«Bibliotime», anno XVII, numero 3 (novembre 2014)

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Enrico Zucchi, Luca Scalco

Quale futuro per le riviste accademiche? Valutazione, open access e distribuzione: una tavola rotonda patavina sull'accesso aperto e sulla valutazione nei settori umanistici (aree 10-11)



Abstract

Reconsider open access not only in the perspective of librarians and editors, but also by researchers' point of view, has to be a primarily effort, especially in Italian HSS. In addition to the high cost of journals - a core problem in a period of found scarcity - two other interrelated topics seems to be of great interest to people involved in research: publications' dissemination on the one hand and journal quality on the other, particularly after the recent classification made by ANVUR. Such themes were discussed in the workshop 'Quale futuro per le riviste accademiche: open access, valutazione, distribuzione', organized by the Scuola Galileiana di Studi Superiori on 28 november 2014.

Non è forse inutile prefiggersi di dar vita, oggi, a una tavola rotonda che riproponga l'interrogativo su un aspetto già affrontato negli ultimi anni, ossia: a quale futuro vanno incontro le riviste accademiche? La questione non è appunto nuova e tocca un nodo centrale della pratica di ricerca e divulgazione scientifica, dal momento che le riviste costituiscono il luogo in cui frequentemente vengono pubblicati e discussi i risultati del lavoro svolto, in seno ai diversi atenei, da dottorandi, ricercatori e docenti universitari.

A tal riguardo due problemi, peraltro strettamente interconnessi, sembrano particolarmente rilevanti: in primo luogo, la necessità di saggiare la qualità delle riviste che ospitano i diversi contributi scientifici ha comportato una riflessione sui criteri della valutazione delle stesse, compito affidato all'Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, l'ANVUR. In secondo luogo, anche alla luce dei cospicui e progressivi tagli ai fondi destinati alla ricerca succedutisi in questi ultimi anni, appare sempre più ineludibile una seria riflessione sui costi che queste pratiche editoriali impongono a biblioteche ed università: l'apertura verso una modalità di pubblicazione open access è stata spesso dettata dalla percezione che essa permetta di abbassare notevolmente questi costi [1].

A partire dalla condivisione di tali principi e muovendo da alcune più generali riflessioni, maturate nel corso di esperienze esterne al più puntuale dibattito open access, è stata organizzata la tavola rotonda dal titolo "Quale futuro per le riviste accademiche? Valutazione, open access, distribuzione" che ha avuto luogo a Padova, presso l'Aula Magna del Collegio Morgagni, venerdì 28 Novembre, grazie alla collaborazione dell'Associazione Alumni della Scuola Galileiana e della Scuola Galileiana di Studi Superiori. La prospettiva dalla quale si è tentato di porre le questioni sopraccitate è stata quella degli studi umanistici, ed in particolare delle aree 10 e 11: benché siano altri i settori scientifico-disciplinari toccati in maniera più diretta e urgente dai cambiamenti del panorama dell'editoria accademica, anche in ambito umanistico i problemi di cui la tavola rotonda intendeva trattare parevano tutt'altro che irrilevanti.

Il ritardo delle scienze umane nell'affrontare il dibattito relativo all'open access e alla valutazione è dovuto a cause più volte sottolineate: particolarmente efficace, per quanto riguarda le pubblicazioni ad accesso aperto, appare la ricostruzione di Paola Galimberti, che mette in risalto come tra i motivi dell'indugio umanistico si debbano annoverare la presenza di settori e sotto-settori molto diversi fra loro, il resistente affetto nei confronti di una modalità di lettura e pubblicazione che privilegia il formato cartaceo, la molteplicità di lingue utilizzate per comunicare i risultati della ricerca, che peraltro spesso vengono raccolti all'interno di monografie o di saggi inseriti in volumi collettanei, piuttosto che su articoli di rivista [2].

L'ostilità nei confronti della valutazione dei prodotti della ricerca di ambito umanistico si deve invece per lo più allo scetticismo nei confronti di criteri attraverso i quali è possibile misurare il fattore di impatto di singoli contributi e delle riviste nei quali vengono pubblicati. I criteri bibliometrici che possono funzionare per le cosiddette "scienze dure" sono considerati inutilizzabili per le scienze umane, e qualsiasi altro criterio che tenti di misurare e di rendere "quantificabili" i risultati della ricerca viene spesso rigettato facendo leva sul fatto che le ricerche umanistiche non possono né debbono essere soggette ad una valutazione che pretenda di essere matematicamente oggettiva [3].

Ciò detto, sarà bene specificare che, accanto a questa generale diffidenza in tempi recenti e finanche recentissimi non mancano nel settore HSS appassionati sostenitori e della necessità della valutazione e dell'impiego di una modalità di diffusione della ricerca ad accesso aperto [4].

Sebbene l'attività dell'ANVUR, e particolarmente la classificazione delle riviste ai fini dell'abilitazione scientifica nazionale, sia stata dal 2012 ad oggi aspramente criticata, senza entrare nel merito della maggiore o minore ragionevolezza dei parametri valutativi adottati, un rifiuto aprioristico della possibilità di procedere ad una valutazione dei prodotti della ricerca non sembra essere una scelta costruttiva e, forse, responsabile, in quanto presupporrebbe un certo distacco del mondo accademico rispetto ad una sempre più diffusa sensibilità alla trasparenza e alla certificazione della qualità del lavoro svolto.

Certo, la discussione sui criteri della valutazione – a cui in questa sede si fanno solo generici rimandi – non può essere liquidata con un semplicistico richiamo all'adeguamento a ciò che avviene nel mondo dell'impresa o in quello delle "scienze dure", dal momento che le discipline umanistiche ed in generale i settori non bibliometrici presentano caratteristiche specifiche e distinte [5]; tuttavia nemmeno la posizione contraria, refrattaria ad una pratica condivisa di valutazione, sembra essere produttiva.

Meno complessa appare invece la questione dell'open access, una modalità di pubblicazione dei prodotti della ricerca che, ne siamo convinti, l'università, ed in particolare le scienze umane, dovrebbero promuovere maggiormente [6].

Nel corso di questi anni di formazione presso l'Università di Padova abbiamo avuto modo di confrontarci con il mondo delle riviste accademiche, sia come lettori-fruitori di articoli di rivista, sia come autori, e l'esperienza maturata "sul campo" ci ha suggerito di approfondire le possibilità offerte dall'accesso aperto. In quanto utenti, e forti del confronto con altri specialisti, dobbiamo riconoscere che nel corso della ricerca i primi materiali che consultiamo sono quelli che troviamo in rete perché pubblicati su riviste open access o digitalizzati da autori e bibliotecari.

Questa pratica non è dettata tanto dalla pigrizia del ricercatore, restio a passare ore alla ricerca materiale di un fascicolo di una rivista, quanto dalla percezione che le modalità e gli spazi nei quali oggi si pratica la ricerca siano in parte mutati: la biblioteca, per quanto rimanga senza alcun dubbio ancora il luogo privilegiato, non è più l'unico nel quale lavora lo studioso, costretto, volente o nolente, a confrontarsi con strumenti informatici che non erano precedentemente contemplati. Questo processo ha ridotto la necessità del ricercatore ad impegnarsi in lunghi e continui spostamenti per accedere ai materiali di studio, permettendogli di avere accesso attraverso una connessione ad internet ad una serie di testi inimmaginabile fino a qualche decennio prima [7].

Tale disponibilità condiziona senza dubbio il lavoro di ricerca, dal momento che, sebbene la consultazione di testi digitalizzati non supplisca alla visione degli originali soprattutto nel caso di lavori di chiaro stampo filologico, né la lettura di contributi open access sostituisca di fatto quella di articoli pubblicati su riviste cartacee oppure accessibili in rete a pagamento, i contribuiti leggibili in modalità aperta sono senz'altro sempre più facilmente tenuti in considerazione [8].

Non si dovranno infatti dimenticare gli ostacoli concreti per una ricerca condotta soltanto su riviste tradizionali – cartacee o che offrono il formato cartaceo accompagnato a quello digitale a pagamento – che possono intervenire a diversi livelli: dai ritardi nei trasferimenti fra depositi librari e biblioteche (i volumi di riviste cartacee occupano infatti anche uno spazio materiale non indifferente, e spesso impongono spese nella costruzione di depositi decentralizzati, adibiti alla conservazione di questi materiali), alla mancanza di alcuni fascicoli andati perduti nel tempo o divenuti illeggibili, a causa dei problemi più disparati, nonché ai costi molto alti degli abbonamenti a determinate riviste che gravano pesantemente nel bilancio di atenei e biblioteche.

Quest'ultimo punto è stato al centro del dibattito umanistico da alcuni anni a questa, parte grazie ad alcuni interventi che hanno puntato il dito contro il progressivo ed inesorabile aumento dei costi degli abbonamenti delle riviste pubblicate da alcuni editori commerciali: dal momento che le cifre in questione sono davvero rilevanti, e in virtù del fatto che l'università italiana è sottoposta ad una spending review spietata, una riflessione seria sul modo di investire i fondi a disposizione degli atenei si impone con ancora maggior forza [9].

Tuttavia il problema non consiste soltanto nella dispendiosità della prestazione editoriale, che non si può presumere non costi nulla, come spesso si è sottolineato nella tavola rotonda; esso è piuttosto insito in un processo – quello che accompagna la pubblicazione delle riviste accademiche – che comporta all'università un doppio esborso. Gli autori degli articoli che vanno a comporre i fascicoli delle riviste sono infatti per lo più dottorandi, assegnisti, ricercatori o docenti, stipendiati dalle università per svolgere le proprie ricerche, che cedono alle riviste i frutti del proprio lavoro, assieme a buona parte dei diritti ad essi legati; le biblioteche universitarie possono poi accedere ai prodotti di quelle ricerche soltanto abbonandosi alle riviste che li pubblicano [10].

Restiamo convinti che un uso migliore e più trasparente delle risorse che l'università ottiene possa essere una via percorribile, non solo per esigenze di bilancio, ma anche per una più grande ed immediata visibilità del lavoro svolto dall'istituzione. Si è notato che gli articoli pubblicati in modalità aperta hanno ottenuto molta più visibilità – e sono stati apprezzati da più lettori – rispetto ad altri, magari editi all'interno di riviste più prestigiose [11]. Pur rimandando per la questione a specifici studi sul cambiamento del fattore di impatto nel passaggio dalla rivista cartacea a quella open access, l'impiego di social network legati al mondo della ricerca – come www.academia.edu – insegna in modo molto intuitivo che vengono apprezzati e consultati molto maggiormente i contributi di cui sia disponibile una copia free.

Nei mesi che hanno preceduto questa tavola rotonda abbiamo avuto modo di discutere con diversi docenti afferenti all'ambito delle "scienze umane", e la consapevolezza che si debba necessariamente guardare alla modalità open access per il futuro è sempre più vasta. Tuttavia nell'accademia esistono ancora dubbi in merito alla validità dell'accesso aperto, che potremmo riassumere in tre diffuse opinioni negative.

In primo luogo, l'open access non garantirebbe un'ampia visibilità dei risultati, dal momento che le differenti piattaforme virtuali che ospitano i database nel quale sono raccolti contributi accessibili in modalità aperta creano un insieme talmente frammentario e pulviscolare da scoraggiare un lettore/studioso che potrebbe trovare tutto quello che gli serve all'interno di un'unica emeroteca. Accanto a questa obiezione ve n'è una seconda che mette in dubbio l'entità effettiva dei risparmi che la pratica open access comporterebbe: l'università pagherebbe i costi delle operazioni editoriali in partenza (al momento dell'accettazione dell'articolo scritto da un suo ricercatore), piuttosto che alla fine del processo (pagando la quota di abbonamento prevista dalla rivista nel quale il ricercatore pubblica). Infine – e questa resta l'ipoteca più grande sul futuro dell'open access – c'è la diffusa convinzione che la modalità di pubblicazione open access non garantisca la qualità che le riviste cartacee possono ancora assicurare.

Ora, se è vero che il panorama delle riviste open access appare ancora assai frastagliato e manca un database comune, strumenti come la DOAJ garantiscono un primo e utilissimo raccoglitore, seppure non esaustivo, che non si limita a censire le riviste che offrono articoli ad accesso aperto, ma ne garantisce la scientificità delle pratiche di referaggio e di pubblicazione[12]. Resta il fatto che spendere qualche minuto alla ricerca di un articolo pubblicato negli ultimi mesi sul portale nascosto di qualche rivista open access potrà comunque, probabilmente, risultare più utile che limitare la propria ricerca alle riviste cartacee conservate in una biblioteca, che rischia di essere costretta, per mancanza di fondi, a interrompere l'acquisto degli ultimi fascicoli.

La convinzione che l'open access possa costare tanto quanto l'attuale sistema editoriale, pressoché totalmente appannaggio di pochi editori commerciali, si fonda sulla concezione della pubblicazione in modalità aperta come una semplice e lineare evoluzione del testo cartaceo in forma digitale: certo, se ci si affida a quegli stessi editori commerciali che detengono gran parte del mercato è sicuro che costi e modalità di pubblicazione non cambino. Proprio per questo motivo sarebbe bene che venissero coinvolte in questo cambiamento le case editrici interne all'università, quelle University Press che hanno dimostrato all'estero, ma anche in Italia, di poter garantire pubblicazioni di grande qualità a prezzi più ragionevoli di quelle degli editori commerciali [13].

Centrale è però il terzo punto sopra citato, ossia la presunta scissione tra qualità e visibilità, tra serietà della ricerca e gratuità nella fruizione dei suoi prodotti: il pregiudizio pericoloso dell'aut-aut vive di una comune associazione di idee tipicamente commerciale, per cui se qualcosa costa poco o niente ed è a disposizione di tutti non vale molto. Basterà tuttavia guardare alle pratiche editoriali di riviste serie e di altissima qualità, che pubblicano i propri contributi in modalità aperta, per potersi rendere conto dell'errore insito in tale generalizzazione. Molte riviste open access afferenti alle aree disciplinari 10 e 11 che in questi anni si sono distinte, meritandosi l'introduzione nella fascia A da parte dell'Anvur, beneficiano di un comitato scientifico internazionale di alto livello e praticano un rigoroso referaggio che esplicita anche la tempistica intercorsa tra la ricezione degli articoli e la produzione della review.

È chiaro che esistono – ed probabilmente continueranno ad esistere – riviste open access che non hanno referee, che non fanno una selezione seria degli articoli, che non pubblicano i numeri con cadenze regolari, ma questi non sono difetti che possono essere imputati alla modalità di pubblicazione aperta, e probabilmente molte riviste cartacee potrebbero essere biasimate per gli stessi motivi. La battaglia sulla qualità non può essere giocata sul discrimine fra carta e rete, ma deve concentrarsi sulla separazione delle buone riviste dalle cattive, di quelle che hanno un comitato scientifico che legge gli articoli ricevuti da quelle che ne possiedono uno che dà solo prestigio, di quelle che praticano una double blind review da quelle in cui non esiste un referaggio, di quelle i cui articoli hanno una risonanza nazionale ed internazionale da quelle che non varcano i confini del dipartimento.

Quello che si prospetta è senz'altro un processo lungo, controverso e sfaccettato – nonché mutevole – che non potrà essere portato a termine senza conflitti: proprio per questo si è voluto fortemente impostare la tavola rotonda patavina sul binomio open access e qualità, sul quale per altro ha richiamato l'attenzione anche il recente convegno siciliano che celebrava i dieci anni dalla Dichiarazione di Messina, segnatamente gli interventi di Roberto Caso e Mauro Guerrini [14].

Rilanciare, in ambito umanistico, l'idea che si possa investire sull'open access non è uno spunto vincolato soltanto all'esigenza di spendere meglio i fondi pubblici – obiettivo di per sé già di estrema rilevanza – ma anche alla convinzione che proprio le pubblicazioni in modalità aperta, che garantiscono una visibilità enorme ed immediata rispetto a quelle cartacee, possano giovare alla qualità della ricerca.

Con questo spirito e sulla base di tali riflessioni che, ricordiamo, vengono da esperienze esterne al dibattito open access, è stata organizzata la tavola rotonda del 28 novembre, all'insegna del dialogo e della collaborazione e conoscenza reciproche. La necessità di una discussione sul tema nasce all'interno di gruppi di giovani studiosi, che nella pubblicazione scientifica vedono al contempo lo strumento e l'esito del proprio lavoro [15].

Essendo pensata in primo luogo come un approfondimento per i ricercatori, le relazioni della giornata di studio sono state tenute da Fulvio Guatelli, che ha illustrato le politiche di Firenze University Press ed un modello economico basato sulla pubblicazione di riviste a larga maggioranza ad accesso aperto; da Alberto Zigoni, che invece ha illustrato l'esperienza di Elsevier in termini di editoria scientifica con particolare riguardo alla pratica dell'open access, ed infine da Andrea Graziosi, con una panoramica sui criteri utilizzati da ANVUR per la valutazione delle riviste.

Sulla base degli spunti emersi da queste relazioni è stata poi intavolata una tavola rotonda, di cui Franco Tomasi, del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell'Università di Padova, è stato al contempo moderatore, osservatore propositivo ed abile coordinatore degli interventi del pubblico. L'obiettivo di questa seconda parte della giornata era mettere in dialogo rinomati docenti (Paolo Bettiolo, Giovanna Valenzano e Guido Baldassarri, afferenti a vari dipartimenti dell'Università di Padova), con affermati esperti del settore open access quali Antonella De Robbio e Paola Galimberti, degli atenei di Padova e Milano. A questi si affiancava Elisa Bastianello, rappresentante di una rivista umanistica ("La rivista di Engramma", curata in seno allo IUAV di Venezia) che, come tante, mette a disposizione on-line il contenuto degli ultimi numeri ma che non è tuttavia facilmente raggiungibile attraverso ricerche web, ad esempio attraverso DOAJ.

La discussione affrontata in questa giornata si è dimostrata essere di interesse diffuso e condiviso, a livello non solo di bibliotecari ed esperti dell'argomento, che già avevano salutato positivamente l'iniziativa, ma anche di ricercatori – più o meno giovani – incuriositi e stimolati dai nuovi processi di produzione editoriale e scientifica. Pur nella diversità delle posizioni espresse nel corso della giornata il dialogo tra mondo editoriale - necessariamente attento ad una prospettiva commerciale - e mondo accademico - che vede nelle pubblicazioni periodiche uno strumento per garantire e misurare la qualità della ricerca - è sembrato assai proficuo: la curiosità reciproca e la condivisione dell'obiettivo principale di garantire criteri certi per la valutazione della qualità di riviste e contributi è parso senz'altro un punto a partire dal quale sarà opportuno riconsiderare l'opportunità di sostenere un sistema di pubblicazioni che guardi con convinzione al modello open access.

Enrico Zucchi, Università degli Studi di Padova, e-mail: zucchi.en@gmail.com

Luca Scalco, Università degli Studi di Padova, e-mail: scalco.luca@gmail.com


Note

[1] A titolo di esempio: Mauro Guerrini, Gli archivi istituzionali Open access, valutazione della ricerca e diritto d'autore, Milano, Editrice Bibliografica, 2010, p. 61-73; Rebecca Darley - Daniel Reynolds - Chris Wickam, Open access journals in Humanities and Social Science. A British Academy Research Project, London, The British Academy, 2014 (scaricabile al link <http://www.britac.ac.uk/openaccess/>).

[2] Alludiamo all'intervento di Paola Galimberti dal titolo Open Access e scienze umane, pronunciato in occasione della Open Access Week (19-23 ottobre 2009), le cui slides sono pubblicate sul sito <http://eprints.rclis.org/13408/1/PG.pdf >.

[3] Anche a ragione: una prospettiva critico-quantitativa in Andrea Capaccioni - Giovanna Spina, La presenza delle riviste italiane di area umanistica e sociale nel Journal Citation Reports (JCR) e nello SCImago Journal Rank (SJR): dati e prime analisi, "JLIS", 3 (2012), 1, p. 4787-1–4787-21 (<http://leo.cineca.it/index.php/jlis/article/view/4787>).

[4] Come espresso ad esempio nell'editoriale de "La rivista di Engramma", <http://www.engramma.it/eOS2/index.php?id_articolo=21>.

[5] Maria Cassella, Social peer-review e scienze umane, ovvero "della qualità nella Repubblica della scienza", "JLIS", 1 (2010), 1, p. 111-132, <http://leo.cineca.it/index.php/jlis/article/view/30>; Paola Galimberti, Qualità e quantità: stato dell'arte della valutazione della ricerca nelle scienze umane in Italia, "JLIS", 3 (2012), 1, p. 5617-1-5617-25 (<http://leo.cineca.it/index.php/jlis/article/view/5617>).

[6] In generale sull'open access cfr. Maria Cassella, Open Access e comunicazione scientifica, Milano, Editrice Bibliografica, 2012.

[7] Cfr. ad es. Anna Maria Tammaro - Alberto Salarelli, La biblioteca digitale, Milano, Editrice Bibliografica, 2006; Giuseppe Vitiello, Il libro contemporaneo, Milano, Editrice Bibliografica, 2009.

[8] Si tralascia in questa sede il problema, collaterale, dei diritti in rapporto alla circolazione del materiale. Sul tema Antonella De Robbio, Archivi aperti e comunicazione scientifica, Napoli, ClioPress, 2007; Antonella De Robbio, Accesso aperto e diritti: un difficile equilibrio tra tutele e libertà, "Bibliotime" 16 (2013), 3 (< https://www.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xvi-3/derobbio.htm >).

[9] Come l'intervento di Claudio Giunta del 2012: Una rivista accademica non dovrebbe costare 800 euro, <http://www.roars.it/online/una-rivista-accademica-non-dovrebbe-costare-800-euro-a-numero/>. Giunta è ritornato poi sulla questione in diversi altri contributi tutti leggibili nel sito: <http://www.claudiogiunta.it/>

[10] Maria Cassella, Open Access e comunicazione scientifica, Milano, Editrice Bibliografica, 2012, p. 19-22, 133-141. Nota polemica anche in Roberto Caso, Università, trasferimento di conoscenze e proprietà intellettuale: a quando una visione d'insieme e lungimirante?, "Bibliotime" 15 (2012), 2 (< https://www.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xv-2/caso.htm> ).

[11] Spunti in Jingfeng Xia, Open Access for Archaeological Literature: A Manager's Perspective, in Archaeology 2.0: new Approaches to communication and collaboration, edited by Eric C. Kansa, Sarah Witcher Kansa, Ethan Watrall, Los Angeles, University of California, 2011, p. 233-250 (<https://escholarship.org/uc/item/1r6137tb>); Antonella De Robbio, Nobel 2012 e citazioni OA: tra metafore della luce e paradigma del tempo, "Bibliotime", 15 (2012), 3, (<https://www.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xv-3/derobbio.htm>).

[12] Directory of Open Access Journal, <http://doaj.org/about>.

[13] Annamaria Tammaro - Alberto Salarelli, La biblioteca digitale, Milano, Editrice Bibliografica, 2006, p. 291.

[14] Una nota ex ante sulla conferenza di Messina in Benedetta Alosi, Dichiarazione di Messina 2.0: la via italiana all'accesso aperto, "Bibliotime", 17 (2014), 2, (<https://www.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xvii-2/alosi.htm>).

[15] Per un dialogo più proficuo e meno dispersivo si è deciso di limitare l'analisi alle sole riviste accademiche, tralasciando quindi la sostanziosa problematica della monografia ad accesso aperto, un esito di ricerca di assoluta rilevanza per le aree disciplinari oggetto di approfondimento ma su cui è necessario un approfondimento tutto particolare. A titolo generale si rimanda a Giuseppe Vitiello, Il libro contemporaneo, Milano, Editrice Bibliografica, 2009. Sempre nella due-giorni messinese stimolante è stato l'intervento di P. Mounier, di Open Edition; rinomato "brand" open access, (<http://openeditionitalia.it/books/a-proposito-di-books>.




«Bibliotime», anno XVII, numero 3 (novembre 2014)

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