«Bibliotime», anno XVIII, numero 2 (luglio 2015)

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Michele Santoro

Per una storia delle classificazioni bibliografiche. Parte seconda: la Grecia antica



Abstract

Second part of the essay started in the previous issue of Bibliotime, this article deals with archaic and classical Greece. In particular, it explores the ways of organization of library collections since the Minoan and Mycenaean to the Classical Age, and examines the ideas of classification developed by philosophers such as Pythagoras and Plato. Then, it analyzes the Aristotle's thought on categories and classification of sciences. Finally, a comprehensive account of the library of Aristotle - and its possible systems of ordering - is given

1. La Grecia arcaica e classica

Il presente articolo costituisce la seconda parte del percorso, iniziato nel precedente numero di Bibliotime, [1] e volto a delineare una storia della classificazioni in cui siano presi in esame tanto gli aspetti filosofici e concettuali quanto quelli bibliografici e biblioteconomici. Così, dopo aver esplorato le origini del pensiero classificatorio – apparse, come si è visto, in Mesopotamia e in Egitto – in queste note si affronterà il fondamentale capitolo del mondo greco.

A tale riguardo, un importante contributo viene dal volume di Konstantinos Staikos, [2] che getta nuova luce sulla presenza di raccolte documentarie – e sulle loro modalità di organizzazione – sia nella Grecia arcaica che in quella classica ed ellenistica. Di notevole interesse è lo spazio che l'autore dedica alle civiltà minoica e micenea, sviluppatesi fra il 3000 ed il 1100 a. C. e finora trascurate dalla storiografia bibliotecaria. Queste civiltà infatti ci hanno lasciato una sorprendente ricchezza documentaria: nei palazzi reali di Cnosso e Micene, ad esempio, sono state ritrovate grandi quantità di materiali (per lo più tavolette d'argilla ma anche rotoli di papiro e persino primordiali pergamene) che, secondo l'autore, richiedevano specifici criteri di ordinamento. [3]

Per facilitare il recupero dell'elevato numero delle tavolette, scrive infatti Staikos, veniva inserita un'etichetta al centro di una di esse, su cui era segnalato il contenuto di altre tavolette fra loro collegate, che venivano poi conservate in ceste o casse di legno; analoghe indicazioni erano fissate a singole tavolette o a rotoli di papiro, allo scopo di evidenziarne il contenuto e agevolarne il reperimento. [4]

Questi tuttavia non erano gli unici metodi di identificazione e di collocazione, se è vero che Staikos riporta l'esempio di due tavolette ritrovate a Pilo e che si riferiscono a corazze militari: esse infatti componevano un dittico che elencava le intestazioni di altre tavolette, le quali erano divise in due gruppi sulla base dei materiali con cui erano costruite le corazze. [5] Siamo dunque di fronte, afferma l'autore, a pratiche del tutto analoghe a quelle adottate in Mesopotamia e in Egitto molti secoli prima dell'avvento della civiltà micenea.

Per quanto riguarda poi i rotoli di papiro, Staikos ipotizza che le raccolte di maggiori dimensioni (come i materiali letterari o le registrazioni archivistiche) fossero sistemate su "scaffali di legno con partizioni verticali a intervalli di circa 40 cm; questi spazi erano suddivisi in una serie di 'nicchie a colombaia' rettangolari, triangolari o a forma di losanga, che agevolavano i bibliotecari nel ricollocare i rotoli di papiro senza modificare il loro esatto ordine ogni qualvolta vi fosse bisogno di prelevarli dalle file più basse". [6]

Se quindi la Grecia arcaica mostra una realtà abbastanza simile a quella mesopotamica ed egizia, è nell'età classica che si assiste a uno sviluppo documentario assai più consistente: anche se ciò, paradossalmente, si risolve in una contraddizione con cui gli studiosi si sono confrontati a lungo, e che riguarda proprio la presenza di libri e di biblioteche in una società – la Grecia del sesto e quinto secolo – ancora fortemente legata alla cultura orale. [7]

Difatti, se è vero che "le condizioni minime necessarie per la produzione di libri (scrittura alfabetica e materiali scrittori) esistevano già da tempo", [8] è altresì vero che quella presa in esame è "una società dominata dalla comunicazione orale", in cui "il libro è considerato un veicolo insufficiente di comunicazione". [9]

Gli studi di Jesper Svembro hanno dimostrato che, in questa fase, la scrittura è strettamente legata all'oralità, configurandosi di fatto come "una macchina per la produzione del suono": [10] la scrittura è "posta al servizio della cultura orale, non per salvaguardare la tradizione epica (per quanto abbia finito col farlo), ma per contribuire alla produzione di suono, di parole efficaci, di gloria riecheggiante". [11] Infatti, prosegue lo studioso, la lettura ad alta voce è ampiamente praticata fin dalle prime apparizioni dei testi scritti, e ciò avviene proprio perché la cultura greca valorizza fortemente la parola parlata: la scrittura insomma, conclude Svembro, "non ha interesse se non nella misura in cui essa prevede una lettura oralizzata". [12]

Questa prevalenza della dimensione orale, commenta a sua volta Giuseppe Cambiano, ha fatto sì che

ad Atene il libro cominciò ad avere una certa diffusione soltanto dopo la metà del secolo V a. C. Esso non sostituì mai completamente la dimensione orale, che per tutta l'antichità continuò ad essere veicolo essenziale di elaborazione e trasmissione del sapere. Lo stesso libro fu quasi sempre oggetto di ascolto, attraverso la lettura ad alta voce fatta personalmente o da altri. Non solo poeti, ma anche storici e filosofi e addirittura medici non esitarono a ricorrere a recitazioni o letture pubbliche per far conoscere i loro scritti. Ciò che lo scritto introdusse fu soprattutto un nuovo modo di conservare il sapere e di impiegare la memoria. [13]

L'evidente conseguenza di tale situazione è che, in questo periodo, è difficile parlare di biblioteche nel senso corrente della parola: difatti il termine greco bibliothéke sembra indicare la raccolta dei soli 'libri' omerici, come si evince ad esempio da un passo di Senofonte, nel quale si nomina "la biblioteca che un giovane ricco e volenteroso raccoglitore di libri mette insieme", e che "consiste essenzialmente nell'intero corpus omerico". [14]

Appaiono quindi destituite di fondamento le notizie secondo cui Policrate, tiranno di Samo dal 574 al 522, e soprattutto Pisistrato, tiranno di Atene fino al 527 a. C., furono fondatori di biblioteche destinate ad un uso pubblico: [15] in realtà, chiarisce Luciano Canfora, l'operazione condotta da Pisistrato fu quella di dar vita a un'edizione dei poemi omerici, "suddivisi in tanti libri quante sono le lettere dell'alfabeto greco". [16]

Si hanno invece conferme dell'esistenza di collezioni private appartenute soprattutto a studiosi e filosofi. Scrive infatti Guglielmo Cavallo che "le prime raccolte di libri sono testimoniate ad opera di 'intellettuali', per lo più scolarchi di scuole filosofiche, loro discepoli e talora eredi", [17] e ciò "lascia credere che, a partire dal secolo VI a. C., la tradizione scientifico filosofica sia entrata in una fase di fissazione scritta e di salvaguardia dei libri-deposito del pensiero". [18]

Alcuni riferimenti alla scrittura e ai libri sono presenti nelle opere dei grandi autori tragici e di Aristofane: anzi, è proprio quest'ultimo che fornisce informazioni di prima mano sull'utilizzo dei libri da parte degli intellettuali del periodo. Nella commedia Le rane, ad esempio, Aristofane si prende gioco di Euripide, il quale "non farebbe altro che "spremere le proprie tragedie dai libri""; ed in seguito a una gara tra Euripide ed Eschilo, quest'ultimo risulterà vincitore perché i suoi versi saranno sempre più pesanti "di quelli del rivale, "anche se lo stesso Euripide dovesse salire sulla bilancia con la moglie, i figli e le braccia cariche di libri"". [19]

Nell'Atene del quarto secolo [20] si assiste dunque a una maggiore circolazione della scrittura e dei libri. Fra questi, un ruolo preminente è detenuto dai testi omerici, peraltro utilizzati nelle scuole come materiali per la lettura. Al tempo stesso sono presenti trattati in prosa su argomenti di vario genere: dal ruolo del coro nelle tragedie alla decorazione delle scene teatrali, dall'architettura alla scultura e allo studio delle proporzioni; molto diffusi poi sono i libri di cucina. [21]

Questo è anche il periodo in cui si sviluppa un interessante commercio librario. Lionel Casson, ad esempio, richiama il discorso tenuto da Socrate nel 399 a. C. in occasione del suo processo, nel quale il filosofo afferma "che le opere di Anassagora "potevano essere comprate per non più di una dracma presso l'orchestra"". L'orchestra, chiarisce Casson, "era una parte dell'agorà, cioè della piazza principale di Atene, dove si vendevano merci di ogni genere; i librai erano evidentemente già così affermati ai tempi di Socrate da avere una zona del mercato tutta per loro". [22] Ed è ancora Aristofane che, nella commedia Gli uccelli, "dipinge i suoi concittadini ateniesi che subito dopo la colazione si precipitano nelle librerie, "verso i libri", per conoscere le novità e discuterne sul posto i meriti e i difetti. Le librerie erano dunque già diventate punto d'incontro e luogo di conversazione per il pubblico dotato di interessi letterari". [23]

Si può dunque parlare, nell'Atene del IV secolo, di biblioteche possedute da privati e organizzate sulla base di specifici criteri? Per rispondere a questo interrogativo conviene riprendere il discorso sul commercio librario, e rilevare con Tönnes Kleberg che esiste un termine antico per designare le librerie: bibliothêkai che, al plurale, indica l'area o la struttura destinata a contenere i libri e quindi, per estensione, la collezione stessa dei libri. Proprio questo termine, prosegue l'autore, "ci ricorda utilmente come sussista dall'antichità fino ai nostri giorni uno strettissimo rapporto fra commercio librario e e biblioteche", se è vero che "il commercio potrebbe esser stato il presupposto necessario per la costituzione di raccolte di libri private, che senza dubbio si trovavano ad Atene già durante il V secolo a. C. e che durante il IV divennero sempre più numerose". [24]

Per questa età infatti non mancano i riscontri sulla presenza di vere e proprie biblioteche: Lionel Casson, tra gli altri, rileva che "Senofonte parla di un sedicente erudito che possedeva una biblioteca privata composta non solo di libri di poesia ma anche di tutte le opere di Omero, che da sole riempivano una quindicina di lunghi rotoli". [25]

Ancora più importante è il riferimento a una commedia di Alessi, autore attivo tra il IV e il III secolo a. C., nella quale una scena è ambientata proprio in una biblioteca: in essa "Lino, il mitico maestro di musica che insegnò ad Ercole a suonare la lira, conduce l'eroe nella sua biblioteca, gli indica gli scaffali colmi di opere, e lo invita a sceglierne una da leggere attentamente. Ercole, che nelle commedie greche è sempre rappresentato come un inguaribile goloso, finisce naturalmente per prendere un libro di ricette". [26] Si tratta di una testimonianza di particolare rilievo, non solo perché "i libri di questa biblioteca hanno dei titoli" e non, come avveniva di solito, una semplice menzione dell'autore, [27] ma soprattutto perché la loro disposizione sugli scaffali viene riportata con precisione: "Orfeo, Esiodo, 'Tragedia', Cherilo, Omero, Epicarmo, ogni genere di trattato", [28] fornendoci così un'idea dei possibili criteri di ordinamento dell'epoca.

Ma in questo periodo si manifestano anche altre forme, per quanto ancora approssimative, di classificazione. Un esempio è dato dai numerosi testi di carattere medico che, a parere di Giuseppe Cambiano, si configurano come veri e propri "cataloghi", ossia elenchi strutturati di malattie, di sintomi e a volte anche di cause; infatti questi cataloghi, scrive lo studioso, hanno il vantaggio "di consentire un'espansione e un'integrazione del sapere, con la descrizione di nuove malattie o di nuovi sintomi e o l'indicazione di nuove terapie". [29] E questi strumenti acquistano un'importanza ancora maggiore con Ippocrate, il quale ha una chiara consapevolezza che "i problemi dovevano essere ordinati in una sequenza di complessità crescente, e che la soluzione dei problemi più complessi richiedeva la soluzione preliminare di altri problemi. La sequenza additiva del catalogo", conclude infatti Cambiano, "s'intrecciava con un ordine di antecedenza e conseguenza del tutto priva di casualità". [30]

2. Libri e filosofi tra biblioteche e classificazione

Se le prime forme di ripartizione si cominciano a intravvedere verso la fine del quarto secolo, in tutta l'epoca classica il libro è comunque percepito come un importante strumento per l'istruzione e l'accrescimento del sapere: non è un caso, nota infatti Gugliemo Cavallo, che

le più antiche raccolte di libri furono costituite da scolarchi delle scuole filosofiche, passando da questi a discepoli e successori che ne continuavano l'insegnamento, e arricchendosi con le opere man mano composte e acquisite nell'ambito dell'attività delle scuole stesse. La raccolta libraria – conservata in una 'stanzuccia' fornita di scaffali 'a nicchia di colombaia', che fungeva anche da laboratorio editoriale – era intesa soprattutto ad assicurare la continuità del pensiero del maestro e dei maestri, rivelando dunque a fondamento un'idea di conservazione diacronica degli scritti ch'essa comprendeva. [31]

In questo discorso, un ruolo fondamentale è svolto dalle scuole filosofiche ateniesi e in primo luogo dai sofisti: basti pensare alla corrosiva polemica di Aristofane "contro i libri sofistici", che dimostra come proprio "i sofisti, i "sovversivi", avevano scoperto qual valore la diffusione del libro poteva avere nel demolire il passato". [32] E non mancano i riscontri sull'esistenza di raccolte librarie appartenute ai principali protagonisti di questo movimento: ricordiamo ad esempio la testimonianza di Diogene Laerzio secondo cui, in seguito alla condanna all'esilio di Protagora, uno degli esponenti di punta della sofistica, un messo fu inviato per tutta la città di Atene a raccogliere tutte le copie dei suoi libri perché venissero pubblicamente bruciati nell'agorà. [33]

D'altra parte è nota l'avversione di Socrate per la scrittura, al punto da non produrre alcun testo con cui consolidare e diffondere il suo pensiero; ma come affermano alcune fonti, tale avversione non impediva allo stesso Socrate di studiare insieme ai propri allievi le opere dei primi filosofi, o di invitare a leggere ad alta voce brani di libri che riteneva di particolare importanza ai fini del proprio insegnamento. [34]

Il caso di Platone, infine, è tra i più significativi e complessi: sappiamo infatti che il filosofo ateniese, "pur essendo un accanito lettore", combatte una battaglia "di retroguardia contro l'effetto inibitore che la parola scritta ha sul pensiero". [35] E tuttavia, commenta Cavallo, se è vero che questa battaglia "è contro una parola scritta 'autoritaria'", essa è

nel contempo (e paradossalmente) 'democratica': Platone vuole da una parte recuperare la libera discussione contro l'immobilità di un testo fisso, materializzato nella scrittura, depositato nel libro, dall'altra impedire che quest'ultimo possa rendere accessibile a chiunque un contenuto non filtrato e controllato da procedimenti di discussione e acquisizione, sui quali si fonda, nella concezione platonica, il sapere autentico. [36]

Nell'analisi del filosofo tuttavia non c'è solo quest'aspetto per dir così metodologico relativo ai libri e alla loro funzione, ma un significato strettamente connesso alla visione idealistica che caratterizza il suo pensiero. Per Platone infatti, precisa Giuseppe Cambiano, il luogo in cui è conservato il sapere non è il testo scritto ma l'anima, da cui è possibile attingere la conoscenza – e in tal modo riportare alla luce "la mappa oggettiva ed eterna delle idee" [37] – attraverso un processo di continuo di reminiscenza. Per contro, il testo scritto porta a "cercare il sapere fuori di sé", cioè nello stesso oggetto rappresentato dal libro, e questo non solo impedisce "la riappropriazione individuale del sapere", ma "ne facilita la dimenticanza". [38] Difatti, prosegue Cambiano,

il vero luogo nel quale il sapere poteva lentamente essere riscritto e così realmente conservato era l'anima, che Platone paragonava a una sorta di libro. I libri veri e propri, nella migliore delle ipotesi, potevano soltanto essere ausili mnemonici per chi già si era impadronito del sapere custodito all'interno della propria anima, o strumenti per rivolgersi anche a un pubblico esterno alla scuola filosofica e convincerlo ad avvicinarsi ad essa o per polemizzare con forme di attività intellettuale in competizione con la filosofia. [39]

È dunque opportuno chiedersi – come peraltro hanno fatto molti studiosi – se l'artefice di una visione così complessa della scrittura e dei libri avesse una propria biblioteca. E in effetti sembra del tutto verosimile che Platone possedesse una raccolta libraria: lo storico Diogene Laerzio e il biografo Satiro, vissuto nel secondo secolo a. C., ci informano che Platone richiese alcune opere di filosofi pitagorici a Dionigi, tiranno di Siracusa, [40] mentre secondo altre testimonianze egli acquistò direttamente alcuni volumi durante i suoi soggiorni in Sicilia, e commissionò a Eraclide Pontico i poemi di Antimaco da Colofone. Da ciò tuttavia non è possibile trarre alcuna conclusione sulla sua dotazione libraria, né sui criteri con cui poteva essere ordinata.

Ma di fronte al silenzio delle fonti sulla biblioteca di Platone, ci è ben noto il suo punto di vista sull'organizzazione concettuale "degli oggetti dell'esperienza", ossia sulla necessità "di render conto di come e perché fosse possibile attraverso i nomi e i concetti il raggruppamento di molteplici individui": [41] un punto di vista che è del tutto aderente all'impianto idealistico del suo pensiero, e che prevede appunto "l'esistenza delle Idee o Forme" ossia quelle "entità permanenti e immutabili che costituiscono il modello eterno e assoluto della realtà". [42] Come scrive Alfredo Serrai,

che Platone nella costruzione della teoria delle Idee avesse presente anche il problema delle categorizzazioni e delle classificazioni degli oggetti dell'esperienza, e che proprio dall'esigenza di render conto di come e perché fosse possibile attraverso i nomi e i concetti il raggruppamento di molteplici individui, pare fuori di dubbio. Per Platone la caratteristica in comune di più oggetti era una Forma assoluta, ed è la conoscenza di tale forma che ci permette di riunire quegli oggetti in una classe; tale classe viene definita da un nome comune o 'universale'. Le Forme sono così insieme i modelli della Realtà e le basi della conoscenza. La classificazione del mondo dell'esperienza viene rimandata alla classificazione del Mondo delle Forme, che sussiste assoluto e immutabile. Per Platone quindi esiste un ordine assoluto che precede il mondo reale; la conoscenza di un tale ordine è il fondamento sul quale si può costruire una classificazione unica e vera del reale. [43]

3. La svolta di Aristotele

Ma in questo periodo non è solo il grande pensatore ateniese a dar vita a una riflessione sui criteri di ordinamento di concetti e fenomeni. Infatti l'interesse di molti filosofi per una chiara definizione delle essenze del reale è attestato dalla presenza, nella lingua greca, di un termine in grado di esprimere quest'insieme di nozioni: quello di categoria, [44] termine appunto complesso e polisemico [45] ma che indica, di fatto, "un metodo per organizzare la conoscenza determinata". [46]

In realtà, già con Pitagora e i suoi discepoli si ritrova una prima rappresentazione di tipo categoriale, in cui ogni fenomeno è concepito come la relazione di due termini opposti. E un andamento chiaramente dicotomico prevede anche la ripartizione effettuata da Filolao, pitagorico di seconda generazione, che include dieci elementi in contrapposizione reciproca: determinato/indeterminato, pari/dispari, unità/pluralità, destro/sinistro, maschio/femmina, quiete/movimento, diritto/curvo, luce/tenebre, bene/male, quadrato/figure con lati diseguali. [47]

È tuttavia con Aristotele che si ha la teorizzazione più ampia e consistente della nozione di categoria. [48] Per il filosofo greco infatti le categorie [49] costituiscono "i modi e le qualità dell'essere e la maniera in cui l'uomo lo vede e lo interpreta" o, se si preferisce, la "determinazione appartenente all'essere stesso, di cui il pensiero deve servirsi per conoscerlo ed esprimerlo in parole". [50] Le categorie sono quindi i "generi sommi dell'essere" [51] o, detto diversamente, i nuclei concettuali "entro cui classificare gli enti sulla base della loro differenza" [52]. La sintesi che segue fornisce una prima descrizione dell'argomento, visualizzato con maggior precisione nella successiva tabella (fig. 1).

Per Aristotele l'essere è nel mondo, in tutte le cose individuali che percepiamo attraverso i nostri sensi. Infatti tutto ciò che è pensabile è conoscibile, e tutto ciò che è conoscibile è contabile: ogni qualvolta noi conosciamo, dobbiamo anche essere in grado di comunicare e quindi tradurre implicitamente ciò che conosciamo. Nel mondo si presentano diversi enti (uomini, animali, piante, colori, dori, sapori, suoni), vale a dire cose concrete, e ogni volta che noi ci adoperiamo per conoscerli, notiamo che essi si presentano con modalità diverse gli uni dagli altri.

Le caratteristiche e le modalità con le quali gli enti si presentano nel mondo sono le categorie, che per Aristotele sono dieci. La sostanza è la categoria fondamentale e primaria che ci permette di capire "che cosa" sia un ente. Essa include gli enti che per esistere non hanno alcun bisogno di fare riferimento ad altro, in quanto possono sussistere in modo autonomo. È la ragione delle cose, la loro essenza. La sostanza costituisce il sostrato (lo strato logicamente più profondo) di una cosa su cui si innestano gli altri predicati. Aristotele distingue due tipi di sostanze: la sostanza prima (o propria), che è intesa come ente individuale e singolo, e quindi gli enti che esistono in modo autonomo e primario; e la sostanza seconda (o accidentale), intesa come predicato che esprime la qualità della sostanza. La qualità che comprende i colori, gli odori, i sapori, le qualità morali (coraggio, bontà). La quantità che riguarda le determinazioni quantitative (peso, lunghezza, larghezza). La relazione che stabilisce un confronto tra gli enti. Il luogo che indica le determinazioni che riguardano lo spazio in cui si trovano gli enti. Il tempo che si riferisce alle determinazioni temporali (oggi, domani, ieri). [53]

Fig. 1: le dieci categorie di Aristotele

 

Appare evidente che, se da un punto di vista logico le dieci categorie corrispondono ai dieci tipi di "predicazioni" possibili, cioè ai vari modi con cui è possibile attribuire un predicato a un soggetto, sul piano della realtà esse individuano quelle differenze originarie e irriducibili che sono proprie del reale. [54] Nel loro insieme dunque vengono a costituire un impianto classificatorio di straordinaria importanza concettuale: a parere di Alfredo Serrai infatti

la teoria aristotelica, imperniando su un medesimo principio l'interpretazione ontologica e quella gnoseologica della realtà, forniva una categorizzazione univoca delle cose. Le cose sono ciò che è la loro sostanza, e la sostanza viene espressa dal concetto, ossia dalla definizione della cosa; conoscendo la sostanza si conosce la natura essenziale di una cosa; le modificazioni quantitative e qualitative della cosa non alterano la sua sostanza. Un insieme di individui che siano caratterizzati dalla stessa sostanza costituisce una specie; specie è anche un predicabile, cioè ciò che può venir predicato a proposito della essenza comune di una collettività di individui. Più specie che si distinguano tra loro per differenze non sostanziali si raggruppano in un genere ed eventualmente in una gerarchia di generi. [55]

Ma la ricerca di Aristotele sui criteri di ordinamento di cose e concetti non si esaurisce con queste fondamentali determinazioni – peraltro destinate a costituire le basi del più maturo pensiero classificatorio [56] – bensì prosegue con quella che appare come la prima classificazione delle scienze nella storia del pensiero occidentale.

Aristotele infatti suddivide le scienze in teoretiche, pratiche e poietiche, assegnando la superiorità alle prime, e fra queste alla metafisica, che studia l'essere in quanto essere (considerato cioè in senso assoluto) mentre le altre scienze prendono in esame determinati generi dell'essere stesso; in tal modo la metafisica viene a costituire il punto di vista più universale da cui osservare la realtà. Come ha scritto Enrico Berti,

per Aristotele la "ragione" (dianoia), intesa come sinonimo di "scienza", può essere "teoretica", "pratica" o "poietica". Una scienza è teoretica quando verte su un oggetto che non ha come principio l'uomo, è pratica quando ha per oggetto un'azione (praxis), attività umana che non termina in altro, ed è poietica quando ha per oggetto una produzione (poiêsis), cioè un'attività umana che termina in un prodotto. Sono pertanto scienze teoretiche la "fisica", che ha per oggetto gli enti naturali, realtà mobili e quindi non separate dalla materia, le "matematiche", che hanno per oggetto realtà non separate dalla materia, ma considerate come se lo fossero e quindi come immobili, e la "filosofia prima", che, ricercando le cause prime dell'essere in quanto essere, e quindi anche degli astri, attinge a realtà immobili e separate dalla materia, cioè divine, e quindi può essere detta anche "scienza teologica". Quest'ultima scienza, esposta nell'opera edita col titolo di Metafisica, sarà detta anche "metafisica". I commentatori neoplatonici di Aristotele collocheranno tra le scienze pratiche l'etica, concernente il bene del singolo, l'economica, concernente il bene della famiglia (oikos), e la politica, concernente il bene della città (polis); gli stessi collocheranno tra le scienze poietiche l'arte retorica, l'arte poetica e, almeno alcuni, l'arte dialettica, cioè la logica, e quindi le arti (technai). [57]

L'immagine che segue [58] rende esplicito quanto finora esposto:

Fig. 2: la classificazione delle scienze di Aristotele

4. La biblioteca di Aristotele

Arrivati a questo punto, è importante chiedersi se la straordinaria evoluzione del pensiero classificatorio messa in atto da Aristotele abbia avuto delle ricadute per dir così pratiche sui criteri di ordinamento delle raccolte librarie, e in primo luogo su quella che egli stesso ha costituito nel corso degli anni.

Difatti, a differenza di quanto è accaduto con Platone, si hanno numerose testimonianze sull'esistenza di una biblioteca personale del filosofo di Stagira: non è un caso, scrive Carlo Natali, se "nell'anneddotica ellenistica permane una tradizione secondo cui Aristotele aveva la passione di raccogliere libri", [59] e se nei suoi stessi testi si ritrovano precise "indicazioni sull'uso delle opere scritte". [60] Né d'altra parte, continua l'autore, è presumibile che un'impresa così monumentale com'è quella realizzata da Aristotele potesse prescindere dall'impiego di una vasta raccolta documentaria:

la ricerca scientifica e filosofica contenuta nei trattati aristotelici non è tale da poter essere improvvisata passeggiando sotto i portici di una palestra qualsiasi, come invece era possibile per l'analisi puramente concettuale di Socrate. I risultati cui perviene sono evidentemente frutto di ampie indagini sull'esperienza (istoría), di una complessa sistematizzazione delle 'evidenze' (fainómena) ed anche di uso appropriato delle fonti scritte. Fin dal suo primo soggiorno ateniese Aristotele fu noto tra i discepoli di Platone, perché preferiva la lettura alla discussione pubblica, [e in alcune fonti] si contrappone l'abitudine di Aristotele, leggere da solo, all'uso dell'Accademia, discutere in comune. [61]

Si può allora ritenere, come fa Loredana Cardullo, che la biblioteca del Liceo fosse "ricchissima di libri di vario argomento, dal momento che, a differenza dell'Accademia, sui libri si basava in buona parte la formazione dei giovani peripatetici; va ricordato, a tal proposito, che Aristotele, nell'antichità, era stato soprannominato (ma spesso in senso spregiativo) il "lettore", per la sua propensione verso il testo scritto, e la sua abitazione "la casa del lettore"". [62]

Le conseguenze di questa situazione sono di straordinaria importanza se è vero, prosegue l'autrice, che con Aristotele

la cultura orale perderà quella supremazia che aveva mantenuto ancora con Socrate e Platone e al dialogo, inteso come principale strumento di educazione e di comunicazione filosofica, egli sostituirà il trattato scientifico. Alcune fonti raccontano che nel periodo accademico, mentre gli altri discepoli di Platone trascorrevano il loro tempo in aula a dibattere insieme su temi filosofici di varia natura, spesso Aristotele preferisse rimanere a casa sua a leggere in solitudine, convinto com'era che si potesse apprendere proficuamente anche dai testi scritti e non solo dal rapporto dialogico orale o dal con-filosofare di carattere socratico-platonico che veniva praticato in Accademia. Da questo punto di vista, quindi, lo Stagirita, con la sua fiducia nel valore educativo e formativo della lettura e della scrittura, di contro alla nota condanna platonica del testo filosofico, è stato l'artefice di un cambiamento radicale nel modo di concepire la ricerca filosofica. [63]

Fig. 3: Aristotele [64]

Accertato che Aristotele possedesse una propria raccolta libraria, [65] diventa dunque interessante non solo seguirne gli sviluppi (che, come vedremo, s'intrecceranno con le vicende della più grande biblioteca dell'antichità [66]), ma anche individuare i criteri con cui la raccolta stessa poteva essere organizzata.

Su quest'ultimo punto si sofferma Konstantinos Staikos, che calcola in 550 i rotoli di papiro costituenti la collezione del filosofo, ed afferma che "il Corpus Aristotelicum, compresi i testi delle conferenze della scuola pubblicati dal primo secolo a. C. in poi e sopravvissuti fino ad oggi, assommano a 106 libri". [67]

L'autore dunque ritiene che vi siano prove sufficienti per tentare di ricostruire il contenuto della biblioteca, per la quale ipotizza una ripartizione in quattro classi: le opere essoteriche; le opere esoteriche; le opere di consultazione; gli scritti di altri autori. Tale congettura, continua Staikos, è confortata dalla presenza di quattro cataloghi di testi aristotelici compilati nell'antichità, il più antico dei quali è quello lasciatoci da Diogene Laerzio. [68]

Staikos descrive quindi il contenuto di ciascuna classe, cominciando proprio dai 'discorsi essoterici', definiti così dallo stesso Aristotele e costituiti da una serie di opere rivolte a un pubblico generale piuttosto che agli allievi della sua scuola: si tratta, precisa l'autore, degli unici testi pubblicati dal filosofo, anche se di essi sopravvivono solo alcuni frammenti. [69]

Per contro le opere 'esoteriche", 'didattiche' o 'acroamatiche' rappresentano "il distillato delle letture di Aristotele al Liceo, in quanto erano opere che egli aveva costantemente revisionato e a cui aveva probabilmente aggiunto note a margine e riferimenti incrociati; esse non avevano dei titoli nel senso moderno del termine: i titoli con cui le conosciamo sono stati assegnati secoli dopo la sua morte, probabilmente nel primo secolo d. C.". [70]

Il terzo gruppo, prosegue Staikos, comprende le "raccolte di materiali assemblati da Aristotele per usarli nella sua continua ricerca: brani da libri di altri scrittori, classificati per soggetto (in altre parole, esempi organizzati sistematicamente di opere scientifiche in diversi campi); cataloghi e collezioni di dati di vario genere; glossari; appunti e pensieri estemporanei; tradizioni orali registrate in forma scritta, note derivanti dalla sua ricerca sulla tradizione omerica, su Archiloco ed Euripide; liste di nomi di persone, cose e città; e ogni altra informazione che poteva ampliare la sua conoscenza di persone e cose". Nell'ultima sezione infine "c'erano i libri di altri autori che Aristotele aveva comprato o ottenuto altrimenti allo scopo di accumulare un ampio magazzino di conoscenza, almeno intorno alla tradizione intellettuale greca". [71]

Ora, è difficile convenire sulla fondatezza dell'ipotesi di Staikos: difatti, è ben noto che la divisione delle opere di Aristotele in esoteriche ed essoteriche è la stessa che ci ha consegnato la tradizione, e trova la sua origine nell'edizione "che Andronico di Rodi ne fece nel I secolo a. C., la quale, sostanzianzialmente, disponeva gli scritti del filosofo nella forma in cui sono giunti fino a noi". [72] D'altra parte, sostenere che la raccolta di Aristotele comprendesse un settore di testi di "reference" (basati peraltro su una "classificazione per soggetto"), oltre che una sezione "miscellanea", appare come un'attribuzione di categorie concettuali moderne a una realtà cronologicamente e culturalmente assai distante.

Quale che fosse l'ordinamento della biblioteca di Aristotele, ci sembra interessante seguirne la vicenda, che per certi versi assumerà tratti quasi romanzeschi, mentre per altri apparirà come un ponte verso la creazione della biblioteca di Alessandria. [73]

E per far ciò bisogna rilevare che, alla morte del filosofo, la raccolta passò al suo allievo e successore Teofrasto il quale, nei 35 anni in cui diresse la scuola, diede uno straordinario impulso all'insegnamento e alla ricerca filosofica, [74] accrescendo contestualmente la dotazione della biblioteca, che lasciò infine a suo nipote e successore Neleo. Tale informazione è supportata dalla testimonianza di Ateneo, autore greco del primo secolo a. C., che parlando del ricco letterato romano Larensis – protettore dello stesso Ateneo – afferma che questi

"aveva una tale quantità di antichi libri greci da sorpassare tutti coloro che erano stati ammirati per le loro biblioteche, Policrate di Samo, Pisistrato tiranno di Atene, il poeta Euripide, il filosofo Aristotele, <e Teofrasto> e Neleo che conservò i libri di costoro. È da costui che il re della nostra terra, Tolomeo, detto Filadelfo, acquistò tutti i libri e li portò alla bella Alessandria, insieme a quelli che provenivano da Atene e da Rodi". [75]

In realtà, commenta Carlo Natali, il presunto passaggio della raccolta aristotelica alla biblioteca di Alessandria si spiega "con il fatto che i legami tra i filosofi peripatetici e i re d'Egitto furono stretti: le fonti antiche ci dicono che Demetrio di Falero collaborò all'organizzazione della grande biblioteca, e che Stratone di Lampsaco si occupò dell'educazione di Tolomeo Filadelfo". [76]

Ma se è vero che il ruolo di Demetrio Falereo (uno tra i più importanti allievi di Aristotele oltre che governatore di Atene per circa dieci anni) sarà decisivo nella costituzione della biblioteca di Alessandria, è invece poco attendibile la notizia dell'acquisto da parte dei Tolomei dei libri del filosofo, [77] mentre è più probabile che nella grande biblioteca fossero presenti diverse copie delle opere di Aristotele, oltre a lezioni e conferenze che aveva tenuto nella sua scuola. [78]

Un'altra versione della vicenda, riportata dal geografo e storico greco Strabone, riferisce che Neleo, dopo la morte di Teofrasto, si ritirò a Scepsi, sua città natale, portando con sé la biblioteca per lasciarla poi ai suoi parenti,

"persone qualunque, che tennero i libri sotto chiave, senza nemmeno disporli con cura. Ma quando seppero con quale zelo i re Attalidi, che erano i sovrani della loro città, raccoglievano libri per istituire una biblioteca a Pergamo, nascosero i libri sotto terra in una grotta. Molto più tardi i discendenti di questa famiglia vendettero per molto denaro i libri di Aristotele e di Teofrasto, danneggiati dall'umido e dagli insetti, ad Apellicone di Teo. Questo Apellicone era più un bibliofilo che un filosofo, quindi, cercando di fare un restauro delle parti che erano state corrose fece ricopiare lo scritto, riempiendo i vuoti in modo scorretto, e pubblicò i libri pieni di errori". [79]

Il racconto di Stabone viene ripreso da Plutarco il quale, nella Vita di Silla, afferma che il generale romano, approdato al Pireo nell'84 a. C., si era impadronito di tutti i libri di Apellicone, trasportandoli a Roma e facendoli riordinare da Tirannione, un grammatico di origine greca, mentre l'edizione definitiva si avrà con Andronico di Rodi. A commento dell'intera vicenda, Carlo Natali scrive che

il giudizio sul Peripato dato da Strabone e Plutarco è storicamente esatto, e condiviso dagli storici moderni; ma i particolari di tutta la storia lasciano molto perplessi e non c'è ragione di ritenere che gli scritti di Aristotele siano del tutto scomparsi dalla faccia della terra fino all'età di Cicerone. Comunque rispetto ai nostri interessi queste questioni sono, in fondo, secondarie. Quello che è importante è il fatto che la scuola peripatetica pare avere sempre avuto un netto interesse per la parola scritta, sia quella del maestro che di altri, e che una particolare attenzione per il destino della propria biblioteca e dei propri scritti appare evidente dai testamenti degli scolarchi peripatetici sia dalle liste delle loro opere conservate in Diogene Laerzio, sia da una serie ampia di altri indizi. [80]

Comunque stiano realmente le cose ci sembra opportuno – in conclusione del nostro excursus – tornare al tema della classificazione e, pur rimanendo in ambito aristotelico, proporre un esempio di particolare interesse qual è l'ordinamento delle opere del filosofo realizzato da Andronico di Rodi.

E per far ciò è utile ricordare – come fa Ingemar Düring – che Andronico, undicesimo caposcuola del Peripato, "godeva di grande reputazione come dotto scrupoloso"; [81] egli dunque "ebbe la sorte di trovare a Roma una biblioteca in cui, fra gli altri libri, vi erano anche gli scritti di Aristotele" i quali, secondo lo studioso, non erano altro che i volumi appartenuti a Neleo e trasportati a Roma da Silla. In nessun altro modo, afferma infatti Düring, si può spiegare "che questi scritti si sono tramandati nella forma in cui li possediamo, con tutte le piccole aggiunte, ineguaglianze ed inconcinnità d'altro tipo". [82]

Quale che sia la raccolta presa in esame, Andronico dà vita a un inquadramento delle opere del Corpus Aristotelicum imperniato su un preciso criterio sistematico, peraltro noto e apprezzato fin dall'antichità. Una conferma ci viene dalla testimonianza di Porfirio, filosofo del terzo secolo d. C., il quale non solo riconosce che Andronico "riunì i testi concernenti lo stesso tema, in modo che formassero un'opera, e divise così in libri gli scritti di Aristotele", ma utilizza lo stesso modello per l'edizione delle opere del suo maestro Plotino. [83]

Ora, non è un caso se la classificazione degli scritti di Aristotele metta al primo posto le opere di logica: [84] difatti, scrive Loredana Cardullo, [85] Andronico è convinto che "la dottrina del sillogismo, ossia del ragionamento perfetto, strumento imprescindibile della dimostrazione scientifica", costituisca il fulcro dell'intera logica aristotelica. Egli quindi organizza le opere del filosofo sulla base di "un ordine crescente, propedeutico", che va "dalle parti all'intero, o dal più semplice al più complesso", e pertanto assegna la priorità "ai Primi Analitici e ai Secondi Analitici, dedicati proprio al sillogismo". [86]

Successivamente Andronico pone "come propedeutico il trattato sulle Categorie, che studia i termini che compongono una proposizione, considerati nel loro significato e non nella loro connessione", al quale si accompagna il De interpretatione, "studio dei termini visti in connessione, cioè quando, da semplici parole significanti, i termini diventano nomi e verbi e formano una proposizione". [87]

Se dunque gli Analitici rappresentano il "cuore" degli scritti di logica, ad essi fanno seguito due opere a questi collegati: "i Topici, che costituiscono uno studio specifico sulla dialettica, e le Confutazioni sofistiche, che riguardano la confutazione, intesa come l'attività principale della dialettica, e mettono in guardia contro gli argomenti capziosi dei sofisti". [88]

Dopo i testi di logica sono presenti quelli di argomento naturale: la Fisica, in cui si discute dei "principi generali della scienza della natura"; il trattato Sul ciclo, l'opera Sulla generazione e sulla corruzione, la Meteorologia, ma anche il trattato Sull'anima, "ovvero sul principio biologico comune a tutti gli esseri viventi", e infine gli Scritti biologici. [89]

A ciò fanno seguito i quattordici libri della Metafisica, "scienza che Aristotele aveva chiamato "filosofia prima" (per distinguerla dalla fisica, o "filosofia seconda")". Il titolo Metafisica, precisa infatti Cardullo, "non è aristotelico, ma forse è più antico ancora dell'edizione di Andronico. Infatti, sulla base di alcune testimonianze, si è creduto di poter rintracciare il termine 'metafisica' già in una prima edizione dell'opera, risalente al discepolo di Aristotele, Eudemo di Rodi, che l'avrebbe già intitolata così". [90]

In ogni caso, ribadisce l'autrice, la tradizione assegna al termine "un'origine squisitamente editoriale o redazionale: difatti, non essendo in grado di classificare secondo un'etichetta precisa o sotto un titolo indicativo un certo gruppo di scritti del filosofo, Andronico li riunì e li collocò subito dopo quelli di fisica, appunto metà ("dopo") la physika (si intenda: "i trattati di fisica"). Da cui metafisica". [91]

La sistemazione del Corpus Aristotelicum è infine completata dagli scritti di etica (Etica Nicomachea, Etica Eudemia e Grande Etica); dal trattato sulla Politica; e dalle opere di Poetica e Retorica, "dedicate alle scienze della produzione umana", [92] a dimostrazione della precisione e della coerenza classificatoria messe in campo dal suo estensore.

Michele Santoro, Biblioteca Interdipartimentale di Matematica, Fisica, Astronomia e Informatica - Università di Bologna, e-mail: michele.santoro@unibo.it


Note

Le traduzioni da testi stranieri sono nostre; in alcuni casi le citazioni dei brani riportati sono state leggermente modificate. Le virgolette basse segnalano brani originali all'interno di citazioni.

[1] Per una storia delle classificazioni bibliografiche. Parte prima. Introduzione. Le origini: Mesopotamia e Egitto, <https://www.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xviii-1/santoro.htm>.

[2] Konstantinos Sp. Staikos, The history of the library in Western Civilization. Vol. 1, From Minos to Cleopatra. The Greek world from the Minoans' archival libraries to the universal library of the Ptolemies, New Castle, Oak Knoll Press - Tuurdijk, Hes & De Graaf - Atene, Kotinos, 2004.

[3] Ibid., p. 44.

[4] Ibid., p. 46.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Su questo argomento si rimanda in particolare a Jesper Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica, Roma-Bari, Laterza, 1991; Id., La Grecia arcaica e classica: l'invenzione della lettura silenziosa, in Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 3-36. Si veda inoltre Luciano Canfora, Le biblioteche ellenistiche, in Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di Guglielmo Cavallo, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 7; Guglielmo Cavallo, Introduzione a Le biblioteche nel mondo antico e medievale, cit. p. VII-XXXI. Dello stesso Cavallo cfr. anche Cultura scritta e conservazione del sapere: dalla Grecia antica all'Occidente medievale, in La memoria del sapere. Forme di conservazione e strutture organizzative dall'antichità ad oggi, a cura di Pietro Rossi, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 29-67. Si rinvia infine a Lawrence S. Thompson, Roman and Greek libraries, in Encyclopedia of library and information science, edited by Allen Kent and Harold Lancour, v. 35, New York, Marcel Dekker, 1968-83, p. 3-40.

[8] Guglielmo Cavallo, Introduzione a Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, a cura di Guglielmo Cavallo, Roma-Bari, Laterza, 1984. p. XIII. Si veda inoltre, nello stesso volume, Eric G. Turner, I libri nell'Atene del V e IV secolo a. C., p. 5-24; e Tönnes Kleberg, Commercio librario ed editoria nel mondo antico, p. 27-39.

[9] Luciano Canfora, cit., p. 7.

[10] Jesper Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica, cit., p. 2.

[11] Jesper Svenbro, La Grecia arcaica e classica, cit., p. 4

[12] Ibid.

[13] Giuseppe Cambiano, Sapere e testualità nel mondo antico, in La memoria del sapere, cit., p. 69.

[14] Luciano Canfora, cit., p. 6.

[15] Cfr., oltre ai testi già citati, Emilio Bertocci, Introduzione alla storia delle biblioteche antiche, Regione Liguria, 2012, <http://www.provincia.sp.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/b%252Fe%252F6%252FD.5886ff550c9b80dc5285/P/BLOB%3AID%3D3527>.

[16] Luciano Canfora, cit., p. 5. In effetti, chiosa Emilio Bertocci, se Pisistrato "avesse creato una vera biblioteca pubblica ne avremmo avuto notizia già nelle fonti più antiche. Osserviamo, inoltre, che nel dialogo pseudoplatonico Ipparco è contenuta una interessante digressione sulle attività culturali sotto Pisistrato, curate proprio da Ipparco. Si ricordano le molteplici iniziative promosse per dare ad Atene un proprio orientamento culturale svincolato dalla diffusa "laconicità", di moda all'epoca: ebbene, se fosse stata allestita una biblioteca, ciò non sarebbe stato certamente omesso. Nella Costituzione degli Ateniesi di Aristotele i capitoli dedicati a Pisistrato presentano in una luce non ostile l'amministrazione del tiranno e, anche in questo caso, non sarebbe mancato il riferimento a una iniziativa importante come la fondazione di una biblioteca. Del resto, nel VI secolo a.C. non esistevano le condizioni culturali per una biblioteca pubblica. Che poi Pisistrato fosse un collezionista privato di libri non è attestato da nessuna fonte e sarebbe stato inopportuno che il signore di Atene non avesse messo a disposizione dei suoi sudditi, o almeno degli intellettuali che gravitavano nella sua cerchia, il suo patrimonio librario e, ancora una volta, questa notizia non sarebbe sfuggita a contemporanei e posteri" (Emilio Bertocci, cit., p. 8).

[17] Guglielmo Cavallo, Introduzione a Le biblioteche nel mondo antico e medievale, cit. p. VIII.

[18] Guglielmo Cavallo, Cultura scritta e conservazione del sapere, cit., p. 30.

[19] Lionel Casson, Biblioteche del mondo antico, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2003, p. 30.

[20] Questa determinazione cronologica è resa possibile dal fatto che nell'anno 405 a. C. furono rappresentate per la prima volta Le rane di Aristofane.

[21] Lionel Casson, cit., p. 30.

[22] Ibid., p. 34.

[23] Tönnes Kleberg, cit., p. 28. Un'opinione opposta viene invece espressa da Eric Turner, il quale ritiene che "tale commercio fosse piuttosto modesto": secondo lo studioso infatti "l'autore in persona sovrintende alla messa in circolazione della sua opera e riserva a se stesso quel tanto di proprietà letteraria che, secondo la concezione degli antichi, era ammissibile che fosse connessa con un libro. Se avesse fatto ricorso al commercio librario, questi vantaggi avrebbero potuto essere messi a repentaglio senza alcun corrispettivo (non certo delle percentuali sugli utili: nessun autore dell'antichità ricavò dei quattrini da un editore). Non sappiamo nemmeno se nell'Atene del V secolo vi fu qualcuno che si sia assunto le funzioni di editore, se vi fu cioè una persona disposta a sostenere il rischio di produrre molte copie prima di sapere se sarebbe stata qualche richiesta dell'opera di un dato autore da parte del pubblico [...]. Tutto quel che sappiamo è che si parla di libri tra le merci imbarcate sulle navi, e che ad Atene si comprano e vendono libri" (Eric G. Turner, cit., p. 21-22).

[24] Ibid., p. 29.

[25] Lionel Casson, cit., p. 34-35.

[26] Ibid.

[27] Eric G. Turner, cit., p. 15.

[28] La testimonianza è dello scrittore greco Ateneo, riportata da Eric G. Turner a p. 15 del suo citato contributo.

[29] Giuseppe Cambiano, cit., p. 74.

[30] Ibid., p. 75.

[31] Guglielmo Cavallo, Cultura scritta e conservazione del sapere, cit., p. 32-33.

[32] Guglielmo Cavallo, Introduzione a Libri, lettori e pubblico nel mondo antico, cit., p. XVI.

[33] Protagora infatti, scrive Diogene Laerzio, accusato di empietà "fu bandito dagli ateniesi; e i suoi libri furono bruciati nella piazza del mercato dopo che per mezzo di un araldo erano state requisite tutte le copie a coloro che le possedevano, uno per uno" (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, vol. 2, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 374)

[34] Tali testimonianze sono, nell'ordine, di Senofonte e di Euclide di Megara, entrambi citati da Konstantinos Staikos a p. 85.

[35] Eric G. Turner, cit., p. 24.

[36] Guglielmo Cavallo, Cultura scritta e conservazione del sapere, cit., p. 31.

[37] Giuseppe Cambiano, cit., p. 78.

[38] Ibid.

[39] Ibid.

[40] Come annota Diogene Laerzio: "dicono alcuni, tra cui anche Satiro, che scrisse a Dione in Sicilia di comprargli i tre libri pitagorici di Filolao per cento mine" (Diogene Laerzio, cit., v. I, p. 103).

[41] Alfredo Serrai, Le classificazioni. Idee e materiali per una teoria e per una storia, Firenze, Olschki, 1977, p. 1.

[42] Ibid.

[43] Ibid., p. 1-3.

[44] Il termine italiano categoria deriva dal corrispondente latino categŏria, a sua volta derivante dalla lingua greca antica e dal relativo contesto culturale nel quale è stato coniato ed impiegato. Nello specifico, esso è derivato da katẽgoría tradotto con accusa, imputazione, predicato, attributo derivato di katẽgoréõ, tradotto io accuso, mostro, indico, affermo, asserisco, composti a loro volta da katá ed agoréno (io parlo, esprimo, dico); in Categoria (filosofia), da Wikipedia, l'enciclopedia libera, <https://it.wikipedia.org/wiki/Categoria_(filosofia)>. Sull'argomento si veda, tra l'altro, l'importante contributo di Fernando Gil Categorie/categorizzazione, in Enciclopedia Einaudi, volume secondo, Torino, Einaudi, 1977, p. 804-822.

[45] Il termine, scrive Carlo Marchini, viene ad assumere di volta in volta il significato di "determinazione universale di un principio che venga inteso come essere o come pensiero", ma anche la "forma secondo la quale un ente esiste, oppure secondo la quale è oggetto di attribuzione", o ancora "come punto di vista secondo cui si pensano o si giudicano le cose" (Carlo Marchini, Il problema della classificazione. Evoluzione del concetto di categoria da Aristotele a Kant ed applicazioni alla Matematica dei secoli XIX e XX. Lezioni di Epistemologia e Storia della Matematica I/1, p. 1, <http://old.unipr.it/arpa/urdidmat/SSIS/Marchini/2%b0anno/Categorie.pdf>).

[46] Ibid.

[47] Ibid., p. 1-2.

[48] Sull'argomento si veda fra l'altro Ingemar Düring, Aristotele, edizione italiana aggiornata, Milano, Mursia, 1976; Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. 4, Aristotele e il primo Peripato, Milano, Bompiani, 2004; Adolf Trendelenburg, La dottrina delle categorie in Aristotele; con in appendice la prolusione accademica del 1833 De Aristotelis categoriis. Prefazione e saggio introduttivo di Giovanni Reale; traduzione e saggio integrativo di Vincenzo Cicero, Milano, Vita e Pensiero, 1994; Marina Bernardini, Analisi e commento delle Categorie di Aristotele, Università degli Studi di Macerata, Corso di Dottorato di ricerca in Storia della Filosofia, 2011, <http://ecum.unicam.it/368/1/Analisi_e_commento_delle_Categorie_di_Aristotele.pdf>.

[49] Come vedremo di seguito, "le Categorie sono una sezione dell'immensa produzione di Aristotele, raggruppata da Andronico di Rodi nel complesso chiamato Organon". In Categorie (Aristotele), Wikipedia, l'enciclopedia libera, <https://it.wikipedia.org/wiki/Categorie_(Aristotele)>.

[50] Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, vol. II, Torino, Utet, 1962, p. 875.

[51] R. Loredana Cardullo, Aristotele. Profilo introduttivo, Roma, Carocci, 2007, p. 26.

[52] Categorie (Aristotele), in Wikipedia, cit. In effetti, nota Loredana Cardullo, "il discorso aristotelico non si limita alle implicazioni logico-linguistiche della dottrina delle categorie, ma presenta importanti ricadute anche sul piano ontologico. Difatti, i significati più universali a cui le dieci parole o 'predicati' (dal sostantivo greco plurale kategoriai e dal verbo kategoreîn che in senso tecnico-filosofico significa 'predicare', ossia 'attribuire un predicato ad un soggetto') rinviano, costituiscono allo stesso tempo anche i generi sommi dell'essere, poiché il linguaggio e il pensiero sono – secondo il filosofo – rivelativi dell'essere e poiché fra l'ambito logico/linguistico (quello delle parole), l'ambito mentale (dei concetti) e quello ontologico (delle cose), esiste una precisa corrispondenza, che – diversamente da quanto pensavano i sofisti – rende possibile pensare e comunicare l'essere" (ibid.).

[53] Le dieci categorie aristoteliche, <http://www.skuola.net/filosofia-antica/aristotele-dieci-categorie.html>.

[54] Come scrive infatti Marina Bernardini, "la realtà che Aristotele intendeva indagare gli si presentava come già configurata nella struttura del linguaggio. Il pensiero, infatti, non può essere qualcosa di completamente autarchico e libero che faccia uso delle parole come meri strumenti a sé asserviti: ogni qualvolta cerchiamo di analizzare gli schemi del pensiero, ci imbattiamo ancora in categorie linguistiche. Questo non significa, tuttavia, che la sfera del pensiero e la sfera del linguaggio siano perfettamente sovrapponibili; è vero, piuttosto, che spesso si creano degli scomodi scarti che provocano ambiguità e ostacolano la comunicazione. Un tale gap non è misconosciuto da Aristotele, il quale, però, più che alla sfera del pensiero, è interessato alla sfera del reale, ed è ben consapevole che, poiché è impossibile parlare presentando gli oggetti e le cose come sono nella realtà dei fatti, l'uomo fa uso di simboli: i nomi" (Marina Bernardini, Analisi e commento delle Categorie di Aristotele, Università degli Studi di Macerata, Corso di Dottorato di ricerca in Storia della Filosofia, 2011, <http://ecum.unicam.it/368/1/Analisi_e_commento_delle_Categorie_di_Aristotele.pdf>).

[55] Alfredo Serrai, cit., p. 3-4.

[56] Si rinvia, per le opportune precisazioni, alla prima parte del nostro contributo, <https://www.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xviii-1/santoro.htm>.

[57] Enrico Berti, La classificazione aristotelica delle scienze in Pietro d'Abano, "Trans/Form/Ação", Universidade Estadual Paulista, Departamento de Filosofia, 37, 3, Sept./Dec. 2014, <http://www.scielo.br/scielo.php?pid=S0101-31732014000300004&script=sci_arttext>.

[58] Tratta da Scuola Popolare di Filosofia - Macerata, <http://scuolapopolaredifilosofiamacerata.blogspot.it/2015/05/30-aprile-lezione-10-aristotele-prima.html>.

[59] Carlo Natali, Bios theoretikos. La vita di Aristotele e l'organizzazione della sua scuola, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 122. L'autore riporta la testimonianza di Diogene Laerzio, secondo cui "anche Favorino, nel secondo libro delle Memorie, afferma che Aristotele comperò le opere di Speusippo per tre talenti", e questa notizia è ripresa da Aulo Gellio, il quale scrive che "anche di Aristotele si dice che comperò pochi libri del filosofo Speusippo, dopo la morte di questi, al prezzo di tre talenti attici" (ibid).

[60] Come avviene ad esempio nei Topici in cui, parlando delle dimostrazioni dialettiche, Aristotele afferma che è necessario "raccogliere le premesse a partire dai discorsi scritti, e tracciare le tabelle per ciascun genere […]. Si annotino poi anche le opinioni dei singoli, per esempio che Empedocle disse che vi sono quattro elementi dei corpi. Infatti si potrebbe sempre porre [come premessa ] quanto detto da qualcuno famoso" (ibid., p. 122).

[61] Ibid., p. 121.

[62] R. Loredana Cardullo, cit., p. 17.

[63] Ibid.

[64] Miniatura da un manoscritto miscellaneo di opere di Aristotele, Roma, 1457 (Cod. vindob. phil. gr. 64).

[65] Come rileva Ingemar Düring, "la biblioteca di Aristotele costituiva una sua proprietà personale [...]. Se vogliamo prestar fede alla tradizione antica, dobbiamo ammettere che il Peripato non possedesse alcuna vera biblioteca di scuola; naturalmente Stratone e i suoi successori Licone ed Aristone avevano delle copie personali di certe opere di Aristotele e di Teofrasto, ma la biblioteca era sempre di proprietà dello scolarca, perché la scuola non aveva carattere pubblico né capacità giuridica" (Ingemar Düring, cit., p. 47).

[66] Della biblioteca di Alessandria parleremo diffusamente nella terza parte di questo lavoro.

[67] Constantinos Sp. Staikos, cit., p. 114. In effetti Ingemar Düring conferma che "le opere scritte da Aristotele e conservate a noi nel Corpus Aristotelicum riempivano un tempo 106 rotoli di papiro, se contiamo un rotolo per ogni libro (biblion)"; di queste, la maggior parte "sono manoscritti di lezione, alcune sono appunti per suo uso personale, e furono stese forse per servire da traccia per le lezioni; solo poche sono destinate con certezza direttamente alla lettura". Al tempo stesso però lo studioso ribadisce che "soltanto pochi di questi 106 rotoli furono pubblicati ed erano disponibili nelle librerie quando Aristotele era ancora vivo. In realtà, non abbiamo dei termini precisi di confronto, perché questa letteratura si è sviluppata in una situazione unica" (Ingemar Düring, cit., p. 43).

[68] Occorre precisare che il catalogo di Diogene Laerzio consiste in un lungo elenco (157 titoli) che non corrisponde affatto alla ripartizione ipotizzata da Staikos, la quale, come vedremo, si deve ad Andronico da Rodi (cfr. Diogene Laerzio, cit., v. 1, p. 170-174). Al riguardo Ingemar Düring richiama il punto di vista dello studioso belga Paul Moraux, secondo cui quello lasciatoci da Diogene Laerzio era il "catalogo delle opere di Aristotele che si trovavano in possesso del Peripato, compilato da Aristone di Ceo, il quale fu scolarca della scuola peripatetica intorno al 226/225. È comunque chiaro", conclude Düring, "che il compilatore di questo catalogo non conosce il nostro Corpus Aristotelicum" (Ingemar Düring, cit., p. 46).

[69] Constantinos Sp. Staikos, cit., p. 114. Anche su questo punto è utile riportare il parere di Ingemar Düring, il quale ritiene che Aristotele "nelle 106 opere pervenuteci abbia fissato per iscritto tutta la sua dottrina. Non abbiamo alcun fondamento per supporre che nelle numerose opere che sono andate perdute abbia esposto opinioni diverse o si sia occupato di settori della scienza diversi da quelli illustrati nelle opere conservate. Non esiste, in questo senso, un "Aristotele perduto"" (Ingemar Düring, cit., p. 43).

[70] Constantinos Sp. Staikos, cit., p. 115.

[71] Ibid.

[72] Carlo Natali, cit., p. 127. In realtà tale edizione riguarda le opere acroamatiche (cioè destinate all'ascolto) del filosofo: "nate dal suo insegnamento, dalle sue lezioni nell'ambito della scuola, indirizzate a una cerchia ristretta di iniziati ai problemi scientifici, ovvero ai suoi discepoli (ma senza perciò implicare alcun carattere segreto): esse si distinguono dagli scritti dedicati a un pubblico più ampio, detti essoterici" (Acroamatiche, opere, in "Dizionario di filosofia - Treccani", <http://www.treccani.it/enciclopedia/opere-acroamatiche_(Dizionario_di_filosofia)/>).

[73] Ampi ragguagli della vicenda sono forniti, tra gli altri, da Ingemar Düring, cit., p. 47-52.

[74] Nella voce di Wikipedia dedicata a Teofrasto si legge infatti che questi "fu a capo della scuola peripatetica per 35 anni, fino alla sua morte nel 287 a. C. Sotto la sua guida la scuola conobbe un grande sviluppo, tanto che arrivò a contare circa 2000 studenti. Anche Menandro fu tra i suoi discepoli. La sua popolarità è ben chiara se si pensa al riguardo e alla stima che per lui mostrarono Filippo, Cassandro e Tolomeo, e alla sua capacità di sottrarsi all'accusa di empietà che gli era stata rivolta. Alla sua morte fu onorato con un funerale pubblico, durante il quale, secondo Diogene Laerzio, tutta la popolazione ateniese seguì il feretro" (Teofrasto, in Wikipedia, l'enciclopedia libera, <https://it.wikipedia.org/wiki/Teofrasto>).

[75] Citazione desunta da Carlo Natali, cit., p. 126.

[76] Ibid., p. 127. Va ricordato che Stratone, "originario della città di Lampsaco, posta sulla riva sud dello stretto dei Dardanelli, studiò ad Atene, dove fu allievo di Teofrasto. Verso il 300 a.C. fu chiamato ad Alessandria d'Egitto come precettore del futuro Tolomeo II Filadelfo, carica che occupò fino al 294 a. C." (Stratone di Lampsaco, in Wikipedia, l'enciclopedia libera, <https://it.wikipedia.org/wiki/Stratone_di_Lampsaco>).

[77] Come infatti vedremo nella terza parte di questo lavoro, le principali fonti sulla biblioteca di Alessandria non fanno alcun cenno a questa notizia.

[78] Oltre a ciò, scrive Carlo Natali "abbiamo altre notizie sulla presenza di libri di Aristotele in vari luoghi del mondo greco durante il secolo IV. Pare che Eudemo avesse a Rodi una copia della Metafisica ed una copia della Fisica. Molto probabilmente aveva anche l'Etica che da lui prese il nome, e forse gli Analitici. In una lettera di Epicuro si citano gli Analitici e la Fisica di Aristotele, che Epicuro evidentemente conosceva" (Carlo Natali, cit., p. 127).

[79] Strabone, citazione desunta da Carlo Natali, cit., p. 128-129.

[80] Ibid., p. 129. Di opinione opposta, come vedremo di seguito, è Ingemar Düring, per il quale la tradizione originata dalla testimonianza di Strabone ha più di un fondamento storico (Ingemar Düring, cit., p. 51).

[81] Ibid., p. 50-51.

[82] Ibid.

[83] Citazione desunta da Ingemar Düring, cit., p. 52. Difatti, scrive lo studioso, quando Porfirio "dovette ordinare e pubblicare gli scritti del suo maestro Plotino, si trovò di fronte a un compito simile a quello di Andronico. Il suo materiale si presentava come una serie di manoscritti di lezioni prive di titolo; egli dunque prese a modello Andronico, la cui edizione di Aristotele gli era ben nota" (ibid.).

[84] A cui Andronico assegna il titolo, forse da lui stesso inventato, di Organon, cioè "strumento della scienza" (ibid., p. 54).

[85] R. Loredana Cardullo, cit., p. 20-21.

[86] R. Loredana Cardullo, cit., p. 20.

[87] Ibid.

[88] Ibid., p. 21.

[89] Ibid.

[90] Ibid.

[91] Ibid. Con il tempo, prosegue l'autrice, il termine metafisica "assunse anche un significato filosofico tecnico, denotando una disciplina che ha per oggetto di studio realtà che trascendono (anche in dignità) l'ambito naturale (da metà inteso, in questo caso, come "oltre"): dai principi primi al divino".

[92] Ibid.




«Bibliotime», anno XVIII, numero 2 (luglio 2015)

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