiamento, di accoglierlo, di prendere atto del momento di transizione che stiamo vivendo, di non chiudersi a riccio di fronte alle richieste che ci vengono avanzate dalle istituzioni pubbliche che ci finanziano e dal pubblico cui ci rivolgiamo. Ha ragione chi afferma che le società le fanno le persone e le scelte politiche, e da questo punto di vista ritengo che i bibliotecari non possano rinunciare ad alcuni valori fondamentali che caratterizzano la loro professione (l'equità, l'universalità, l'inclusione, l'apertura, la libertà personale, la lotta alla censura) e debbano continuare a difenderli strenuamente.

D'altra parte, non confrontarsi con la realtà è il presupposto di un atteggiamento utopistico inevitabilmente fallimentare. Possiamo continuare a contribuire alla costruzione di una società migliore se non rifiutiamo per partito preso la necessità di realizzare una maggiore efficienza, di fare sistema, di elevare i livelli di cooperazione, di tagliare i rami secchi e di accettare anche una revisione della geografia bibliotecaria dei nostri paesi, se non trattiamo la conoscenza come un bene per pochi bensì come un bene comune universale rispetto al quale dobbiamo semmai contribuire al processo di liberazione e di massima diffusione e accessibilità (ora che il digitale lo rende tecnicamente possibile), se non indulgiamo su una visione snobistica ed elitaria della società selezionando più o meno inconsapevolmente il pubblico a cui vogliamo rivolgersi e che in qualche modo riteniamo degno dei patrimoni conoscitivi di cui più o meno casualmente siamo stati chiamati a garantire la sopravvivenza futura e la fruizione, se non ci consideriamo depositari di un sapere e di una professionalità pensando di tagliare fuori non solo gli altri attori del "ciclo del sapere" bensì anche i nostri potenziali utenti, se evitiamo di sostituirci ai nostri utenti nella formulazione dei giudizi e abbiamo fiducia nelle loro possibilità (tanto più che è sempre più difficile e forse miope per chiunque prendere posizioni nette rispetto alle cose e agli eventi), se creiamo occasioni alla gente per esprimersi, per organizzarsi, per sviluppare se stessi nelle forme e nei modi che gli sono più congeniali, insomma se accettiamo che le biblioteche non possono da sole cambiare il mondo, ma possono svolgere responsabilmente, eticamente e con mente aperta il loro ruolo fino in fondo, anche eventualmente accettando di trasformarsi.

Tutto ciò detto, non possiamo comunque garantirci nessuna certezza di sopravvivenza, perché - come si è visto lungo tutta questa analisi – i fenomeni di contesto sono ben più grandi di noi e si muovono indipendentemente da qualunque advocacy le biblioteche possano condurre. Stiamo parlando di valori di una società, di natura dei sistemi democratici, di pervasività delle dinamiche economiche, di scacchiere globali che condizionano le scelte politiche e i processi economici. I cambiamenti non possono essere integralmente compiuti dal basso, né certi processi possono essere totalmente orientati nella direzione voluta, però è solo da quel basso che noi possiamo agire. E lì giù le biblioteche pubbliche hanno un'unica vera compagnia, i cittadini.

Anna Galluzzi, Biblioteca del Senato della Repubblica "Giovanni Spadolini", e-mail: anna.galluzzi@gmail.com


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Vecchiet, Romano, Dalle biblioteche popolari alle suggestioni della public library. Viaggio alle origini del caso italiano [Relazione tenuta al convegno "L'Italia delle biblioteche. Scommettendo sul futuro nel 150° anniversario dell'unità nazionale", Milano, 3-4 marzo 2011].

Ventura, Roberto, La biblioteca rende. Impatto sociale e economico di un servizio culturale, Milano, Bibliografica, 2010.

Id., La valutazione della biblioteca pubblica: problematiche e strumenti di misurazione dell'impatto culturale, sociale e economico, "Bollettino AIB", 47 (2007), 3, p. 289-324.

Vivarelli, Maurizio, Interpretare la biblioteca pubblica. Alcune osservazioni metodologiche, "Bollettino AIB", 47 (2007), 1/2, p. 143-149.

Ziccardi, Giovanni, Hacker: il richiamo della libertà, Venezia, Marsilio Editori, 2011.

Note

[1] Esempio inventato da Albert W. Tucker durante una lezione tenuta nel 1950 (Ostrom, 2006 p. 12-14). Per un approfondimento sui contenuti della "teoria dei giochi" (cui il dilemma del prigioniero appartiene) e sul suo risvolto biblioteconomico si veda Galluzzi, 2005 p. 233-265.

[2] Non è possibile in questa sede entrare nel dettaglio del caso finlandese per il quale si rimanda allo studio di Castells e Himanen succitato; è opportuno però almeno ricordare che, come gli stessi autori sottolineano, che le ridotte dimensioni della popolazione nazionale e l'estrema omogeneità sociale che la caratterizzano sono situazioni in parte irripetibili, che se da un lato hanno favorito i processi sopra citati, dall'altro rischiano di produrre atteggiamenti xenofobi e in generale di chiusura verso il mondo esterno, come del resto alcuni fenomeni politici recenti stanno dimostrando.

[3] Si pensi alle vicende politiche del Nord Africa (<http://www.technologyreview.it/index.php?p=article&a=1964>), al fenomeno degli indignados in Spagna (<http://e-archivo.uc3m.es/bitstream/10016/11512/1/agora_magallon_AMRD_2011.pdf>), nonché all'analisi sociologica del risultato dei referendum in Italia (<http://tg24.sky.it/tg24/politica/2011/06/14/referendum_morcellini_voto_commento_vittoria_web_piazze_comunicazione_tv_berlusconi.html>).

[4] Cfr. la bibliografia finale per una ricostruzione dei contributi comparsi negli ultimi anni nella letteratura professionale italiana sul tema del ruolo e del futuro delle biblioteche.

[5] Purtroppo non esistono indagini nazionali sulle biblioteche pubbliche italiane da cui sia possibile ricavare dati aggiornati sull'utilizzo dei servizi bibliotecari. Le sole statistiche nazionali a disposizione - comunque ormai datate - sono le stime elaborate da Galluzzi e Solimine, 1999e quelle contenute in Associazione Italiana Biblioteche, Gruppo "Gestione e valutazione", 2000. Serie storiche più complete e aggiornate sono invece disponibili per le biblioteche pubbliche di alcune regioni italiane, come la Lombardia, l'Emilia Romagna, la Toscana. Una lettura complessiva di questi dati ci permette di affermare che la percentuale media di utenti attivi delle biblioteche pubbliche italiane non supera il 10-15%.

[6] Anche per l'Europa la situazione delle statistiche bibliotecarie è piuttosto complessa, in quanto le statistiche generali raccolte a livello europeo (per esempio da Eurostat) non presentano un livello di dettaglio sufficiente che consenta di avere indicazioni precise sull'uso dei servizi bibliotecari. L'unica fonte specifica per le biblioteche è il progetto Libecon (<http://www.libecon.org/>), i cui dati sono però fermi al 2001: <http://www.libecon.org/pdf/InternationalLibraryStatistic.pdf>. Questi dati sono in ogni caso utilissimi per avere un quadro d'insieme della realtà europea e farsi un'idea delle differenze di penetrazione del servizio bibliotecario nei diversi paesi. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la fonte più completa è certamente l'American Library Association (ALA): <http://www.ala.org/ala/research/index.cfm>. I dati sull'uso dei servizi bibliotecari sono contenuti anche nell'ultimo rapporto sullo stato delle biblioteche americane (ALA, 2011).

[7] Si veda questa notizia comparsa sul sito della BBC il 5 febbraio 2011, Authors join day of protest at library cuts: <http://www.bbc.co.uk/news/entertainment-arts-12367392>.

[8] Si veda a titolo esemplificativo la mappa dei tagli in Gran Bretagna pubblicata sul Guardian: <http://www.guardian.co.uk/books/2011/jan/06/uk-library-cuts-map>.

[9] <http://books.google.com>.

[10] <http://www.librarything.it>

[11] <http://www.anobii.com>.

[12] Si veda questa notizia comparsa sul sito di Publishers Weekly (<http://www.publishersweekly.com/pw/by-topic/digital/content-and-e-books/article/45839-bookswim-plans-new-e-book-lending-site.html>) in merito alla piattaforma per il digital lending approntata da un editore e attualmente visibile da: <http://ebookfling.com/>. Per quanto riguarda la realtà italiana, è interessante il servizio di noleggio di ebook proposto da Simplicissimus: <http://ultimabooks.simplicissimus.it/noleggio/>. Esistono anche siti che sul modello di Netflix (<https://signup.netflix.com/global>) propongono il prestito di libri di carta; si vedano questo esempio americano: <http://www.bookswim.com/index.html>, e questo francese: <http://www.chronobook.fr/accueil.html>.

[13] Si tratta del modello di vendita chiamato big deal, già sperimentato con successo dagli editori per la vendita dei periodici elettronici, con conseguenze valutate non positivamente dalle biblioteche (Frazier, 2001, sul tema dei periodici). La stessa modalità si sta però estendendo anche alla vendita degli ebook per i quali le biblioteche sono chiamate ad acquisire interi pacchetti accessibili direttamente dai siti degli editori (Bucknell, 2011).

[14] Di piattaforme per l'accesso agli ebook e ad altre risorse elettroniche create da editori e distributori ne esistono numerose - soprattutto di interesse accademico, ma non solo, e ne vengono pubblicate di nuove continuamente. Nel contesto italiano si può ricordare la piattaforma di Casalini Libri, Torrossa: <http://store.torrossa.it/ftp>, destinata primariamente alle biblioteche accademiche. Nei settori editoriali di interesse per le biblioteche pubbliche, la situazione è molto fluida e in movimento, perché il problema dell'acquisizione si interseca con quello delle politiche di prestito. In generale, si osserva che gli editori tendono a non creare piattaforme proprie per la vendita di ebook e risorse digitali (sebbene comincino ad esserci degli esempi, come lo store di Ledizioni: <http://www.ledizioni.it/>); ci sono però piattaforme specializzate di distributori, come <http://www.bookrepublic.it/>, e piattaforme di servizi per editori come ad esempio Stealth, <http://stealth.simplicissimus.it/>. Una piattaforma che aggrega contenuti di varia provenienza realizzando servizi per le biblioteche pubbliche e i loro utenti è il progetto MediaLibraryOnline: <http://www.medialibrary.it/home/home.aspx>.




«Bibliotime», anno XIV, numero 3 (novembre 2011)

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