«Bibliotime», anno XIX, numero 1 (marzo 2016)

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Elena Giglia

Un altro mondo è possibile: dall'Open Access all'Open Science



Abstract

It might sound trivial to repeat it, but scholarly communication is constantly evolving, as new technologies are developed on an almost daily basis. Without any pretense to being exhaustive, this paper aims to present some significant changes in recent months – reflections, tools, projects – as inspiration or as concrete hints in order to foster the conversation and the transition from Open Access towards Open Science. Open Science is collaborative rather than competitive, and therefore it best serves knowledge advancement, innovation and societal needs.

The future is already here, it's just not
evenly distributed

(Royal Society 2015, 20)

Per iniziare

Sembra banale ripeterlo, ma - complici tecnologie ogni giorno "nuove" - la comunicazione scientifica è in continua evoluzione. Senza alcuna pretesa di esaustività, questo lavoro vuole presentare alcune novità significative degli ultimi mesi (riflessioni, progetti, strumenti) come spunti e come strumenti concreti per facilitare la discussione nel momento di transizione dall'Open Access alla Open Science, nella convinzione che una scienza aperta che risponda a logiche collaborative invece che esasperatamente competitive sia funzionale alla crescita della conoscenza e all'innovazione.

Suddiviso in due parti, In teoria e In pratica, questo lavoro è largamente debitore a Twitter quanto a segnalazioni, ma purtroppo non ne ha i 140 caratteri, è un po' più corposo. Vi porterà forse via un po' di tempo se vorrete leggerlo fino in fondo. L'idea di scienza aperta è un beneficio per tutti; credo che in Italia sia un concetto ancora poco diffuso, e quindi forse è utile parlarne, anche diffusamente, anche fermandosi un minuto in più a riflettere… perché? la vignetta - di cui non trovo in rete paternità intellettuale - lo spiega meglio di molte parole…

1. In teoria

La comunicazione scientifica è "per" la scienza

La comunicazione scientifica oggi è davvero funzionale agli interessi della scienza? Sembrerebbe di no:

The dissemination of Science is organized as a free market, where publishers compete for reputation and scientists compete for limited number of slots in journals. The rationale of the free market economy is to have efficient exchanges of rare and substitutable goods (apples, mobile phones, money...) between those who own them and those who want them. Yet scientific knowledge, unlike money, is something its owners want to share. It is not a substituable good. Scientists do want to be paid, but in a different currency - one that involves recognition and credit - whose amount on Earth is not limited. Therefore, the current system is deeply inappropriate to disseminate Science: it creates an artificial rarity that overrides the exchanges naturally underlying Science (Bon, 2015).

Bisogna scardinare le logiche dell'eccellenza e della scarsità artificiale creata dalle riviste scientifiche (Eve 2016), per far sì che "un'antica tradizione e una nuova tecnologia" convergano davvero, come si legge nell'incipit della Dichiarazione di Berlino (Berlin Declaration, 2003).

"Skills and services needed for the great conversation should serve its objectives, not the reverse": così il professor Jean Claude Guédon concludeva il suo intervento a Bruxelles al Workshop on Alternative Open Access Publishing Models, il 12 ottobre 2015. Le premesse di Guédon sono assai significative ai fini di un ripensamento complessivo: la scienza è per sua natura collaborativa, non competitiva. La competizione - e la competizione esasperata di questi ultimi anni - deriva in larga parte dalla sfida commerciale fra grandi editori, basata su Impact Factor e ranking di riviste, che è stata erroneamente estesa alla valutazione-competizione di individui e istituzioni (Brembs 2013).

Al concetto di "qualità" si è sostituito quello di "eccellenza", indice di un'ossessione per la competizione che non può che portare a comportamenti distorti, di cui parleremo più avanti. La comunicazione scientifica si è evoluta nel corso dei secoli, in coincidenza con l'avvento di nuove tecnologie, ma anche di precise scelte culturali: le tecnologie sono solo una potenzialità, e sono le scelte strategiche che guidano il cambiamento. L'Open Access ha sfruttato le potenzialità del digitale, ma la transizione verso un nuovo modello è ancora in atto; la storia non è ancora stata scritta. Per questo motivo, per orientare al meglio la transizione, oggi è necessario chiedersi: come sarà la comunicazione scientifica? E, soprattutto, chi ne avrà il controllo?

La prima domanda è cruciale, e può essere affrontata da due punti di vista. Guédon immagina di dover scrivere la storia della nascita della stampa, e immagina di farlo dal punto di vista degli scriptoria. Non è un atteggiamento costruttivo: ovvero, non possiamo immaginare la comunicazione scientifica di domani semplicemente tentando di adattare il presente a un futuro che ancora non conosciamo. In altre parole, non dobbiamo pensare al futuro avendo come obiettivo di salvaguardare e adeguare i ruoli e le posizioni attuali degli attori coinvolti - editori, autori, bibliotecari.

Guédon suggerisce una prospettiva diversa: dobbiamo chiederci cosa serva realmente alla comunicazione scientifica per essere pienamente funzionale, e compiere scelte di conseguenza. Se pensiamo alla scienza come grande conversazione, alla sua natura collaborativa, all'avanzamento della conoscenza come fine, allora i suoi requisiti saranno: una comunità di "peers", seri e credibili; dei "cristalli" di conoscenza - quei momenti in cui la conoscenza si cristallizza e prende le forme più diverse, certo diverse dalla rivista tradizionale (Stern, Guédon e Jentsen 2015); un approccio "fluido" alla creazione di conoscenza, simile a quello degli sviluppatori di software libero; la condivisione dei dati; la condivisione del sapere; la valutazione della qualità reale di un lavoro e non della sede di pubblicazione.

Gli strumenti che oggi i giovani ricercatori utilizzano - e che trovate più sotto nella sezione In pratica - sono in perfetta consonanza con questa impostazione teorica. E, di fatto, indicano anche una direzione precisa in relazione alla seconda domanda, perché permettono ai ricercatori di riprendere possesso della comunicazione scientifica, sottraendola ai monopoli che sono nati negli ultimi decenni in nome di interessi e logiche che nulla hanno a che fare con la scienza e la sua comunicazione.

La comunicazione scientifica e la pubblicazione scientifica non sono più allineate: si pensi all'importanza della ricerca locale, per risolvere problemi reali, che nessuna rivista internazionale pubblica; si pensi all'importanza della comunicazione dei risultati negativi, che oggi nessuno pubblica per logiche di mercato (Royal Society 2015, 6). Del resto, "the publishing process has been shaped by analogue, serial processes. The digital age encourages parallel processes" (Royal Society 2015, 7).

Né sono allineate le pubblicazioni attuali - ancora parametrate sul mondo cartaceo - e le enormi potenzialità del web:

PDFs reinforce the idea that scholarship must be portioned into discrete units, when the truth is that the best scholarship is sprawling, unbounded and mutable. The Web is flexible enough to facilitate this, in a way that print could never do. A print piece is necessarily reductive, while Web-oriented scholarship can be as capacious as required (Banks 2016).

Il cambiamento è in atto: 101 innovazioni (che sono poi 600)

Che il mondo della comunicazione scientifica stia cambiando è una realtà. Due colleghi olandesi, Bianca Kramer e Jeroen Bosman, hanno sustanziato questa affermazione - che anno dopo anno rischiava di perdere significato - cercando di tracciare le 101 innovations in scholarly communication (Kramer e Bosman 2015).

Fig. 1. 101 Innovazioni nella comunicazione scientifica

Per ogni fase della ricerca (Discovery, Analysis, Writing, Publication, Outreach, Assessment) i ricercatori sono stati invitati a indicare quali strumenti utilizzano nel loro flusso di lavoro quotidiano. I risultati preliminari (101 innovazioni, appunto) sono stati presentati in un poster. Parallelamente, è stata lanciata un'indagine online chiusa il 10 febbraio 2016 che ha portato la lista finale a oltre 600.

Il poster presenta anche una griglia interpretativa [Fig. 2] che raggruppa concettualmente i principali punti e li declina come opportunità, tendenze, sfide, sviluppi a lungo termine.

Fig. 2. I principali sviluppi nelle 6 fasi della ricerca

Ciò che emerge chiaramente è una tendenza sempre più collaborativa (social networks per ricercatori, scrittura collaborativa, condivisione delle note di laboratorio, condivisione dei dati); una forte aspettativa verso forme aperte di pubblicazione e l'idea - centrale - che la pubblicazione venga prima, il giudizio dopo, lasciandolo ai commenti della comunità di riferimento; l'insofferenza per la valutazione puramente quantitativa che non tiene conto dell'impatto reale del lavoro. Ne discuteremo ampiamente più avanti. Per ora è importante tenere conto dello scopo di questa indagine, ovvero: "We intend to address the question of what drives innovation and how these innovations changes research workflows, and can contribute to more open, efficient and good science" (Kramer e Bosman 2015).

Force11 è all'avanguardia nel delineare la comunicazione scientifica che verrà, o meglio, l'ecosistema della comunicazione scientifica adatto al 21° secolo: la visualizzazione grafica delle idee condivise al del workshop di Madrid del 27 febbraio 2016 sugli Scholarly Commons è un caleidoscopio di principi, pratiche, interfacce, standard che dovrebbero governare il flusso multidirezionale degli scholarly objects attraverso tutte le fasi del processo della ricerca, dalla nascita dell'idea alla sua disseminazione (Kramer 2016).

In sostanza, è la stessa prospettiva di Guédon messa in pratica: la relazione fra innovazioni tecniche e cambiamento, verso una scienza più aperta ed efficiente che risponda agli interessi della scienza, non di altri.

L'apertura è "per" l'innovazione e la conoscenza

Una sponda politica di altissimo livello è stata offerta, su questi temi, dal neo Commissario europeo per la ricerca, la scienza e l'innovazione, Carlos Moedas, che ha assunto una decisa posizione a favore dell'Open Access e della openness in generale come fondamento della scienza e come veicolo di innovazione. Le sue parole sono chiare:

I am convinced that excellent science is the foundation of future prosperity, and that openness is the key to excellence […]. We need more open access to research results and the underlying data. Open access publication is already a requirement under Horizon 2020, but we now need to look seriously at open data […]. Let's dare to make Europe open to innovation, open to science and open to the world (Moedas 2015a).

E ancora: l'idea di apertura è inclusiva, crea ponti fra le discipline e permette di affrontare le sfide comuni:

Every day I meet people from our vast community of thinkers and innovators. People who are tireless in their willingness to guide Europe towards ever-greater peace and prosperity. Their defining quality is openness […]. It is my opinion that the future of innovation lies in bringing as many different people, concepts and fields together. The future of research in Europe lies in people like you setting its course as a community, and with those who are different from you. In my eyes, the future lies in open innovation, because openness fuels innovation. (Moedas 2015 b).

Il 1 gennaio 2016 l'Olanda ha assunto la presidenza dell'Unione Europea. Il Segretario di Stato Sander Dekker ha iscritto l'Open Access fra le priorità dell'agenda della presidenza olandese, ed è convinto sostenitore dei benefici dell'accesso aperto - con accento sì su innovazione e competitività ma senza dimenticare lo scopo primario della crescita condivisa della conoscenza (Dekker 2016). I mesi della presidenza olandese saranno quindi verosimilmente cruciali per gli sviluppi dell'Open Access sul piano politico.

Qualcosa si sta muovendo anche nei singoli stati: il principale ente di finanziamento della ricerca olandese, NWO, ha ristretto la politica Open Access a partire dal 1 dicembre 2015, richiedendo o il deposito immediato senza embargo o la pubblicazione in Open Access attraverso accordi con gli editori a livello nazionale. Personalmente auspico che si trovino soluzioni più avanzate rispetto a quelle adottate a livello nazionale dall'Olanda stessa e prima dalla Gran Bretagna basate sul famoso Finch report (Finch 2012): se l'orientamento è quello di sposare - come pare e come, a tendere, è giusto che sia - il modello di pubblicazione in Open Access (la cosiddetta Gold Road, contrapposta al deposito o Green Road) allora è necessario anche un ripensamento globale e, soprattutto, le condizioni devono essere dettate dalla comunità degli autori, non dagli editori commerciali come è stato invece in Gran Bretagna.

Il modello britannico è stato oggetto di aspre critiche, ben riassunte in un documento a cura di SPARC Europe: ne cito solo due, molto pratiche, ovvero il fatto che il sostanzioso pagamento per le APC - Article Processing Charges - a editori commerciali che offrano opzioni Open (definiti "ibridi") possa offrire risparmi solo al termine di una transizione globale, ma, nel mentre, oltre a raddoppiare i costi allontani sempre più nel tempo la transizione stessa perpetuando il sistema attuale; inoltre, il semplice pagamento delle APC non garantisce alcun diritto di riuso perché non modifica la gestione dei diritti, che restano all'editore (SPARC 2012, Pinfield 2015).

La via degli accordi con gli editori commerciali per una inclusione della pubblicazione Open Access nella cifra che già si paga per i contratti non è semplice, come dimostra il lungo braccio di ferro proprio fra i consorzi olandesi ed Elsevier, boicottato per un anno (Kinglsey-Harnad 2015); è sostenibile solo nei paesi molto ricchi, e rischia quindi di creare un'Europa a due velocità; soprattutto, rischia di perpetuare le logiche monopolistiche del mercato anelastico attuale (Larivière 2015), non ridiscutendone i tratti disfunzionali. Persino la Commissione Europea, con una dichiarazione congiunta del Commissario Moedas e del Segretario di stato Dekker, ha riconosciuto in modo deciso che

scientific publishers need to make their business model of open access publishing fairer and fully transparent. Only a fair business model supports European research […]. In Horizon 2020, the EU's research and innovation programme, all costs for open access are eligible for reimbursement during the duration of the project. However, the Commissioner warned that the Commission will adapt this policy if it finds that publishers are charging excessive article processing charges for opening access to articles.

L'Austria, che si sta muovendo verso una politica nazionale che preveda il passaggio pieno all'Open Access entro il 2025, ha fatto proprie le preoccupazioni per una maggiore equità e trasparenza, come si legge nelle 16 raccomandazioni che accompagnano il documento sulla transizione: si prevede sì la ricontrattazione con gli editori perché tutte le pubblicazioni siano Open Access, con il vincolo però che ci sia sempre la trasparenza sui contratti stessi e sui prezzi, che devono essere "fair"; si prevede la revisione della normativa sul copyright, che come vedremo è centrale; si prevede il sostegno al deposito negli archivi Open fino al momento della conversione dell'intero sistema (OANA 2015 4-5).

Il rischio, se non si inverte la rotta rispetto al sistema chiuso attuale, è che vi si faccia breccia in modo non troppo ortodosso: Alexandra Elbakyan, allora studentessa in una Università in Kazakistan con scarso accesso alla letteratura scientifica, ha fondato SciHub, un sito pirata che entra nei siti delle istituzioni che vi hanno accesso, copia oltre 48 milioni di articoli e li mette a disposizione di tutti. Citato in giudizio da Elsevier, il dominio SciHub.org è stato costretto a chiudere. Elbakyan, considerata un'eroina, una delinquente o il Robin Hood della scienza (Oxenham 2016), non si è arresa e ha riposizionato il servizio nel dark web (Waddell 2016) - ora vi si accede solo attraverso successive cifrature - ottenendo in breve una pubblicità esponenziale: il servizio analogo di richiesta di pdf via Twitter, con #icanhazpdf, ha avuto 5 tweet in un giorno, mentre SciHub è stato menzionato in 68 tweet in un'ora, e cresce ogni giorno il numero di paper scaricati, oltre 217.000 da più di 69.000 utenti. La realtà è questa:

When I was a student in Kazakhstan University, I did not have access to any research papers. These papers I needed for my research project. Payment of 32 dollars is just insane when you need to skim or read tens or hundreds of these papers to do research. I obtained these papers by pirating them (Oxenham 2016).

Va da sé che questo è solo un sintomo del malessere, non può essere una soluzione (Priego 2016). Ma da molti ricercatori è vista come una forma necessaria di "disobbedienza civile" a fronte di un iniquo sistema di disseminazione dei lavori di cui sono autori (Brembs 2016b).

Una transizione sostenibile?

Il punto nevralgico è la sostenibilità del sistema, a maggior ragione nel momento attuale di transizione in cui sono in vigore sia il vecchio regime degli abbonamenti sia il nuovo modello Article Processing Charges - APC. Va chiarito preliminarmente che ci sono tre forme di APC, che hanno un impatto assai diverso dal punto di vista finanziario:

Una recente disamina dei costi (Björk 2014) ha così fissato le quote medie per questi tre tipi di APC:

Fig. 3 Prezzo medio delle APC per tipo (Bjork 2014)

Balza subito all'occhio l'incongruità del fatto che le APC delle riviste ibride - quelle che restano in abbonamento pur rendendo aperti alcuni articoli e che quindi hanno altre fonti di sostentamento - siano nettamente più alte di quelle delle riviste che abbonamento non hanno, a riprova del fatto che ancora una volta siamo davanti a un'economia del prestigio e non di mercato. Ma, come nota un recentissimo rapporto britannico a due anni dal Finch report, "UK research, and its wider economy, are not being as well served as they might be by the legacy journals market" proprio perché l'accesso e i servizi che si ottengono non sembrano commisurati alle enormi cifre spese (JISC 2016).

Sulla spirale dei costi degli abbonamenti, sul fenomeno dei big deals e del bundling si sono versati fiumi di inchiostro. Ma, purtroppo, dati reali sui costi non sempre sono possibili da ottenere, a causa delle clausole di riservatezza presenti nei contratti sottoscritti con gli editori commerciali.

Lo studio dall'accattivante titolo Opening the Black Box of Scholarly Communication Funding: A Public Data Infrastructure for Financial Flows in Academic Publishing, tenta di tracciare, almeno per il contesto britannico, i flussi di denaro in entrata - finanziatori della ricerca - e in uscita - abbonamenti e APC - ricostruendo una mappa assai indicativa (Lawson 2015, 7). Ciò che sconcerta è che per ottenere i dati relativi alle somme pagate ai dieci maggiori gruppi editoriali sia stato necessario utilizzare la richiesta di accesso pubblico agli atti - in UK, Freedom of Information; la procedura è macchinosa (Lawson and Meghreblian 2014) ed è quindi stato possibile dar conto solo di 93 milioni di sterline sui 180 totali che risultano spesi in UK per abbonamenti (Lawson 2015, 12). Non è solo una questione di trasparenza, il vero problema è che senza dati certi non si può nemmeno sapere quanto si può allocare per modelli alternativi:

The current lack of publicly available information concerning financial flows around scholarly communication systems is an obstacle to evidence-based policy-making - leaving researchers, decision-makers and institutions in the dark about the implications of current models and the resources available for experimenting with new ones (Lawson 2015, 20)

Flussi di denaro e trasformazione del sistema della comunicazione scientifica sono alla base del libro bianco di Ralf Schimmer, Disrupting the subscription journals' business model for the necessary large-scale transformation to open access (Schimmer, Geschuhn e Vogler 2015). Lo studio, presentato al citato workshop di Bruxelles del 12 ottobre 2015, è stato al centro del dibattito di Berlin 12, l'ultima della serie di conferenze curate dalla Max Planck Gesellshaft da cui nacque la Dichiarazione di Berlino.

Partendo dalle due maggiori banche dati di letteratura scientifica - Web of Science e Scopus - Schimmer calcola che vengano pubblicati fra 1,5 (WOS) e 2 milioni (Scopus) di articoli all'anno. Sulla base dei dati disponibili sul giro di affari degli abbonamenti, questo significa una spesa globale di 7,6 miliardi di euro, ovvero, dividendo, una spesa per articolo che va dai 3.300 ai 5.000 euro (a seconda che si prenda il dato WOS o Scopus). Questo è quanto si paga oggi per articolo, in regime di abbonamento. Ora, se moltiplichiamo il numero di articoli per una quota di APC pari a 2000 euro - largamente superiore a quelle prese in considerazione per lo studio, derivanti dai report dei principali enti finanziatori della ricerca, con un massimo di APC media di 1.686 - la spesa totale corrisponderebbe a 3 o 4 miliardi (di nuovo, a seconda che si prenda il dato di 1,5 o 2 milioni di articoli), con un risparmio che si aggira intorno ai 3,5 - 4,5 miliardi di Euro.

Lo studio dimostra quindi che le risorse sono già in circolo nel sistema corrente; allocandole diversamente si avrebbero anche consistenti risparmi di scala. Certo, la transizione dovrebbe essere globale e contestuale: l'esito del Berlin 12 è stata quindi una lettera di Expression of Interest che sta circolando per la firma fra i maggiori enti di ricerca e consorzi che negoziano con gli editori.

La risposta degli editori commerciali non si è fatta attendere, con un elenco ragionato - e scontato - di critiche spesso pretestuose; ma la proposta ha creato perplessità anche all'interno del mondo Open Access. Della possibile creazione di un nuovo digital divide fra paesi ricchi e paesi poveri abbiamo già detto; altri dubbi riguardano la questione, non banale, della suddivisione delle spese e quella, ancor più cruciale, delle regole di mercato: se il monopolio ha permesso agli editori di aumentare a dismisura il prezzo delle riviste scientifiche, chi ci assicura che - visto che non cambia il quadro di monopolio - non cresceranno in futuro in maniera esponenziale anche i prezzi delle APC?

Paola Galimberti evidenzia, a monte, un dubbio di carattere epistemologico sul termine "disruptive": il semplice spostamento dei fondi da un sistema di pagamento all'altro cambierebbe tutto per non cambiare niente (Galimberti 2016). Non verrebbe scardinato, infatti, il mercato anelastico in cui non vige la regola della domanda e dell'offerta - se vuoi leggere Nature, paghi l'abbonamento, non esiste concorrenza - e in cui Elsevier, Wiley, Springer hanno margini di guadagno che si attestano intorno al 35%, cosa che li pone allo stesso livello di Pfizer (42%), più in alto della Industrial & Commercial Bank of China (29%) e di gran lunga sopra Hyundai Motors (10%), ovvero delle compagnie con maggiori profitti nel campo della farmacia, delle banche e delle auto secondo Forbes (Larivière 2015, 10). E forse nessuno ha mai considerato con sufficiente attenzione il fatto che un profitto del 35% (quale era nel 2012, oggi salito al 38%), pur legittimo perché ogni editore ha diritto a trarre il maggior vantaggio dal proprio lavoro, significa però anche che

Così Mike Taylor conclude il suo The obscene profits of commercial scholarly publishers:

Yes, publishers have a right to make a living. Not only that, but they have a right to make as big a profit as the market can bear (though of course when they form a cartel that distorts the market monopolistically, that changes things).You just have to ask yourself whether that's where you want your money going (Taylor 2012).

Ovvero, nelle parole della petizione Christmas is over della LERU - League of European Research Universities, "Research funding should go to research, not to publishers!".

Björn Brembs dipinge il sistema attuale della comunicazione scientifica come "auto-infettatasi con un virus mortale": il concetto della pubblicazione su riviste di prestigio che ha ingenerato la spirale dei prezzi (Brembs 2015b). Dovremmo chiederci allora se questa comunicazione scientifica - così disfunzionale sotto il profilo dei costi - risponda almeno ancora ai bisogni della scienza, e della scienza aperta in particolare:

Classical scientific journals, at least in the natural sciences and medicine, have served their time. There is no longer a technical or procedural reason to publish new research findings exclusively in the form of scientific journals. New interdisciplinary platforms that expand upon existing repositories or institutional servers will, in the intermediate term, replace scientific journals, with few exceptions […]. Today, every scientist is in control of whether he continues to choose journals in which he and his colleagues publish according to prestige and impact factor or wishes to take advantage of the far greater chances that present themselves through the manifold new possibilities of social networks and digital infrastructure today (Grossmann 2015).

Il futuro potrebbe prendere la forma di una piattaforma comune su cui depositare il proprio lavoro e tutto il materiale accessorio (dati, video…), che riceve quindi una data certa di paternità intellettuale e un DOI per essere univocamente riconosciuto, e diventa immediatamente ricercabile e valutabile da ogni studioso, che allega poi la sua revisione al lavoro in modo assolutamente trasparente; al contrario, ora un lavoro diventa ricercabile solo dopo una peer review blindata, "scritto nella pietra" su un articolo di rivista e dentro uno delle miriadi di silos informativi, che ne limita di fatto la disseminazione (Grossmann 2015). Ognuno può poi selezionare e raggruppare il materiale in Collezioni. Non è solo utopia: piattaforme così strutturate, basata su una pubblicazione più "liquida", si stanno moltiplicando, come si legge più sotto nella sezione In Pratica.

Una proposta più radicale viene dallo stesso Björn Brembs: quella di una infrastruttura completamente aperta, in cui non esista più il sistema obsoleto delle riviste ma solo

an integrated, federated and centralized backbone infrastructure, into which such functionalities can be incorporated as plug-ins (or 'apps'). What we need for this infrastructure is a set of open, evolvable rules, akin to TCP/IP, HTTP and HTML, which can be used to leverage key technologies for the entire community at the point of development - and not after decades of struggle against corporate interests, legal constraints or mere incompetence (Brembs 2015a).

O ancora, secondo il citato gruppo Force 11,

We see a future in which scientific information and scholarly communication more generally become part of a global, universal and explicit network of knowledge; where every claim, hypothesis, argument-every significant element of the discourse-can be explicitly represented, along with supporting data, software, workflows, multimedia, external commentary, and information about provenance. In this world of networked knowledge objects, it would be clear how the entities and discourse components are related to each other, including relationships to previous scholarship; learning about a new topic means absorbing networks of information, not individually reading thousands of documents. Adding new elements of scholarly knowledge is achieved by adding nodes and relationships to this network. People could contribute to the network from a variety of perspectives; each contribution would be immediately accessible globally by others. Reviewing procedures, as well as reputation management mechanisms, would provide ways to evaluate and filter information. This vision moves away from the Gutenberg paper-centric model of the scholarly literature, towards a more distributed network-centric model; it is a model far better suited for making knowledge-level claims and supporting digital services, including more effective tracking and interrogation of what is known, not known, or contested (Bourne et al. 2011)

Da ultimo, la rivoluzione nel modo di produrre la scienza non può non avere riflessi anche su come la si valuta. Cito ancora Paola Galimberti:

Ha senso ai giorni nostri, all'epoca dell'open science, dei portali della ricerca, degli overlay journals, parlare ancora di riviste così come vengono confezionate e fornite dagli editori o forse la vera disruption deve avvenire nella modalità in cui si produce, si valida, si comunica e soprattutto si valuta la ricerca scientifica? (Galimberti 2016).

I criteri di valutazione sono causa ed effetto, a loro volta, del perpetuarsi di questo sistema disfunzionale: "The way to develop a cost-effective market is to break the link between publishing in particular journals and measures of esteem of researchers. That's the fundamental problem" (Royal Society 2015, 34).

Maria Chiara Pievatolo, commentando la proposta di Schimmer, punta il dito su una questione nevralgica:

[la situazione] era più semplice fino alla metà del secolo scorso quando la pubblicazione si usava per comunicare e non per valutare la ricerca. Ma quando si è reso necessario per la carriera pubblicare su "certe" riviste, è anche diventato, per le biblioteche, indispensabile acquistarle. Ciò ha eliminato buona parte dei margini di trattativa e ha permesso agli editori di alzare i prezzi quasi a piacimento. Ci sono molti studi su questo tema: segnalo, per la sua brevità, questa conferenza del 2011 tenuta da Lessig al Cern (Lessig 2011).

Perché siamo finiti in questa situazione? Perché gli autori scientifici, di solito, non si curano dei prezzi degli abbonamenti e non gli interessa affatto che i loro testi siano resi artificialmente costosi ed esclusivi. L'idea della MPG si basa sulla convinzione che è vano tentare di responsabilizzare gli autori e che è preferibile, per rendere gli articoli scientifici più accessibili, pagare gli editori per scrivere anziché per leggere.

Il mio motivo principale di perplessità, in merito a questa scorciatoia, è proprio che il progetto non tocca la centrale di irresponsabilità costituita da autori e valutatori scientifici - e quindi non elimina la possibilità che gli editori impongano prezzi molto alti per pubblicare su "certe" riviste, nella beata indifferenza degli autori (Pievatolo 2015a).

Di più: sempre Maria Chiara Pievatolo, stigmatizzando l'attuale perverso sistema in cui i ricercatori sono vittime e predatori (Neylon 2015b) perché, accettando la spinta al publish or perish, pongono le condizioni per un sistema predatorio in sé, e si lasciano trattare come homines oeconomici, valutati sull'accumulo sempre maggiore di "prodotti". Ma la comunicazione scientifica è una grande conversazione, non una summa di "prodotti della ricerca": Socrate cerca di convincere Critone che il vero Socrate è nelle parole, non nel corpo che di lì a poco sarà cadavere. Infatti, mentre il Socrate di Critone è polvere, il Socrate di Platone ci parla ancora oggi, in un ininterrotto dialogo (Pievatolo 2015b).

L'impatto che le regole di valutazione hanno avuto su come la scienza viene prodotta merita un articolo a parte. Ai fini del nostro discorso è solo utile ricordare almeno due comportamenti adattivi degli autori - conseguenze "non volute" - che contribuiscono a rendere disfunzionale il sistema attuale:

Marc Edwards, il professore che ha portato alla pubblica attenzione statunitense lo scandalo dell'acqua inquinata di Flint - coperta dagli scienziati locali - è molto chiaro:

I am very concerned about the culture of academia in this country and the perverse incentives that are given to young faculty. The pressures to get funding are just extraordinary. We're all on this hedonistic treadmill - pursuing funding, pursuing fame, pursuing h-index - and the idea of science as a public good is being lost (Kolovitch 2016).

Inoltre, come ricordava il prof. Guédon, la competizione sfrenata e la logica del publish or perish stanno portando a casi sempre più esasperati di scientific misconduct che minano i principi stessi della scienza (Fang 2012). Un recentissimo sondaggio fra giovani ricercatori biomedici (Tijdink 2016) conferma come il cinismo del publish or perish e la corsa alle riviste con alto Impact Factor sia letale per la scienza:

competition has "profound effects" on the way science is performed in many countries across the globe. Making publishing an objective in itself creates a powerful, and powerfully perverse, incentive to cut corners, to fabricate data, to rush unverified results into print, to screw over one's colleagues - to do, in short, all the things that unscrupulous researchers now do to get and stay ahead of each other (Oranski e Adams, 2016).

 

C'è qualcosa che non va

Basta dare un'occhiata al blog scientifico Retraction Watch per rendersi conto che qualcosa non va. Retraction Watch non è mai a corto di notizie; ogni giorno ci sono nuovi casi di ritrattazioni, con le cause più varie, dalla falsificazione dei dati alla frode al semplice make up dei dati per renderli più pubblicabili. Esiste anche una lista degli autori più ritrattatati o, peggio, degli articoli ritrattati più citati. Del resto, nel sistema attuale, la "pubblicabilità" ha tristemente poco a che fare con la verità scientifica (Nosek, Spies, Motyl 2012). La Royal Society ci ricorda che "People game the system at every level and this risks the loss of valuable research in favour of fashionable research" (Royal Society 2015, 15).

Le ritrattazioni si sono moltiplicate esponenzialmente negli ultimi anni, con conseguenze nefaste non solo sulla credibilità della scienza in sé ma anche, per esempio, sul trattamento dei pazienti in medicina (Steen 2011). E, sembra paradossale, è difficile far riconoscere non la frode ma anche solo l'errore - il cui sospetto viene puntualmente confermato una volta avuto accesso ai dati grezzi - agli editors delle riviste (Allison 2016), per cui passano mesi e anni in cui l'articolo da ritrattare o correggere circola e viene citato, spesso in centinaia di occorrenze, a evidente discapito della verità scientifica (Fang 2012, Table 3). Ciò che balza agli occhi, poi, è l'alta correlazione fra il numero di ritrattazioni e l'Impact Factor della rivista (Fang, 2012).

Fig. 4. Correlazione fra Impact Factor e numero di ritrattazioni (Fang, 2012)

Non a caso Björn Brembs sfida i suoi colleghi ricercatori a continuare a pubblicare sui "Journals of unreliable science" (Brembs 2015c; Brembs 2016a) ed enuclea, in un articolo quanto mai attuale, tutte le distorsioni derivanti dall'uso sfrenato dei ranking di riviste - il cosiddetto "effetto declino" - con studi dai risultati sempre meno significativi o studi con risultati "gonfiati" e quindi irriproducibili (Brembs 2013).

Il tema della non-replicabilità degli studi pubblicati sta diventando di pressante attualità, se anche la rivista Nature dedica la tema uno Speciale, Challenges in irreproducible results. I National Institutes of Health (NIH), maggiore ente finanziatore della ricerca biomedica USA, hanno recentemente emanato linee guida più restrittive sui disegni di studi preclinici, sulla base del fatto che molti di questi risultano non riproducibili (Voosen 2015). L' International Committee of Medical Journal Editors (ICMJE) ha lanciato a gennaio 2016 la proposta di non pubblicare più clinical trials se i dati grezzi non vengono resi pubblici; anzi, il trial non dovrebbe più essere registrato senza un adeguato piano di condivisione dei dati (Taichmann 2016). Questo perché la riproducibilità sta diventando un problema, e grosso.

In psicologia, solo il 36% degli studi sono risultati riproducibili (Open Science Collaboration, 2015). Reproducibility project fornisce tutti i dati utili a verificare. Si stanno moltiplicando i casi di tentativi falliti di riprodurre studi clinici. La rivista BMJ, British Medical Journal, che dal 2013 rifiuta di pubblicare studi clinici se non sono stati depositati anche i dati, sta pubblicando repliche di studi clinici del passato: nel caso dello studio 329, su un antidepressivo per adolescenti, i risultati odierni smentiscono quelli del 2001, dimostrando non solo che il farmaco aveva la stessa efficacia del placebo, ma che è potenzialmente pericoloso (De Noury 2015).

Il progetto The reproducibility initiative ha avviato studi di riproducibilità, fra cui uno su 50 studi clinici sul cancro. Ma il lavoro è rallentato, se non reso impossibile, dal fatto che gli autori spesso sono renitenti a fornire i dati su cui si basa l'articolo; in un caso si è dovuto aspettare un intero anno (Van Noorden 2015). Ben Goldacre, il medico famoso per aver alzato il sipario su fatti e misfatti delle case farmaceutiche (Goldacre 2011) ha avviato COMPare, il progetto che mira ad analizzare le discrepanze fra quanto dichiarato alla registrazione del clinical trials e quanto effettivamente pubblicato nelle 5 maggiori riviste mediche: i dati sono sconfortanti, se 58 su 67 trials hanno poi modificato i risultati, 301 non riportando risultati attesi e 357 aggiungendo "silenziosamente" risultati non attesi (McCook 2016).

Faculty of 1000 ha aperto un canale dedicato a Preclinical robustness and reproducibility, in cui i ricercatori possono pubblicare replication studies che confermino o smentiscano studi precedenti, purché alleghino metodologia e dati. I dati della ricerca dovrebbero essere alla base della pubblicazione scientifica. Sempre maggiore è il numero di riviste che richiede la pubblicazione dei dati insieme all'articolo, proprio per ragioni di trasparenza oltre che di riuso (Royal Society 2012). Ma uno studio di gennaio 2016 su 441 lavori scientifici di area biomedica pubblicati fra il 2000 e il 2014 evidenzia come in nessun caso sulle riviste fossero presenti né i dati, né i protocolli seguiti: l'auspicio è che in futuro vi sia maggiore trasparenza per rendere le pratiche di riproducibilità più facili (Iqbal, 2016). Addirittura, ci si chiede se la segretezza sui dati sia solo una cattiva abitudine o si iscriva a pieno titolo nell'area della scientific misconduct, poiché va contro le buone pratiche di ogni raccomandazione, standard o linea guida delle diverse comunità disciplinari (Janz 2015):

Fig. 5 Dati e scientific misconduct (Janz 2015)

Un editoriale in controtendenza è stato pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine (Longo e Drazen 2016). Vi si legge, fra le preoccupazioni relative alla condivisione dei dati:

A second concern held by some is that a new class of research person will emerge: people who had nothing to do with the design and execution of the study but use another group's data for their own ends, possibly stealing from the research productivity planned by the data gatherers, or even use the data to try to disprove what the original investigators had posited. There is concern among some front-line researchers that the system will be taken over by what some researchers have characterized as "research parasites."

Come prevedibile, #researchparasites ha monopolizzato per giorni l'attenzione su Twitter, scatenando un'ondata di polemiche e di sarcasmo: "no need for @NEJM to coin new term for people who use other people's data - we already have one: SCIENTIST" (Eisen 2016a).

Quando si parla di Open Research Data, come vedremo bene nel progetto pilota di Horizon 2020 per la ricerca finanziata dall'Unione Europea, non si parla mai di dati inediti o non ancora sfruttati da chi li ha raccolti, ma dei dati su cui si basa la pubblicazione scientifica: sono quindi set di dati che sono utili a confermare i risultati pubblicati. La scienza è più solida se si possono leggere direttamente i dati invece che l'interpretazione che ne dà l'articolo - sulla carta, per motivi di spazio, l'articolo non era che una sintesi dei risultati, ora online si può corredare l'articolo dell'intero dataset - ed è più efficace perché i dati possono essere riusati da altri ricercatori, anche afferenti ad altre discipline, o semplicemente con altre prospettive.

Una pratica massiva di condivisione dei dati pone certo problemi di conservazione, di accesso, di integrità, di licenze, ma le soluzioni condivise stanno arrivando dalla comunità, i cui punti di riferimento sono Research Data Alliance e CODATA. E il progetto europeo RECODE ha già stilato le Raccomandazioni per la redazione di politiche istituzionali sugli Open Research Data che tengano conto di tutte queste istanze.

Ci sono ancora resistenze all'interno della comunità scientifica, legate alla questione della inclusione dei dataset nel circuito della valutazione della ricerca, o al nodo delle licenze per il corretto riuso (Scheliga 2014): sono tutte brillantemente descritte - e smontate - da Carly Strasser nel suo Closed data… excuses, excuses (Strasser 2013). Ci sono ancora atteggiamenti paradossali, come quello gustosamente descritto in Who is afraid of open data?, in cui la giovane ricercatrice sente di aver subito un sopruso alla richiesta della rivista PLoS ONE di fornire anche il dataset a corredo dell'articolo (Bishop 2015).

Ma molti ricercatori, insofferenti del sistema attuale, sono già avanti sul percorso verso la Open Science, non solo condividendo i loro dati ma utilizzando strumenti collaborativi per fare ricerca. Basta dare un'occhiata ai video degli interventi di OpenCon 2015 per rendersene conto. O leggere la storia di Rachel Harding, post doc all'Università di Toronto, che condivide in tempo reale tutte le sue note di laboratorio nel blog Labscribbles, convinta di poter raggiungere prima una cura per il morbo di Huntigton se non lavora da sola ma potenzialmente insieme a tutti gli altri ricercatori nel mondo (Morris 2016).

Dall'Open Access alla Open Science

I ricercatori più innovativi e aperti stanno quindi cercando di scardinare, dal basso, nella pratica quotidiana, senza bisogno di manifesti o di definizioni, il sistema attuale. Stanno prendendo consapevolezza dei loro diritti (il diritto è "d'autore", perché viene ceduto senza pensarci?). Del fatto che sono gli editori ad avere bisogno degli autori più di quanto gli autori abbiano bisogno degli editori (Economist 2012). Del fatto che ci sono strumenti tecnici - vedi la sezione In Pratica - che stanno cambiando il modo in cui si fa scienza e stanno facendo slittare le tradizionali funzioni delle riviste. Del fatto che mettere a disposizione i propri dati della ricerca non solo ne permette il riuso ma ne garantisce anche la solidità e la replicabilità. Del fatto che mettere a disposizione i risultati e i dati apre le porte degli atenei al territorio, con importanti ricadute sul tessuto economico. Del fatto che, in sostanza, il fine ultimo è una scienza che avanza più rapidamente perché più collaborativa, solida, trasparente.

In quest'ottica, ecco allora che l'Open Access si configura sempre più, insieme agli Open Research Data e alle Open Educational Resources, come un tassello di una cornice più vasta, la Open Science.

Per Neelie Kroes, ex Vice presidente della Commissione Europea, "Open Science depends on open minds" (Kroes 2012). Per la Open Definition, Open Science implica che "Open data and content can be freely used, modified, and shared by anyone for any purpose". Non si tratta solo di un'aspirazione da sognatori, ma di una realtà dal profondo impatto sociale ed economico. Non a caso l'OCDE - Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo - ha appena pubblicato il rapporto Making Open Science a reality (OCDE 2015, 14):

Open science is a means and not an ends. Open science strategies and policies are a means to support better quality science, increased collaboration, and engagement between research and society that can lead to higher social and economic impacts of public research.

Open Science non significa solo accesso ai testi e ai dati, ma a tutti i passi della ricerca. E comprende anche l'interoperabilità delle infrastrutture, metodologie aperte e condivise, lavori di ricerca machine-friendly. Il rapporto dedica un intero capitolo al razionale su cui si basa la Open Science:

The particularities of open science provide the policy and economic rationales for supporting it. Open search tools increase the efficiency of research as well as of its diffusion. Greater access to scientific inputs and outputs can improve the effectiveness and productivity of the scientific and research system, by: reducing duplication costs in collecting, creating, transferring and reusing data and scientific material; allowing more research from the same data; and multiplying opportunities for domestic and global participation in the research process. Scientific advice can also benefit from the greater scrutiny offered by open science, as it allows a more accurate verification of research results. In addition, increased access to research results (in the forms of both publications and data) can foster spillovers not only to scientific systems but also innovation systems more broadly. With increased access to publications and data, firms and individuals may use and reuse scientific outputs to produce new products and services. Open science also allows the closer involvement and participation of citizens.

There is growing evidence that open science has an impact on the research enterprise, business and innovation, and society more generally. Recent analysis reveals that enhanced public access to scientific publications and research data increases the visibility of, and spillovers arising from, science and research (OCDE 2015 10-11)

Dello stesso avviso anche il report Open for Business: How Open Data Can Help Achieve the G20 Growth Target: "Open data offers a new start for economic reform and productivity growth" (Gruen et al. 2014). Certo questo richiede - almeno dalle nostre parti - un profondo cambiamento culturale, perché, come recita un bellissimo tweet di Michael R. Crusoe, "Being open and transparent is an ongoing practice and not a check box at the end" (Crusoe 2014). I benefici sono tanti e tali che conviene provarci.

La direzione, in Europa, è decisamente questa. L'orizzonte è quello della European Research Area (ERA) e della "quinta libertà", la libertà di circolazione della conoscenza (Potočnik 2007). Torniamo a lasciare la parola al Commissario Moedas, che insieme a Gunther Oettinger, Commissario europeo per l'economia e la società digitali, ha aperto le due giornate Opening up to an ERA of innovation (Bruxelles 22-23 giugno 2015) mettendo a fuoco tutti i vantaggi della Open Science, non ultimo quello di favorire un cambio di paradigma dal publish or perish al più consono knolwedge sharing:

Open Science describes the on-going transitions in the way research is performed, researchers collaborate, knowledge is shared, and science is organised. It represents a systemic change in the modus operandi of science and research. It affects the whole research cycle and its stakeholders, enhances science by facilitating more transparency, openness, networking, collaboration, and refocuses science from a 'publish or perish' perspective to a knowledge-sharing perspective.

Open science is also about making sure that science serves innovation and growth. It guarantees open access to publicly-funded research results and the possibility of knowledge sharing by providing infrastructures. Facilitating access to those data will encourage re-use of research output. For example, companies, and particularly SMEs, can access and re-use data, infrastructures and tools easily and at a reasonable cost and can accelerate the implementation of ideas for innovative products and services (Moedas e Oettinger, 2015).

Su queste basi, si sta concretizzando l'idea di una European Open Science Cloud, che non solo rientra fra gli obiettivi strategici del Commissario Moedas per il 2016, ma è stata fatta propria nelle Conclusioni del Competitivness Council del 29 maggio 2015 e nella risoluzione del Parlamento Europeo Towards a digital single market act del 19 gennaio 2016 (punto 124). Riconoscendo che la scienza aperta non è solo vettore di progresso scientifico ma anche di innovazione e competitività, la creazione di un Cloud metterebbe a fattor comune due decenni di investimenti europei, armonizzando le infrastrutture esistenti, creando maggiore interoperabilità e servizi su quanto già esiste ma è frammentato (EUDAT 2015). Per avere successo, la European Open Science Cloud deve essere:

Costruire un "ecosistema di infrastrutture" che vada contro le cattive pratiche oggi diffuse è una sfida aperta, che Barend Mons identifica più con fattori culturali che non tecnici, poiché le componenti di base già ci sono, ma sono "lost in fragmentation" nei 28 stati membri, nelle diverse discipline, nei singoli progetti (Mons 2016). Sulla base di tutto questo, un altro mondo è possibile, in un futuro speriamo prossimo.

In pratica

What's in a name?

Una questione preliminare. Non era ancora chiara per tutti, in Italia, la differenza fra Green e Gold Open Access, che gli studenti di Right to Research Coalition nel loro utilissimo Open Research Glossary li inseriscono fra i depreciated terms, perché li giudicano di non immediata comprensione. L'importante è che il concetto sia chiaro:

Fa sempre bene ribadirlo, nel momento in cui molti Atenei si stanno avviando verso politiche Open Access, per sgombrare il campo da possibili equivoci. Ci sono due modi di fare Open Access, chiamiamoli come vogliamo, basta intendersi: uno, il deposito, è gratuito e immediato, l'altro, la pubblicazione, può prevedere dei costi; uno, il deposito, ha il vantaggio che l'autore non cambia la sede editoriale e continua a pubblicare sulle riviste di riferimento del settore o quelle richieste dai criteri di valutazione, l'altro, la pubblicazione, comporta di scegliere una sede editoriale diversa.

Lo scopo comune è quello di dare libero accesso alla conoscenza. I due servizi più innovativi, sotto questo profilo, sono stati creati proprio da studenti universitari:

Advocacy e formazione: non bastano mai

In Italia, la maggior parte degli Atenei, con l'adozione del nuovo sistema di gestione della ricerca IRIS, si è dotata di uno strumento potente di disseminazione della propria ricerca: IRIS è infatti al contempo un CRIS-Current Research Information System che assolve a tutte le funzioni amministrative di un catalogo dei prodotti della ricerca, ed un repository istituzionale Open Access. Inserendo i dati dei prodotti della ricerca in un solo punto si ottengono due effetti, ovvero la conformità amministrativa e la visibilità immediata per i propri lavori.

Alcuni Atenei sono più avanti nel percorso verso l'accesso aperto, avendolo inserito nei nuovi Statuti e avendo votato Regolamenti o policies sull'accesso aperto. Altri devono ancora avviare un percorso di creazione di consapevolezza: non si tratta infatti solo di configurare un sistema informativo come IRIS, ma di riflettere insieme ai ricercatori sui principi dell'accesso aperto alla letteratura prodotta con fondi pubblici, sui vantaggi che ne derivano per il ricercatore, per l'istituzione, per la scienza in sé, sulle logiche di apertura e inclusione: spunti e informazioni si trovano su si trova su OA@UniTO, oltre che naturalmente sul Wiki OA Italia.

A novembre 2014 si è celebrato il decennale della Dichiarazione di Messina, con cui gli Atenei italiani avevano sottoscritto il loro sostegno alla Dichiarazione di Berlino sull'accesso aperto. A distanza di un anno, molto resta da fare per raggiungere i tre obiettivi della Roadmap 2014-2018, ovvero Dialogo istituzionale e approccio comune per l'Open Access, Politiche istituzionali per la Green Road, Costruzione di una visione nazionale per l'accesso aperto ai dati della ricerca. La Roadmap è stata firmata dalla quasi totalità degli Atenei. Adesso non resta che intraprendere azioni concrete, anche a livello politico.

Nel marzo 2015 è nata AISA, l'Associazione Italiana per la Promozione della scienza aperta, presieduta da Roberto Caso. La formazione e l'advocacy sono il perno attorno cui ruota la missione dell'associazione. Gli interventi del Primo convegno annuale, svoltosi a Pisa durante la Open Access Week, sono tutti improntati alla ridiscussione critica dell'attuale sistema.

Biblioteche e bibliotecari possono - e devono - giocare un ruolo primario sia nella promozione, sia nella disseminazione di testi e dati, sia nella conservazione: non è un caso se Library Journal ha creato una collezione dedicata a Open Access in action, con articoli e video - bellissima l'intervista a Peter Suber - utili a creare una comunità di professionisti preparati e motivati.

Il progetto europeo FOSTER sta mettendo a disposizione della comunità di ricercatori e tecnici una vasta gamma di materiale informativo e formativo su Open Access, Open Data, Open Research, Open Science. Quello che ci manca è forse una figura carismatica come quella di Erin McKiernan, giovane ricercatrice oggi professoressa alla UNAM, che ha fatto dell'openness il suo cavallo di battaglia attenendosi da anni al suo My pledge to be open: le sue scelte sono molto radicali - non pubblica né fa da reviewer per riviste che non siano Open Access - e basta seguirla durante una delle sue presentazioni per coglierne la determinazione e l'entusiasmo, lo spirito costruttivo che la porta ad accogliere e sperimentare ogni possibile forma di condivisione del sapere. L'attivismo si è tradotto in un progetto molto concreto e utile, Why Open Research?, che mette insieme ragioni, pratiche, strumenti e modalità per fare scienza aperta.

Le riviste e le funzioni classiche della comunicazione scientifica

Nel 1997, Rosendaal e Geurtz costruirono il loro modello delle funzioni della letteratura scientifica mettendo al centro di tutto la rivista (Rosendaal e Geurtz, 1997): Registrazione, Certificazione, Consapevolezza, Archiviazione da allora sono entrate nel linguaggio comune. A queste viene spesso aggiunta la funzione di Ricompensa, derivante all'autore dal prestigio e dal riconoscimento di competenze (Warner, 2005). Nel 2009 Chris Armbruster aveva già indicato una possibile redistribuzione delle funzioni che lasciava alle riviste a agli editori solo la certificazione, assegnando tutte le altre a terze parti, quali archivi Open Access o biblioteche (Armbruster 2009).

Oggi ci si chiede se le riviste, che secondo Brembs sono rimaste all'età della pietra pur nell'era digitale (Brembs 2014), siano ancora necessarie (Stern, Guédon e Jentsen 2015) o, quanto meno, se debbano essere sempre uguali a se stesse.

Menzioniamo solo di sfuggita la questione, pur centrale, della proprietà della rivista, nella vertenza che ha opposto il comitato scientifico della rivista Lingua all'editore Elsevier (Jaschick, 2015, Taylor, 2015). Di fronte al rifiuto di Elsevier di rendere la rivista Open Access in modo equo, lasciando i diritti agli autori e diminuendo le APC della rivista, l'intero comitato si è dimesso, fondando la rivista Glossa. Durante il contraddittorio, Elsevier ha rivendicato di aver fondato la rivista, cosa subito smentita dal prof. Johan Rooryck, che ha ricordato i nomi dei ricercatori fondatori e dell'allora editore che era North Holland, solo in seguito acquisita da Elsevier. La questione aperta è: chi possiede il titolo della rivista scientifica? Nel caso di Lingua, Elsevier. Quindi il comitato dimissionario ha dovuto cambiare nome alla nuova rivista.

Un caso analogo si sta verificando con il nuovo boicottaggio a Elsevier chiesto dai redattori di Cognition, per

gli stessi motivi (Hu 2016). Che sia l'inizio di una inversione di tendenza? Come molti ricercatori - Marie Farge fra tutti - vanno ripetendo da anni, dovrebbe essere il comitato scientifico a possedere la rivista, non l'editore (Farge 2015). La visione per il futuro dovrebbe essere quella di riviste researcher-centric, in cui i ricercatori scrivono, revisionano, selezionano, e si servono di "fornitori di servizi editoriali" per mettere a disposizione del pubblico i loro lavori, pagando un compenso equo di cui si fanno carico le biblioteche - invece di pagare abbonamenti esosi (De Vries 2015).

Fig. 6. Il modello di pubblicazione "Fair Open Access" (De Vries 2015)

Nella visione "Fair Open Access" non è solo in gioco un diverso modello di business, ma anche uno slittamento di funzioni finora demandate agli editori: il copyright resta nelle mani dell'autore, così come il possesso della testata, mentre il supporto redazionale e la conservazione diventano dominio delle biblioteche, che supportano anche i costi - reali - della pubblicazione, attraverso nuove forme di consorzio come Open Library of Humanities, di cui parleremo fra poco.

Fig. 7 Slittamento di funzioni nel modello "Fair Open Access" (De Vries 2015)

Le riviste possono continuare a giocare la funzione primaria di Registrazione, ma, con le parole di John Willinski, "un altro mondo è possibile", perché esistono gli strumenti - OJS su tutti - per creare e gestire direttamente riviste scientifiche al di fuori dei grandi e distorti circuiti commerciali, riviste che siano davvero voce di quella grade conversazione che è la comunicazione scientifica, senza barriere artificiali di accesso (Willinski 2016).

Occorre tenere presente poi un diffuso cambio di paradigma, ovvero "publishing is just the begininning", lo slogan che Marc Patterson, una volta lasciato PLoS, ha reso concreto fondando e-Life (Patterson 2011). e-Life è una rivista Open Access, gratuita per l'autore e per il lettore, che effettua una peer review selettiva solo dal punto di vista della solidità scientifica, senza considerare criteri di mainstream o di mercato come invece fanno tutte le maggiori riviste di editori commerciali; pubblica quindi rapidamente i lavori e offre poi servizi di ricerca e riaggregazione del contenuto, convinta che il vero impatto si misuri dopo la pubblicazione, nella risonanza di un lavoro all'interno della comunità. e-Life non fa e non farà domanda di ammissione in JCR-Journal of Citation Reports per ottenere l'Impact Factor; fornisce però un set articolatissimo di misure a livello del singolo articolo, per dimostrarne il valore reale dentro e fuori l'accademia. Pioniere in questo senso erano state le riviste dell'editore PLoS, che si sono spinte oltre, ideando il servizio di ALM Reports, ovvero rapporti basati su Article Level Metrics (ALM) che visualizzano, per il set di articoli prescelto, la correlazione fra le singole misure - a volte scoprendo casi interessanti di lavori molto scaricati e poco citati -indice di una maggiore circolazione al di fuori dell'accademia.

Oltre a questi, sono da segnalare almeno alcuni esempi di riviste che si sono reinventate e riposizionate al servizio della Open Science:

Parlando di riviste Open Access, non si può non accennare al fenomeno dei cosiddetti predatory publishers, ovvero editori poco seri che, dietro pagamento, pubblicano lavori senza accurata peer review né selezione editoriale né garanzia di conservazione o disseminazione. Jeffrey Beall ne cura da anni una lista, inizialmente ben accetta e diffusa anche dai bibliotecari, ma oggi messa sotto accusa perché, alla prova dei fatti, non è né solida né scevra da pregiudizi gratuiti (Berger 2015).

Oltre a una avversione indiscriminata per editori provenienti da paesi in via di sviluppo, Beall dimostra anche in altri suoi articoli un'avversione ideologica di fondo verso l'Open Access e una predisposizione a non applicare agli editori tradizionali commerciali i suoi stessi criteri (Crawford, 2014). Quanto alla solidità scientifica, ben l'87.5% delle riviste sono inserite nella lista senza alcuna motivazione o discussione (Crawford, 2016). Personalmente, non mi sento più di consigliarla. Meglio utilizzare il nuovo servizio Think, Check, Submit che attraverso una checklist permette di individuare la rivista Open Access più adatta e di qualità.

Anche le monografie sono in lenta ma progressiva evoluzione. Intanto stanno diventando sempre più digitali - non scontato, in discipline ancora molto legate alla carta - e spesso Open Access, come risulta dalla Directory of Open Access Books - DOAB. Stanno sperimentando nuove forme "in divenire", come i Liquid Books di Open Humanities Press o i Living Books, progetto del JISC britannico: volumi che si modificano, si annotano, si aggiornano, e prendono una frozen form in pdf una tantum. Per salvaguardare la "bibliodiversità" (Dacos 2014) e le lingue nazionali, stanno sperimentando modelli di business e di sostenibilità in forme molto più variegate rispetto al mondo delle riviste:

Tutto questo ha un impatto positivo sull'ecosistema della ricerca, perché incrementa l'accesso diminuendo i costi.

Stesse funzioni, altri luoghi

Open Access o tradizionali, c'è chi non crede più nelle riviste, che sarebbero "an outdated mechanism for publishing work", in quanto ritardano l'accesso con il loro complesso e arbitrario meccanismo di selezione, costringendo a ripetute sottomissioni; non sono trasparenti; scartano a priori lavori come gli studi con risultati negativi, che sono invece di estrema utilità; sono inefficienti e troppo costose (Tracz e Lawrence, 2016).

Ai fini dell'avanzamento della scienza, non dovrebbe più essere importante "dove" uno studio venga pubblicato, purché rispetti la solidità scientifica. La visione più innovativa sembra allora quella di una Open Science Platform (Tracz e Lawrence, 2016), in cui il lavoro subisce solo un controllo preliminare di solidità scientifica, viene pubblicato insieme al suo set di dati, con un DOI che lo rende quindi immediatamente identificabile e citabile, con una etichetta "in attesa di revisione", a disposizione della comunità per la peer review. Le revisioni a loro volta vengono pubblicate con DOI, divenendo visibili e citabili. L'intero processo diviene più trasparente, e i costi si abbassano sensibilmente. Abbiamo già segnalato le piattaforme che adottano già questo approccio, con ottimi risultati (Science Open, The Winnower, F1000…).

Questa è la visione per il futuro sempre più prossimo. O meglio, per il presente. "People live on the Internet now. We have senior scientists who are all on Twitter. It just doesn't make sense that we don't publish our work immediately": così Michael Eisen durante ASAPbio, il convegno che ha riunito a metà febbraio 2016 la comunità dei biologi intorno all'idea che il sistema attuale non sfrutti la possibilità della disseminazione immediata offerta dal web, e che sia quindi più efficace percorrere la strada dei preprint come i fisici fanno dal 1991 (Palmer 2016). Il biologo Ron Vale ha inviato lo stesso articolo a bioarXiv, server di preprint, dove è stato pubblicato il giorno successivo, e alla rivista tradizionale PNAS, da cui ha avuto una risposta dopo un mese e mezzo. In quelle sei settimane, il lavoro aveva ricevuto 6000 download e 600 tweet con feedback interessanti e commenti che l'autore ha inserito nell'articolo, migliorandolo.

Ciò che di fatto sta già accadendo è che le riviste hanno perso la loro centralità nello svolgere la funzione di Registrazione, perché i ricercatori, che sempre più si stanno dotando dell'identificativo ORCID, atto appunto a registrarli in modo univoco anche come entità-autore, oggi rendono disponibili venendone riconosciuti:

La lista potrebbe continuare a lungo; basta scorrere i risultati delle citate 101 Innovations per trovare altri 600 strumenti collaborativi. Se consideriamo anche le altre funzioni, il panorama è analogo.

Quanto alla Certificazione, viste le brutte prove che la peer review tradizionale ha dato di sé - Retraction Watch e le ritrattazioni in crescita ne sono una prova - è da segnalare l'iniziativa PRO - Peer Reviewers' Open initiative, un manifesto che ogni ricercatore può firmare per impegnarsi, dal 1 gennaio 2017, a rendere più trasparente l'intero processo, facendo dell'openness - per esempio, la messa a disposizione dei dati su cui si basa l'articolo da revisionare - un prerequisito per ogni revisione. La Royal Society riconosce in questo progetto, che fa perno sulla dinamica autore-revisore, la chiave di volta per rendere effettivi i principi della Open Science:

The Peer Reviewers' Openness Initiative provides the best possible chance for open research practices to become commonplace in the scientific literature. Now is the time for all of the sciences to be open; we hope that researchers who value open research practices-even ones who have not yet put them into action-will join us in signing the Initiative and help promote open research. We must let current and future researchers know that openness is not just a value we talk about, but one we make manifest (Morey 2016).

Stanno poi nascendo servizi indipendenti come Publons, che dà credito ai ricercatori per le loro revisioni, o Peerage of science, che fornisce grazie alla comunità revisioni indipendenti dal circuito delle riviste.

Va aggiunto che i nuovi esperimenti di pubblicazione del preprint con peer review successiva messa a disposizione di tutti - visti poco fa - sono in perfetta consonanza con l'idea che tutto il lavoro intellettuale che sta dietro la peer review stessa sia oggi sprecato, poiché non viene né catturato né valorizzato né disseminato nel sistema corrente, chiuso (Royal Society 2015, 10). Si passerebbe dall'idea di pre-publication peer review , chiusa e cieca, all'articolo con etichetta "reviewed by peers"", dopo la pubblicazione su una piattaforma di preprint (Royal Society 2015, 14).

La post-publication peer review (che abbiamo visto in The Winnower, F1000Research, Science Open, RIOJournal) può essere più "avventurosa" ma è una leva potente per scardinare il citato concetto della scarsità artificiale su cui si basa il sistema attuale: si fonda infatti sull'assunto che tutta la ricerca debba avere l'opportunità di essere pubblicata e letta, che debba "parlare da sé" in un certo senso e non per bocca di due anonimi revisori, lasciando alla comunità il successivo apprezzamento, come accade con la "PRE - Peer Review by Endorsement" già possibile su Science Open (Tennant 2016a). La peer review e il commento fanno parte a pieno titolo del ciclo della comunicazione scientifica e anzi ne avvalorano la cifra di lettura di grande conversazione, che non si esaurisce in due giudizi anonimi prima della pubblicazione ma continua lungo il ciclo di vita e di interesse suscitato dal lavoro (Tennant 2016a).

Il valore dei commenti è inestimabile. Per favorirli, sono nati Hypotes.is, un software che consente di commentare il web e PubPeer, che permette di commentare a posteriori tutti gli articoli presenti in PubMed.

Se pensiamo poi alla funzione di Consapevolezza e disseminazione, oggi non si può prescindere da strumenti quali Twitter e gli academic social network come Research Gate o Academia.edu. Del primo è presto detto: è utilizzatissimo, soprattutto all'estero (Maloney 2016), come cassa di risonanza - "Tweet your research and it will be seen" (Tabor 2012) - sia come pubblicità di un nuovo lavoro da parte dell'autore, sia come richiesta di collaborazione e revisione comune, sia come segnalazione di studi o idee di interesse presentati a convegni. I tweet sembrano correlare bene con le future citazioni (Eisenbach 2012); non a caso, Twitter è parte integrante di Altmetrics, il servizio di metriche complementari di cui parleremo più avanti.

Quanto agli academic social networks, il dibattito è aperto sulla loro relazione con i repositories istituzionali o gli archivi Open Access. Si tratta di due specie diverse. La fig. 7 è eloquente: sono diametralmente opposti quanto a politiche di apertura e finalità (Fortney e Gonder, 2015).

Fig. 8. Caratteristiche degli academic social networks comparate con gli archivi Open Access

Dettagli tecnici a parte, due sono i punti di contrasto: mentre gli archivi sono aperti a chiunque, anche alle macchine, per ricerche ed estrazioni di dati, gli academic social networks sono sistemi chiusi, chiusissimi, dai quali non è possibile estrarre alcun dato - per esempio, è impossibile fare text mining. Mentre gli archivi garantiscono la conservazione sul lungo periodo e assegnano identificativi stabili a tutti i prodotti inseriti, non c'è nessuna garanzia negli academic social networks: il giorno in cui questi chiudessero o diventassero a pagamento, tutto ciò che è depositato cesserebbe di essere raggiungibile.

Forse i nostri ricercatori non si pongono questo problema, che è invece assai concreto e reale, come non si pongono il problema di depositare i lavori nel formato editoriale, violando di fatto sistematicamente il copyright: se si leggono bene le politiche depositate nella banca dati SHERPA RoMEO, sono rarissimi i casi di editori che consentono l'uso del pdf editoriale, men che meno in siti commerciali. Resta da chiedersi, come è stato fatto in alcuni recenti convegni, perché i ricercatori vi creino profili e alleghino i loro lavori ogni giorno, senza bisogno di policies o Regolamenti.

Un recente studio francese rileva come la maggior parte degli studiosi utilizzi gli academic social networks come una sorta di biglietto da visita (Okret-Manville, 2016). La possibile risposta è che qui, a differenza degli archivi istituzionali, trovano quella dimensione sociale - poter creare gruppi, seguire ricercatori con interessi affini… - e soprattutto quei servizi - feedback sull'uso dei lavori, conto dei downloads, classifiche varie…- che gli archivi Open Access non offrono o forse offrono ma in forma non così immediata. OpenAIRE, l'archivio destinato a raccogliere la produzione scientifica finanziata dalla Commissione Europea, è un ottimo esempio dei servizi che si possono costruire anche sui repositories istituzionali.

La funzione di Archiviazione viene assolta appunto dagli archivi Open Access, siano essi istituzionali o disciplinari, come gli ormai famosi arXiv o SSRN o il neonato Zenodo, archivio internazionale e multidisciplinare curato dal CERN di Ginevra, aperto a tutti i ricercatori e a tutte le tipologie (testi, datasets, immagini, video…). Oltre a garantire la conservazione, molti archivi assegnano un identificativo univoco persistente (DOI o handle). Ci sono motori di ricerca specifici per gli archivi (BASE, per esempio) o progetti più a largo raggio, che dovrebbero anche offrire servizi, come OneRepo.

Non dimentichiamo che anche a livello di Produzione si stanno affermando strumenti di scrittura collaborativi, come Overleaf o Arpha, quest'ultimo come abbiamo già visto utilizzato dalla rivista RIO anche per integrare il processo di peer review all'interno dell'articolo. F1000Workspace è uno spazio comune in cui i ricercatori possono scrivere, annotare, discutere i loro lavori.

Il mezzo con cui scriviamo non è indifferente, ha un profondo risvolto cognitivo perché può contribuire ad amplificare la conoscenza individuale e collettiva (Nielsen 2015a). Se si usa IPython Notebook non come semplice strumento per riprodurre calcoli, ma come un mezzo di comunicazione di per sé, si possono raggiungere obiettivi cognitivi inediti. Nello studio di Peter Norvig sulla simulazione economica della distribuzione della ricchezza (Norvig s.d.), IPython viene inserito direttamente nel testo come eseguibile, e permette di variare i parametri modificando così l'assunto iniziale o il risultato.

Michael Nielsen ha invece utilizzato IPython Notebook per esplorare il mondo delle reti neurali, inserendo nel testo modelli matematici complessi in forma di eseguibili, che permettono al lettore di procedere nell'apprendimento per tentativi successivi, in un dialogo incessante fra una discussione astratta e modelli concreti esplorabili e manipolabili (Nielsen 2015 b). Non si tratta si semplice interattività: si tratta di un nuovo mezzo cognitivo - quali per secoli sono stati carta e penna - che rende la conoscenza "componibile" e permette la scoperta di nuovi "atomi cognitivi" (Nielsen 2015a).

Non è indifferente nemmeno il modo in cui licenziamo i nostri lavori. Su diritto d'autore, cessione dei diritti e licenze ci sono fiumi di letteratura. Ricordiamo qui per inciso che le Licenze Creative Commons sono una leva potente per la definizione a monte dei diritti e la diffusione della Open Science, poiché è l'autore che stabilisce i termini del riuso del proprio lavoro. Il recente caso Aliprandi vs Franco Angeli ha portato la questione delle licenze in tribunale e ha visto dar ragione in sede processuale all'autore che voleva associare una Licenza Creative Commons al suo volume, contestato dall'editore (Caso 2015; Aliprandi 2015).

Valutazione o ossessione?

I giovani ricercatori pubblicano di tutto, pubblicano ovunque. Stanno iniziando a sfidare il sistema di rewarding basato sulla valutazione del contenitore invece che del contenuto. La spinta a pubblicare su riviste con alto Impact Factor ha segnato così profondamente gli ultimi decenni da creare una società "metrics-obsessed" (Royal Society 2015, 5). La comunità scientifica deve interrogarsi sulla persistenza di questa "Impact Factor mania", perpetuata dai ricercatori stessi che pure sono consci dei limiti e delle profonde distorsioni che ha provocato (Casadevall e Fang, 2014). E non dimentichiamo che Impact Factor o altri calcoli di citazioni sono contenuti in banche dati proprietarie, commerciali, esterne al mondo della ricerca, possedute in un caso dagli stessi editori commerciali che pubblicano le riviste di cui poi contano le citazioni (Scopus, di Elsevier).

Abbiamo già detto che i criteri di valutazione possono avere un grande impatto sui comportamenti dei ricercatori, in particolare dei giovani, ma è necessario chiedersi

Why do we do science? It's not to create careers for scientists. It's to increase knowledge for the benefit of mankind. If the need to sustain the careers of young scientists is getting in the way of the primary objective of science there is something wrong in the way in which we organise and motivate those careers (Royal Society, 2015, 5).

Le metriche attuali (citazioni, Impact Factor) non contano l'impatto, lo creano; detto in altre parole, secondo la legge di Goodhart, "quando una misura diventa un fine, cessa di essere una buona misura". Non è un caso allora il titolo del convegno da cui vengono questi tweet sia Gaming Metrics: Innovation & Surveillance in Academic Misconduct.

L'Impact Factor è stato definito "outdated artifact" (Vanclay 2012) e coloro che lo utilizzano "statistically illetterate" (Curry 2012). L'Impact Factor è assolutamente inadeguato perché "the only way to figure out if a paper is any good is to actually read the damn thing - the name (or IF) of the journal in which a paper is published should never act as a proxy for how awesome (or not) a paper is" (Cantrill, 2016). La Royal Society si spinge oltre, e afferma che con gli attuali criteri di valutazione basati sul prestigio delle riviste stiamo devastando una intera generazione di giovani scienziati, poiché "not only are we failing to provide the right incentives, we are actually providing perverse ones" (Royal Society 2015, 7).

Occorre cambiare rotta. Gli oltre 12.000 individui e 600 enti di ricerca che hanno firmato la DORA- Declaration on Research Assessment, una sorta di "dichiarazione di indipendenza" dall'Impact Factor, sono un segnale chiaro della necessità di misure più adeguate e meno manipolabili per valutare la ricerca.

Che l'Impact Factor possa essere concordato con l'editore (PLoSMedicine editors, 2006) o manipolato con trucchi assai facili (Falagas e Alexiou, 2008) è cognito. Forse meno noto è il caso della rivista Current Biology, denunciato da Björn Brembs (Brembs 2013): la rivista viene acquisita nel 2003 da Elsevier (Cell Press). Magicamente, il numero di articoli pubblicati nel 2001, che nell'edizione JCR 2002 era 528, nell'edizione JCR 2003 si riduce a 300. Chi ha un minimo di dimestichezza con il calcolo dell'Impact Factor sa che il numero di articoli pubblicati sta al denominatore nella formuletta; chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la matematica sa che se divido per un numero più basso, ottengo un numero più alto. Risultato: in un solo anno - quello dell'acquisizione da parte di Elsevier - l'Impact Factor della rivista sale da 7,007 a 11,910, solo perché è stato variato surrettiziamente per lo stesso anno un numero nella banca dati. È ancora Brembs che si chiede, essendo a questo punto chiaro come l'Impact Factor sia un numero inventato, se la scienza possa considerarsi come l'astrologia (Brembs 2015c).

È evidente allora che, come titola il Times Higher Education, "Journal Impact Factor is no longer credible" (Mattews, 2015). Il Leiden Manifesto for research metrics suggerisce 10 principi per una corretta valutazione, che eviti le aberrazioni attuali e metta un freno alla "ossessione per l'Impact Factor" (Hicks 2015).

  1. La valutazione quantitativa dovrebbe servire da supporto a valutazioni qualitative da parte degli esperti: sono complementari, e ne escono rafforzate. Ma non bisogna cedere alla tentazione di valutare solo sulla base dei numeri.
  2. Misurare i risultati sulla base degli obiettivi dell'ente, del gruppo o del ricercatore: gli obiettivi devono essere fissati all'inizio e devono avere indicatori che misurino in modo adeguato a seconda del contesto e della mission dei singoli enti o ricercatori. Non esiste un solo modello di valutazione adatto per tutti.
  3. Proteggere l'eccellenza nella ricerca rilevante a livello locale: si tende a credere che l'eccellenza sia legata al fatto di pubblicare in inglese. Ma così si rischia di perdere la biodiversità legata alle lingue nazionali nelle scienze umane o a particolari soggetti di interesse per la comunità territoriale.
  4. La raccolta e l'analisi dei dati devono essere aperti, semplici e trasparenti: per assicurare la verificabilità; la semplicità non va confusa con la semplificazione di un fenomeno complesso come la comunicazione scientifica.
  5. Permettere a chi è valutato di verificare i dati e la loro analisi: ovvero avere buoni cataloghi della ricerca che permettano di identificare chiaramente i prodotti. Servono tempo e investimenti da parte degli atenei.
  6. Tenere conto delle diversità fra discipline: a causa delle diverse abitudini citazionali, non si possono comparare gli indicatori in termini assoluti, ma relativi. È sempre suggerito l'uso dei percentili.
  7. Basare il giudizio individuale dei ricercatori su un giudizio di qualità globale della loro attività: non contare solo le pubblicazioni o l'h-index, ma anche le competenze, l'esperienza, le altre attività di ricerca.
  8. Evitare una falsa precisione: non si può giudicare sulla base di centesimi di punto di Impact Factor.
  9. Riconoscere gli effetti sistemici della valutazione e degli indicatori: gli indicatori cambiano il sistema attraverso gli incentivi che offrono.
  10. Monitorare e aggiornare costantemente gli indicatori: la mission della ricerca e di conseguenza le finalità della valutazione cambiano, e di conseguenza devono cambiare le unità di misura e gli indicatori.

Tutti sono allora alla ricerca della metrica perduta. The Open Citation Index è la neonata iniziativa - 29 febbraio 2016 - di Science Open che mira a creare una banca dati aperta, trasparente, che conti l'effettivo riuso di un lavoro: molto promettente in teoria, vedremo gli sviluppi (Tennant 2016c).

Better ways to evaluate research and researchers è il titolo di un recentissimo Briefing Paper di SPARC Europe (SPARC EU, 2015) basato sull'assunto che si deve cercare di misurare ciò che si vuole migliorare: se misuriamo la robustezza statistica, avremo una scienza statisticamente robusta, se misuriamo la capacità di presentare risultati in modo sensazionale, avremo una scienza sensazionalista, o più verosimilmente votata alla frode, come dimostra la citata correlazione fra Impact Factor e ritrattazioni (Fang 2012).

Gli indicatori devono allora dare la misura di ciò che veramente importa. Quelli attualmente in uso, fra l'altro, sono usati a sproposito: sia l'Impact Factor sia l'h-index, nati per contare la quantità di citazioni, vengono oggi usati per valutare la qualità di un ricercatore. Anche solo in relazione alle pubblicazioni, la qualità di una rivista dovrebbe essere valutata dalla sua usabilità, dalla rapidità e serietà di pubblicazione, dai servizi offerti, dalle pratiche di conservazione e indicizzazione e così via. La qualità di un ricercatore sempre in relazione alle pubblicazioni dovrebbe essere valutata dal rigore, dalla riproducibilità dei risultati, dalla coerenza dei metodi, dall'aderenza al codice etico, dalla partecipazione a comitati editoriali, dall'apertura.

Se non misuriamo questi aspetti, che sono la chiave per una scienza solida e aperta, i ricercatori non saranno incentivati ad adottare questi comportamenti. Ci sono poi altri piani da prendere in considerazione, non strettamente legati alla pubblicazione ma alla collaborazione, alla formazione dei giovani e all'impegno sociale. Michael Taylor propone allora un algoritmo per calcolare la Less Wrong Metric (LWM), basato su due parametri: fattori ed esponenti, che tengano conto delle diverse metriche pesandole e migliorandole in modo sperimentale fino a giungere al profilo del ricercatore perfetto, che pubblica in modo aperto, collabora con i colleghi, forma i giovani, partecipa alla comunità scientifica come reviewer e redattore di riviste, ed è socialmente impegnato (SPARC Europe 2015).

The Metric tide, rapporto britannico del 2015, evidenzia tutti i limiti delle misure quantitative e individua invece nella peer review l'unico possibile metodo di giudizio (HEFCE 2015). Relative Citation Ratio (RCR) è una nuova metrica introdotta dai National Institutes of Heath che applica la rete di co-citazioni per ottenere un numero di citazioni normalizzato rispetto alla disciplina (Hutchins, 2015).

Da tempo si parla delle metriche alternative o Altmetrics, che seguono sul web le tracce dell'impatto del lavoro scientifico su Twitter, sui blog, sui social networks… sono metriche complementari piuttosto che alternative, che rilevano l'impatto del lavoro al di fuori dell'ambito accademico (Priem 2010) e che sono poi state fatte proprie da progetti come Impact Story o servizi commerciali come Altmetric, oggi incorporato in molte piattaforme editoriali. Ma le Altmetics non sono scevre da critiche, perché, si dice, "attention is not impact" (Sugimoto, 2015).

Una nuova misura, che darebbe conto delle reali pratiche Open Science, è il Collaboration score, una misura che tenga conto della reale capacità partecipativa e collaborativa degli autori di un lavoro scientifico (Green 2016). Il REF- Research Excellence Framework britannico (l'esercizio nazionale di valutazione della ricerca, l'analogo della nostra VQR) valuta solo per peer review, non utilizza alcun indicatore bibliometrico, e ha già introdotto dal 2014 una percentuale di valutazione basata sull'impatto sociale della ricerca e non solo su quello accademico. Juan Carlos Alperin ha centrato la sua tesi di dottorato a Stanford proprio sul concetto di "reach", ovvero dell'uso pubblico della ricerca, che dovrebbe essere l'indicatore dell'impatto reale (Alperin 2015). In quest'ottica, gioca un ruolo fondamentale anche l'accesso ai dati.

I dati, questi sconosciuti (ovvero: il valore di un progetto pilota)

L'apertura ai dati della ricerca è un passo fondamentale verso la Open Science, purché si tratti di "intelligent openness", ovvero del fatto che i dati siano accessibili, ricercabili, utilizzabili, valutabili e comprensibili (Royal Society, 2012). I dati hanno un enorme potenziale:

Nonostante Internet sia stato creato per scambiarsi dati, e nonostante il suo ideatore Tim Berners Lee chieda da anni di mettere i dati sul web (Berners Lee 2009), la condivisione dei dati non è ancora una pratica diffusa in tutte le discipline.

Una spinta decisa in questo senso viene dal Progetto Pilota sugli Open Research Data in Horizon 2020. Il Progetto Pilota riguarda nove aree disciplinari, che hanno l'obbligo di rendere disponibili insieme alle pubblicazioni i set di dati su cui si basano le pubblicazioni stesse, per i progetti finanziati in Horizon 2020. Non si tratta di rendere pubblici dati inediti, va chiarito in ogni occasione. Tutti gli altri progetti, va ricordato, possono aderire volontariamente.

Un elemento importante del Progetto Pilota è costituito dal Data Management Plan, che va allegato al progetto entro sei mesi dall'approvazione. Non si tratta dell'ennesimo carico burocratico, ma di uno strumento utilissimo per pianificare le strategie di accesso e conservazione ai dati per il futuro: molto spesso i ricercatori salvano i loro datasets solo sul proprio computer, in formati proprietari, senza adeguate descrizioni. Questo è quanto di più lontano ci sia da una corretta conservazione e dalla citata intelligent openness. Non si impara da subito a stilare un Data Management Plan, e questo è sicuramente un compito per i bibliotecari del futuro, sempre più data curators; un preziosissimo aiuto viene dal Digital Curation Center britannico che mette a disposizione materiale informativo e uno strumento online personalizzabile, DMP online, per la creazione guidata del piano.

Nella due giorni sugli Open Research Data tenuti a Bologna al CNR a novembre 2015 si è avviato anche in Italia il discorso sui dati aperti della ricerca, coinvolgendo nel dialogo ricercatori, bibliotecari, tecnici degli uffici ricerca. Peter Murray-Rust, che da anni sperimenta tecniche di estrazione dei dati (data mining), ha indicato negli archivi disciplinari o in quelli multidisciplinari come Zenodo la sede ideale per il deposito dei datasets. Ha anche aggiunto che la tecnologia c'è, ciò che manca è la cultura della condivisione (Murray-Rust 2016). Per questo è importante moltiplicare gli eventi di formazione che coinvolgano chi fa ricerca e chi la supporta.

Il diritto di leggere è il diritto di estrarre dati

I contratti editoriali e le norme sul copyright non aiutano certo. Il caso di Chris Hartgerink è esemplare (Hartgerink, 2015) e ha avuto risonanza anche sulla stampa (Moody 2015). Statistico presso l'Università di Tilburg, Hartgerink stava conducendo una ricerca sulla falsificazione dei dati in psicologia - il suo Ateneo è famoso per il caso del professor Diederick Stapel, giunto a 58 ritrattazioni (Stapel 2014) - su oltre 30000 articoli, scaricati massicciamente fra le risorse cui l'Università dava accesso. Il decimo giorno, la biblioteca riceve un'ingiunzione da Elsevier, che minaccia di bloccare l'accesso per l'intero campus, qualora il ricercatore non cessi immediatamente lo scarico massiccio dei dati, che a loro parere si configurerebbe come furto di materiale.

Qual è il problema? Per fare text e data mining, ci sono quattro passaggi: si trova il materiale pertinente, lo si scarica e copia in formato leggibile alla macchina, le informazioni vengono strutturate, e infine vengono estratti e raggruppati i dati. Il passaggio critico è il secondo, perché copiare su un'altra macchina gli articoli è considerato dagli editori un'infrazione ai contratti in essere - da qui l'esigenza di una riforma del copyright. In una prima fase, gli editori hanno cercato di far pagare nuove, ulteriori licenze per questo tipo di accesso, sostenendo che gli abbonamenti attuali comprendessero solo la lettura da parte dell'occhio umano e non dalla macchina. Elsevier, in particolare, ha stilato una sua licenza per il text e data mining, che prevede l'accesso via API keys e solo per fini non commerciali. Lo ha ricordato Alicia Wise, proprio nei commenti al blog post di Chris Hartgerink: l'utilizzo delle API keys viene motivato con l'aggravio di traffico che verrebbe generato sulla piattaforma Science Direct dagli scarichi massicci, rendendo meno fruibile la piattaforma stessa ai lettori umani. Peter Murray-Rust lo ha smentito pubblicamente dal punto di vista tecnico (Murray-Rust 2015).

Ma anche dal punto di vista concettuale c'è qualcosa che non va nella licenza Elsevier: l'uso di una API intanto avviene via server, che controlla tutto, non lasciando al client alcuna libertà né la possibilità si sapere se quanto viene fornito è effettivamente tutto quanto richiesto; l'utilizzatore non ha alcuna privacy perché tutto viene tracciato e, c'è da immaginare, profilato per scopi commerciali; non sono comprese le immagini, che non si possono mai utilizzare; i risultati non devono essere competitivi con prodotti Elsevier, il che esclude i chimici, per fare un esempio, che entrerebbero in competizione con le banche dati commerciali; infine, il ricercatore è costretto a utilizzare una Licenza Creative Commons BY-NC, il che limita la sua libertà accademica di pubblicare dove vuole perché esclude tutte le riviste Open Access che abbiano Licenza CC BY, comprese per esempio PeerJ o quelle dell'editore PLoS (Hartgerink 2015b, Murray-Rust 2015).

Pochi mesi dopo, il 23 febbraio 2016, anche l'editore Wiley ha bloccato le attività di Hartgerink giudicando lo scarico degli articoli - per i quali l'ateneo ha pagato regolare licenza - "illegally downloading copyrighted content licensed by your institution" - senza nemmeno offrire l'alternativa delle API (Hartgerink 2016). In sintesi, con un bel tweet di Michael Eisen, "the only thing publishers need to do to support text and data mining is to stop blocking it" (Eisen 2016b).

Il copyright era nato per tutelare gli autori. Nel mondo della comunicazione scientifica attuale, in cui viene sempre ceduto agli editori, è diventato molto spesso una barriera più che una tutela, perché per ragioni commerciali si oppone alla libera circolazione della conoscenza che è alla base della scienza (Lessig 2011).

In Europa si sta procedendo - febbraio 2016 - alla revisione della Direttiva del 2001 sul copyright, per renderla più funzionale alle esigenze della European Research Area (ERA) e del mercato unico. A oggi, sembra che la posizione del Parlamento sia nettamente più avanzata di quella della Commissione (COM 2015 626 final): il Parlamento chiede per esempio l'abolizione della normativa sui databases, considerata di ostacolo allo sviluppo di un'economia europea data-driven; suggerisce l'uso delle licenze aperte (come le Creative Commons) per favorire l'apertura della scienza; postula l'Open Access per tutta la ricerca finanziata anche negli stati membri, mentre la Commissione sembra sorda a questi richiami e preoccupata di mantenere lo status quo procedendo per via di licenze con gli editori (Mileszyk, 2106).

Julia Reda, europarlamentare, autrice del Rapporto (Reda 2015a) su cui dovrebbe basarsi la riforma, ha stilato un'ottima sintesi dei punti ancora aperti (Reda 2015b) dopo la Comunicazione Towards a modern, more European copyright framework del 9 dicembre 2015. In particolare, la Commissione sembrerebbe aver accettato l'idea di un'eccezione per il text e data mining solo per "public interest research organisations", quando invece dovrebbe essere libero per tutti. In fondo, si tratta di utilizzare appieno materiale per cui sono già stati acquisiti diritti. Non è un caso allora che le biblioteche siano in prima linea nella difesa della libertà di riuso dei materiali per cui hanno già pagato milioni di euro in abbonamenti. LIBER, l'associazione delle biblioteche di ricerca europee, sta combattendo una battaglia (LIBER 2015a) per fare accettare le eccezioni al copyright per motivi di ricerca. Le parole di Paul Ayris sono molto chiare:

Commissioner Oettinger today has rightly stressed the importance of balance and compromise between parties. LIBER and UCL have absolutely taken this requirement on board. We are not asking for access to materials we have not paid for. We are not asking for a free for all. That would be in no-one's interests. LIBER and UCL say simply that the right to read is the right to mine. We are only asking for permission to perform TDM on materials we have legal access to, and which we have legally purchased via contracts. We do not believe that we should pay twice, but we fully agree that publishers and individual authors should continue to be remunerated as they are now (LIBER 2015b).

La parola d'ordine è "The right to read is the right to mine". Basta dare un'occhiata a Content Mine, il progetto di Peter Murray-Rust che offre un software free per il text e data mining, per riconoscere l'estrema utilità dell'estrazione dei dati, in tutti i campi: il caso del virus Zika è esemplare, ed è ben sintetizzato in questo video.

L'estrazione dei dati è una risorsa non solo per la scienza, ma anche per l'economia. Negli Stati Uniti e in Giappone non c'è alcuna restrizione, per esempio. Le compagnie basate in quei paesi possono estrarre ogni tipo di informazione. Ognuno vede quanto questo possa impattare, negativamente, sulla competitività dell'Europa. Il rapporto Value and benefits of text mining (JISC 2012) fornisce tutte le cifre utili - per un valore di miliardi di dollari - a comprendere meglio lo svantaggio in cui l'Europa si verrebbe a trovare.

Ma non solo: fra le regole in discussione c'è anche quella sull'ancillary copyright - ogni link sarebbe sotto la protezione del copyright - che non tocca solo la comunicazione scientifica ma, di fatto, bloccando gli iperlink, bloccherebbe Internet come lo conosciamo oggi (Reda 2015c, Reda 2016). A riprova che gli interessi commerciali non sempre sono gli interessi della diffusione dell'informazione e della conoscenza, in tutte le sue forme.

Elena Giglia, Ufficio Accesso aperto ed editoria elettronica - Università di Torino, e-mail: ...


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Note

[1] La citazione è riferibile a Rufus Pollock, presidente della Open Knowledge Foundation, http://rufuspollock.org/misc/.




«Bibliotime», anno XIX, numero 1 (marzo 2016)

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