«Bibliotime», anno XIX, numero 1 (marzo 2016)

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Anna Galluzzi

Henry Jenkins, Mizuko Ito, danah boyd, Participatory culture in a networked era



Henry Jenkins, Mizuko Ito, danah boyd, Participatory culture in a networked era. A conversation on youth, learning, commerce, and politics. Cambridge, Polity Press, 2016.

Henry Jenkins, Mizuko Ito e danah boyd (il cui nome è per sua stessa scelta sempre scritto tutto in minuscolo) sono tre studiosi ben noti per i loro contributi e riflessioni sulla networked society, in particolare sul rapporto tra nuove tecnologie ed evoluzione socio-culturale.

Henry Jenkins (http://henryjenkins.org/), professore alla University of Southern California, si è occupato ampiamente di nuovi media e comunicazione, studiando nello specifico i processi di convergenza culturale e di contenuti determinati dal digitale e l'impatto delle tecnologie sull'espansione della cultura partecipativa. La traduzione in italiano di alcuni suoi lavori, Cultura convergente (Apogeo, 2007), Culture partecipative e competenze digitali (Guerini e Associati, 2010), Spreadable media (Apogeo, 2013), ha reso il suo nome molto conosciuto nel nostro paese, anche al di fuori della cerchia degli appassionati di social media e nuove tecnologie.

Mizuko Ito (che nel libro viene chiamata Mimi, come lei stessa si presenta anche nel suo blog: http://www.itofisher.com/mito/) è un'antropologa giapponese che insegna presso la University of California e si interessa in particolare dell'utilizzo dei nuovi media nei processi di apprendimento. Il suo nome è meno conosciuto al pubblico italiano, pur essendo autrice di diversi contributi sul rapporto tra bambini/giovani e nuovi media, nonché co-autrice di un importante rapporto sul tema del "Connected learning", un approccio alternativo all'istruzione basato sugli interessi personali e inserito dentro l'ambiente sociale in cui il discente vive. Il rapporto, dal titolo Connected learning: An agenda for research and design, è liberamente scaricabile da questo sito: http://dmlhub.net/publications/connected-learning-agenda-for-research-and-design/.

Infine, danah boyd (http://www.danah.org/) è attualmente ricercatrice presso la Microsoft Research, nonché visiting professor presso la New York University, e i suoi interessi di ricerca riguardano in particolare il rapporto tra social media e giovani. Ha collaborato con Mizuko Ito ad alcuni progetti di ricerca e il volume che ha scritto sull'uso dei social media da parte dei teenagers è stato recentemente tradotto in italiano con il titolo It's complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web (Castelvecchi, 2014).

I tre autori, pur avendo età diverse e provenendo da contesti lavorativi differenti, sono accomunati – oltre che da interessi di ricerca similari – dal fatto di aver partecipato tutti alla Digital Media and Learning initiative della MacArthur Foundation (https://www.macfound.org/programs/learning/), portando le loro diverse competenze sulle tematiche che si collocano al punto di intersezione tra pratiche giovanili, cultura partecipativa e tecnologie digitali.

Il volume di recente pubblicato da Polity Press si propone di ripartire da alcuni di questi temi e di aprire una conversazione e un dibattito su di essi, scegliendo allo scopo un'organizzazione del testo adeguata e rispondente ai suoi contenuti. Il libro si articola infatti in sette capitoli, ciascuno dedicato a un aspetto della questione. Ogni capitolo è introdotto da un saggio scritto da uno dei tre autori secondo le diverse competenze e sensibilità, cui segue una vera e propria conversazione fra i tre per far emergere punti di vista e aspetti diversi della tematica. Nella prefazione ci viene spiegato che le conversazioni sono in buona parte avvenute presso la casa di Mimi a Los Angeles e hanno tenuto conto degli spunti arrivati via via attraverso Twitter e i blog personali, e le trascrizioni sono state poi riorganizzate, discusse e completate a posteriori attraverso il lavoro collettivo.

Il risultato è un libro che ha un carattere poco accademico per la sua non-sistematicità e per l'assenza di risultati di ricerca, avendo gli autori privilegiato un approccio che evidenziasse il processo della ricerca, con i suoi dubbi e le sue incertezze, piuttosto che il suo esito:

Unlike a typical scholarly manuscript, this book is about our willingness to reveal the limitations f our knowledge and our collective struggles to work out what we're privileged enough to witness (A differenza di un testo accademico tipico, questo libro ha a che fare con la nostra intenzione di rivelare i limiti della nostra conoscenza e i nostri sforzi collettivi per cercare una soluzione a ciò di cui siamo stati abbastanza privilegiati da essere testimoni, p. ix).

La scelta è del resto coerente con il senso stesso della cultura partecipativa di cui i tre autori sono propugnatori, e dunque con l'opportunità di rendere visibile agli altri i modi in cui si sviluppano pratica e pensiero.

Per quanto riguarda i contenuti di dettaglio, il volume ha una struttura circolare in quanto si apre con un capitolo dal titolo Defining participatory culture, il cui saggio introduttivo è scritto da Henry Jenkins e che si propone di ritornare sul significato di questa espressione ormai utilizzata in maniera diffusa e spesso non appropriata, e si chiude con un capitolo dal titolo Reimagining participatory culture, in cui i tre autori insieme provano a sintetizzare alcuni dei concetti e dei valori condivisi che la conversazione ha portato all'evidenza.

Dentro questa cornice, i restanti cinque capitoli sono dedicati agli altri temi richiamati nel complemento del titolo: il secondo capitolo, Youth culture, youth practices, e il quinto, Commercial culture, sono quelli i cui saggi introduttivi sono affidati a danah boyd, il terzo e il quarto capitolo, Gaps and genres in participation e Learning and literacy, sono introdotti da Mimi Ito, infine il sesto, Democracy, civic engagement, and activism, ha un saggio introduttivo di Henry Jenkins.

L'aspetto più interessante di questo volumetto non sta tanto nella novità dei contenuti (tutti in buona parte affrontati sia dagli stessi autori che da altri studiosi del settore, cui si rimanda nella ricca bibliografia finale), quanto nella loro problematizzazione. In una categorizzazione tra tecno-entusiasti e tecno-scettici, Jenkins, Ito e boyd sarebbero certamente ascritti al primo gruppo, e anche nelle pagine di questo libro è evidente che per tutti e tre le potenzialità della cultura partecipativa sono esponenzialmente accresciute dai social media e l'impatto delle nuove tecnologie sull'apprendimento, sull'ampliamento delle possibilità, sul coinvolgimento attivo, sulla democrazia è decisamente positivo. Il presupposto di fondo per cui la cultura partecipativa – nonostante le critiche che sono state espresse in questi anni da quando l'espressione ha cominciato a circolare ampiamente – vada sostenuta e favorita il più ampiamente possibile non viene mai messo in discussione, e del resto non potrebbe essere diversamente da parte di chi ha investito la propria vita e le proprie ricerche in questo. D'altra parte, il lettore che si aspettasse di leggere un coro inneggiante alle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità interconnessa attraverso le tecnologie rimarrebbe certamente deluso.

Infatti, ciascuno degli autori svolge, di volta in volta, un ruolo di contrappunto critico rispetto alle prospettive più ottimistiche e alle interpretazioni più rosee. Ne viene fuori un'analisi dell'ecosistema digitale odierno che ha certamente molte luci, ma che presenta anche parecchie ombre, e rispetto al quale la lettura dei fenomeni non è mai univoca, bensì presenta sempre numerose sfaccettature.

Molti sono gli argomenti di discussione intorno al quale emergono punti di vista differenti e su cui è evidente che il dibattito resta totalmente aperto: ad esempio, se la cultura partecipativa sia effettivamente tale quando non è "resistente", ossia quando non rappresenta un'alternativa alla cultura mainstream; fino a che punto la cultura partecipativa sia realmente inclusiva e se la partecipazione, pur essendo potenzialmente aperta a tutti, non sia invece fortemente condizionata da fattori sociali e personali; quanto siano realmente partecipativi i social network e le altre piattaforme che si proclamano tali; quanto sia fuorviante il concetto di "nativi digitali" (che – come sottolinea danah boyd – non è particolarmente benaugurante visto che i "nativi" non hanno mai vinto); quale sia la reale dimensione e diffusione della cultura partecipativa intesa come uso della tecnologia per creare nuove connessioni, per imparare nuove abilità e per creare nuovi contenuti; se la cultura partecipativa favorisca effettivamente il confronto tra punti di vista diversi e crei integrazione ovvero mantenga separati mondi differenti; i rischi di un mondo dominato dal mercato in cui l'attenzione diventa il bene primario; se la partecipazione sia anche motore di democrazia e di azione politica oppure no; gli effetti di un livello di alfabetizzazione tecnologica e informativa piuttosto limitata; i processi di manipolazione messi in atto non solo dai grandi attori della rete ma anche dai singoli; le conseguenze della commodification (trasformazione in merce) in atto sulla rete e la compressione dell'interesse pubblico; l'evoluzione del concetto di lavoro in un contesto partecipativo di rete e se la partecipazione debba diventare possibilità di guadagno o no; il ruolo delle corporations nella network society.

A tratti il confronto si fa persino aspro, come quando danah boyd esprime qualche perplessità sul fatto che Wikipedia sia naturalmente sostenibile e chiama "beg-a-thon" le maratone di raccolta fondi che l'enciclopedia online lancia periodicamente (p. 133-134), suscitando l'irrigidimento di Mimi Ito. Tutto questo però non fa altro che confermare lo sforzo di evitare in questo volume il rischio di quel pensiero unico o di quelle casse di risonanza, o filter bubbles come le chiamerebbe Eli Pariser (Il filtro. Quello che Internet ci nasconde, Milano, Il Saggiatore, 2012), che spesso limitano le potenzialità di espansione della partecipazione in rete.

Nell'ultimo capitolo, infine, Jenkins, Ito e boyd sottolineano i limiti che ancora condizionano l'emergere di una cultura pienamente partecipativa:

Again and again, this conversation has centered on issues of inequality and exclusion because, while we may live in a more participatory culture, we do not yet live in a fully participatory culture (Continuamente questa conversazione si è focalizzata sui temi della disuguaglianza e dell'esclusione perché, mentre potremmo vivere in una cultura più partecipativa, non viviamo invece ancora in una cultura pienamente partecipativa, p. 180).

Credo che la sintesi di questo approccio non semplicistico e semplificatorio alla cultura partecipativa si ritrovi nelle pagine iniziali del libro, quando danah boyd ricorda quali requisiti sono richiesti da una partecipazione effettiva:

[...] agency, the ability to understand a social situation well enough to engage constructively, the skills to contribute effectively, connections with others to help build an audience, emotional resilience to handle negative feedback, and enough social status to speak without consequences" (capacità di azione, capacità di capire una situazione sociale sufficientemente bene da impegnarsi in maniera costruttiva, abilità per contribuire in maniera efficace, connessioni con altri per aiutare a costruire un pubblico, capacità di recupero emotivo per gestire il feedback negativo, e uno stato sociale sufficiente per poter parlare senza conseguenze, p. 22).

Il concetto di cultura partecipativa, per la sua stessa natura non solo descrittiva, ma che tende sempre al raggiungimento di un obiettivo più elevato, è dunque un concetto in evoluzione e in quanto tale non può essere definito una volta per tutte, bensì deve essere costantemente sottoposto al confronto con la realtà.

Ed è proprio in questo atteggiamento di costante verifica e vigilanza che emerge l'attitudine di ricerca dei tre autori e l'approccio di questo libro, che si basano sull'assunto di non dare mai niente per scontato e di non far prevalere le esperienze, supposizioni e paure personali nella lettura dei fenomeni:

As scholars, we know that our perspectives are incomplete and we work diligently to address gaps in knowledge, but we also regularly struggle with others' outright rejection of what we see analytically because this information doesn't resonate with their personal experiences, assumptions, or fears (Come ricercatori, sappiamo che le nostre prospettive sono incomplete e lavoriamo diligentemente per colmare i vuoti nella conoscenza, ma combattiamo anche regolarmente con il rifiuto assoluto degli altri riguardo a quello che noi analizziamo quando questa informazione non risuona con le loro esperienze personali, supposizioni e paure, p. 35).

Anna Galluzzi, e-mail: anna.galluzzi@gmail.com




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