«Bibliotime», anno XVIII, numero 3 (novembre 2015)

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Claudio Gnoli e Riccardo Ridi

It and bit. Nessi fra alcune teorie dell'informazione, della conoscenza, del documento e della realtà



Abstract

The different senses of the term 'information' in physical, biological and social interpretations, and the possibility of connections between them, are addressed. Special attention is paid to Hofkirchner's unified theory of information (UTI), proposing an integrated view in which the notion of information gets additional properties as one moves from the physical to the biological and the social realms. In the paper UTI is compared to other views of information, especially to two theories complementing several ideas of it: the hypertextual docuverse theory (HDT) and the integrative levels theory (ILT). Two alternative applications of the complex of these three theories are discussed: a pragmatical, hermeneutic one, and a more ambitious realist, ontological one. The latter can be extended until considering information ('bit') together with matter-energy ('it') as a fundamental element in the world.

1. Introduzione [1]

Il concetto di informazione è tanto onnipresente nella cultura contemporanea quanto ancora privo di una definizione univoca accettata dagli specialisti di tutte le discipline coinvolte, e quindi applicabile ad ogni ambito di indagine. Gli ingegneri delle telecomunicazioni che misurano entropia e ridondanza dell'informazione trasmessa attraverso un canale fisico, gli informatici che confrontano le capacità di elaborazione dell'informazione di più computer, i biologi che cercano di decifrare le informazioni contenute nel DNA degli organismi viventi e i paleontologi che invece cercano di ricavarle dai fossili, i linguisti che studiano i modi in cui può strutturarsi l'informazione scambiata fra esseri umani e gli storici che utilizzano qualsiasi tipo di informazione per tentare di ricostruire il nostro passato, i giornalisti che "fanno informazione" e i bibliotecari che aiutano i propri utenti a rintracciare e valutare le informazioni di cui hanno bisogno, stanno davvero parlando tutti della stessa entità? Oppure sarebbe meglio distinguere almeno - come propone Michael K. Buckland (2012) - fra l'informazione "come cosa" (i documenti), l'informazione "come processo" (l'apprendimento) e l'informazione "come conoscenza" (ciò che viene appreso)?

E, più in generale, ha senso parlare delle informazioni come se fossero qualcosa di oggettivamente esistente anche nella natura inanimata, oppure si tratta di fenomeni che si verificano solo in presenza di un organismo vivente in grado di percepirle, comprenderle, produrle e diffonderle volontariamente? O ancora: le informazioni sono gestibili e studiabili solo quando si materializzano in "documenti" sufficientemente stabili e condivisibili oppure ha senso inseguirle anche nelle strutture delle organizzazioni sociali e aziendali e nei meandri dei sistemi nervosi centrali e periferici, se non addirittura fino a quella misteriosa ed ipotetica entità immateriale che chiamiamo "coscienza"?

Fra i numerosi tentativi di rispondere a queste difficili domande (per una panoramica si vedano Capurro - Hjørland 2003, Salarelli 2012b e Ridi 2015) ce n'è uno, elaborato da Wolfgang Hofkirchner attraverso vari testi e convegni, a partire da un articolo in collaborazione della metà degli anni Novanta (Fleissner - Hofkirchner 1996) fino ad un più recente volumetto divulgativo (Hofkirchner 2010), noto come "teoria unificata dell'informazione" (UTI: Unified Theory of Information), che ci pare sufficientemente semplice, chiaro ed esplicativo da risultare particolarmente convincente e degno di approfondimento.

Come cercheremo di argomentare nelle successive sezioni, tale teoria mostra notevoli punti di consonanza, o quanto meno di compatibilità, con altri due orientamenti teorici indipendenti (fra loro e rispetto all'UTI) relativi all'informazione e alla conoscenza, ovvero quello che equipara l'intero universo a un insieme di documenti ipertestuali connessi fra loro e quello che attribuisce alla realtà (o quanto meno alla conoscenza della realtà raggiungibile dagli esseri umani) una struttura basata su una serie di livelli di crescente complessità.

L'obbiettivo fondamentale di questo contributo è mostrare come queste tre teorie si rafforzino a vicenda e come esse, nel loro complesso, possano condurre a positive ricadute negli ambiti della filosofia dell'informazione, della filosofia della classificazione e della filosofia della conoscenza.

2. La teoria unificata dell'informazione (UTI)

La difficoltà preliminare di qualsiasi teoria generale sul concetto di informazione consiste nel dover scegliere fra tre alternative, tutte insoddisfacenti (Capurro 2009, p. 134):

a) o peccare di univocità, riconducendo ogni genere di informazione a quella più semplice (ovvero alla mera esistenza di qualcosa che distingua un'entità fisica da un'altra, come ad esempio il colore che differenzia le biglie in un sacchetto), cadendo così in una forma di riduzionismo che non riesce a spiegare in modo convincente fenomeni informativi più sofisticati;

b) o applicare impropriamente il ragionamento analogico, attribuendo ad ogni genere di informazione le caratteristiche specifiche dei processi comunicativi umani, peccando di antropocentrismo;

c) o peccare infine di equivocità, considerando i vari generi di informazione come entità del tutto indipendenti, studiabili solo da discipline differenti e minando alla base la possibilità stessa di una scienza unitaria dell'informazione.

L'UTI ritiene di poter sfuggire a tale trilemma, opponendosi sia al riduzionismo di chi tende a ricondurre sempre il nuovo al vecchio e il tutto alle sue parti che all'olismo di chi, inversamente, nega qualsiasi legame fra vecchio e nuovo e fra le parti e il tutto (Fleissner - Hofkirchner 1996, p. 244). Il concetto chiave che consente tale superamento è quello dell'evoluzione naturale. Evolutivo, infatti, è il processo che coinvolge, in un universo incessantemente ed inevitabilmente dinamico, tutte le entità i cui reciproci rapporti siano concettualizzabili sotto forma di quelli sussistenti fra "elementi" (o "nodi"), "sistemi", "reti" e le loro reciproche "connessioni" (links).

Le entità che evolvono sono elementi dinamici, sistemi dinamici composti da elementi e dalle loro relazioni e reti dinamiche composte da sistemi e dalle loro relazioni. [Partendo da una rete indistinta di entità qualsiasi, può capitare che] alcuni nodi inizino a creare fra loro connessioni più forti che con gli altri nodi, formando così una relazione coerente, convergendo e creando connessioni con gli altri nodi solo collettivamente e non direttamente. Quando ciò avviene, tali nodi stanno costruendo un sistema di cui essi stessi costituiscono gli elementi, e di cui le loro interconnessioni rappresentano le relazioni elementari. I restanti nodi e le restanti connessioni diventano l'ambiente del sistema, che entra in contatto coi nodi elementari solo attraverso il sistema complessivo (Fleissner - Hofkirchner 1996, p. 245).

In questo modo dalla (e nella) rete emergono, evolutivamente, dei sistemi che non sono "altro" dalla rete stessa, ma che non sono neppure completamente riducibili ai vecchi nodi e alle vecchie connessioni della rete, in quanto costituiscono essenzialmente un nuovo modo in cui la rete si è riorganizzata, sotto le spinte dei cambiamenti ambientali, per adeguarsi meglio alla nuova situazione. In tale dinamica evolutiva sono distinguibili tre livelli:

1) il micro-livello relativo al modo in cui gli elementi appartenenti a un sistema sono connessi fra loro, costituendo la struttura (o organizzazione) interna del sistema stesso;

2) il meso-livello, relativo allo stato (ovvero alle caratteristiche) del sistema nel suo complesso:

3) il macro-livello relativo al modo in cui ciascun sistema interagisce con l'ambiente di cui fa parte, mettendosi in relazione con gli altri sistemi, insieme ai quali costituisce una rete.

A ciascuno di tali livelli l'UTI fa corrispondere uno dei tre principali stadi che possono essere raggiunti dai sistemi informazionali:

1) a livello meramente fisico (Hofkirchner 2010, p. 85-87) l'informazione ha caratteristiche esclusivamente sintattiche, come avviene alle biglie colorate contenute in un sacchetto, che possono casualmente disporsi in mille modi diversi, ciascuno diverso e distinguibile dall'altro anche in assenza di una volontà ordinatrice e di un codice che renda tale ordine significativo per qualcuno;

2) a livello biologico (Hofkirchner 2010, p. 89-92) emergono le caratteristiche semantiche dell'informazione, che gli esseri viventi sono capaci di codificare e decodificare (si pensi al codice genetico del DNA o alla danza con cui le api si scambiano notizie sulla localizzazione del cibo) per aumentare le proprie probabilità di sopravvivenza;

3) a livello di società umana (Hofkirchner 2010, p. 95-97) si aggiungono le caratteristiche pragmatiche, tipiche dei sistemi culturali e spesso mediate da tecnologie documentarie, che permettono di accumulare e conservare le informazioni e di utilizzarle per prendere decisioni relative anche a fini diversi dalla mera sopravvivenza e per modificare l'ambiente esterno.

Al primo livello, proprio dei sistemi meramente meccanici, gli aspetti informazionali coincidono coi semplici rapporti di tipo causa/effetto propri della materia e dell'energia, e qualsiasi informazione contenuta nel sistema (come ad esempio la configurazione in cui le biglie si dispongono nel sacchetto) non è altro che l'effetto diretto di cause esterne al sistema stesso. Ma, a partire dal secondo livello, anche il sistema (che adesso è definibile come un organismo vivente) contribuisce a determinare tali effetti, ovvero a produrre informazione (Fleissner - Hofkirchner 1996, p. 248).

Ciascuno stadio si basa sul precedente, nel senso che non potrebbe sussistere senza di esso, ma non è neppure ad esso completamente riconducibile e riducibile. Se le biglie avessero tutte la stessa forma, dimensione, peso, temperatura, colore, odore e posizione non potrebbero ospitare alcuna informazione; e solo se un organismo percepisse l'informazione che alcune di esse sono rosse, morbide e profumate potrebbe cercare di mangiare quelle che gli ricordano dei frutti; ma solo degli esseri umani possono inventare un gioco o un codice militare segreto basato sul loro colore e sulla loro disposizione su un tabellone [2].

Riguardo al dibattito sull'oggettività o soggettività dell'informazione (Ridi 2015) si può notare che le pur sensate critiche rivolte da Birger Hjørland (2007) alle tesi di Marcia J. Bates (2005), secondo le quali si potrebbe già considerare informazione anche ciò che, se si rimane al mero livello fisico, non potrebbe invece - per Hjørland - informare nessuno su niente perché non esiste alcun organismo in grado di essere informato, possono essere superate dall'UTI e da analoghi approcci unitari ai vari significati del termine "informazione" semplicemente denominando "dati" [3] o "atomi informativi" le informazioni esclusivamente sintattiche corrispondenti al livello 1 dell'UTI e "dati contestualizzati" o "dati significativi" le informazioni semantiche del livello 2, ponendole in un reciproco rapporto dialettico (Ridi 2010, p. 3-6).

In fondo, utilizzando il linguaggio di Hjørland (2007, p. 1449), l'approccio oggettivistico al concetto di informazione, secondo il quale "qualsiasi differenza è informazione", e quello soggettivistico, per cui "l'informazione è una differenza che fa differenza (per qualcuno o per qualcosa o da un punto di vista)", piuttosto che in rapporto di negazione reciproca possono essere visti come due stadi successivi del medesimo processo, proprio come previsto dall'UTI. Ciò, fra l'altro, risulterebbe coerente con l'approccio dell'HDT illustrato nella prossima sezione, in base al quale tutto è potenzialmente un documento, ma lo diventa davvero (ovvero comincia a essere trattato come tale) solo nel momento in cui qualcuno lo considera davvero un documento, in quanto effettivamente (e non solo potenzialmente) informativo.

3. La teoria del docuverso ipertestuale (HDT)

Anche le teorie del documento (Lund 2009), così come quelle dell'informazione, devono affrontare la sfida del trilemma di stampo aristotelico proposto da Capurro (2009, p. 134). Anch'esse, infatti, devono scegliere se estendere ad ogni tipo di documento (inclusi, ad esempio, i fossili dei dinosauri) le caratteristiche proprie dei documenti creati e utilizzati dagli esseri umani nell'ambito delle proprie attività comunicative (come, ad esempio, i libri e i film) oppure se andare alla ricerca di caratteristiche così minimali e universali da poter essere rintracciate anche nei documenti non prodotti volontariamente dagli umani per scopi comunicativi, oppure ancora se teorizzare che il termine "documento" assume una pluralità di significati piuttosto diversi a seconda del suo ambito di applicazione.

La soluzione ipotizzata a tale riguardo da Ridi (2007) coniugando alcune distinte teorie sulla natura soggettiva dei documenti (Briet 1951, Buckland 1997), sull'ipertestualità (Antinucci 1993, Bolter 2001) e sulla potenziale pervasività e omogeneità dell'universo documentario (Nelson 1990) in quella che potremmo qui battezzare "la teoria del docuverso ipertestuale" (HDT: Hypertextual Docuverse Theory) è sintetizzabile nelle due affermazioni:

a) tutto è (potenzialmente) documento;

b) ogni documento è ipertestuale.

La prima affermazione, basata sulla classica definizione del documento riportata da Buckland (1997, p. 805) come "qualsiasi fonte di informazione, in forma materiale, che possa venire utilizzata come riferimento o per studio o come un'autorità", costituisce una sorta di "principio di indeterminazione documentaria", secondo il quale ogni osservatore in un certo senso crea i propri documenti poiché qualsiasi oggetto (in quanto anche solo minimalmente informativo, almeno per determinati aspetti e in determinate circostanze) può essere considerato un documento, ma è solo quando emerge una specifica volontà (personale o, a maggior ragione, sociale) di usare, consultare, studiare, conservare e catalogare una determinata entità come fonte di informazione che essa, osservata sub specie documenti, diventa davvero tale (Ridi 2007, p. 16-17; Ridi 2012, Salarelli 2012a).

La seconda affermazione si basa invece su un'articolata definizione dell'ipertestualità (Ridi 2007, p. 31-41), che mostra numerosi punti di contatto con le caratteristiche strutturali dei livelli informazionali previsti dall'UTI. Secondo tale definizione un ipertesto è un testo non unilineare (e quindi multilineare), ovvero un documento che non deve necessariamente essere letto seguendo un unico ordine stabilito in anticipo dall'autore, ma che può invece essere percorso a piacimento dal lettore, il quale se ne rende così in una certa misura coautore, in quanto egli crea un proprio itinerario personale nel passare da un punto all'altro del documento stesso.

Ogni ipertesto può quindi essere visto come una rete formata da nodi informativi che sono collegati fra loro da connessioni (links) liberamente percorribili dai fruitori dell'ipertesto stesso. L'ipertestualità non è una caratteristica discreta, che si possiede oppure no, ma fa riferimento ad un continuum che procede senza salti da un livello minimo a uno massimo; quindi esistono documenti dotati di ipertestualità maggiore (come le voci delle enciclopedie o le pagine web) o minore (come i romanzi e le poesie). Un documento unilineare è solo un caso particolare di documento multilineare molto semplice, così come il numero 1 è solo un caso di numero molto semplice. Tutti i testi - quindi - sono ipertesti, più o meno complessi.

La premessa fondamentale dell'ipertestualità è la granularità, che è la caratteristica posseduta dai documenti scomponibili in parti più piccole, ma ancora dotate di senso ed utilizzabili autonomamente, come ad esempio accade ad una enciclopedia e alle sue singole voci. Solo se un documento è scomponibile in tanti nodi, tali nodi potranno poi essere collegati fra loro in tanti modi diversi.

Altre due importanti componenti dell'ipertestualità sono l'integrabilità e l'interattività. Integrabilità significa indefinita estensibilità, ovvero la caratteristica per cui, seguendo le connessioni di un ipertesto (e passando quindi di nodo in nodo) si può arrivare ovunque, procedendo all'infinito, senza mai raggiungere una fine (o un inizio). L'interattività (o malleabilità) è la possibilità, da parte del lettore, di intervenire creativamente sul documento, aggiungendo materiale (ovvero nodi) o disegnando nuovi percorsi (ovvero connessioni), entrambi non previsti dall'autore.

La multimedialità, infine, può essere una caratteristica solo dei nodi (che possono essere dei testi in senso stretto, oppure immagini, suoni, filmati o loro miscele [4]) oppure anche della struttura delle connessioni, che può basarsi su schemi, diagrammi, immagini o altre organizzazioni spaziali di tipo non testuale.

Dalle premesse a) e b) derivano logicamente la terza e la quarta tesi dell'HDT, relative alla totalità dei documenti esistenti, denominabile "docuverso" (Nelson 1990; Ridi 2010, p. 134-138):

c) universo e docuverso (potenzialmente) coincidono;

d) entrambi sono leggibili come ipertesti.

Tali conseguenze rendono ancora più esplicita la consonanza fra HDT e UTI, poiché in entrambe le teorie:

1) nodi, connessioni e reti sono concetti centrali;

2) le strutture informative assumono la forma di ipertesti man mano sempre più complessi;

3) l'intero universo viene sostanzialmente ridotto alla sua struttura informativa, che si rivela di natura ipertestuale.

4. La teoria dei livelli di integrazione (ILT)

L'approccio evoluzionistico, se applicato alla totalità dei fenomeni conosciuti anziché a specifici domini come l'astronomia o la linguistica, conduce a concezioni ontologiche che cercano di connettere ogni cosa in una sola catena evolutiva. In tal modo i fenomeni possono essere ordinati in una serie di livelli caratterizzati da un crescente livello di organizzazione. Ciò in molti casi implica anche un crescente livello di complessità, benché esistano eccezioni, come nel caso dei parassiti. Volendo essere più precisi si potrebbe dire che ciascun livello è dotato di una maggiore "profondità logica" (Bennett 1987) rispetto ai livelli precedenti, poiché è stato superato un maggior numero di gradini evolutivi prima che esso abbia potuto realizzarsi.

Concezioni di questo tipo possono essere rintracciate in molti autori, nella storia della filosofia (Juarrero - Rubino 2008), ma esse si sono particolarmente diffuse dopo la pubblicazione delle opere di Charles Darwin, Auguste Comte e Herbert Spencer. Tali autori hanno ispirato la scuola dell'evoluzionismo emergentista dell'inizio del ventesimo secolo, eminentemente rappresentata da Samuel Alexander e Conwy Lloyd Morgan (Blitz 1992).

Esplicite teorizzazioni di una articolazione della realtà in "livelli di integrazione" [5] (ILT: Integrative Levels Theory), ciascuno dei quali basato sui livelli precedenti ma al tempo stesso dotato di una propria autonomia e di caratteristiche autenticamente innovative, sono state successivamente formulate dal biochimico Joseph Needham (1943), dallo psicologo James K. Feibleman (1954) e, nell'ambito della tradizione della filosofia tedesca, dall'ontologo Nicolai Hartmann (1940).

Teorie dei livelli sono state inoltre adottate da vari sviluppatori di sistemi di classificazione bibliografica. In effetti, nel contesto delle discipline bibliografiche, biblioteconomiche e delle scienze dell'informazione, i livelli integrativi possono risultare assai utili come principio per ordinare sia le discipline che i loro oggetti di studio in un ragionevole ordine di crescente "specialità", ovvero di crescente organizzazione e stadio evolutivo (Richardson 1901, Bliss 1929, Dahlberg 1978, Foskett 1978, Gnoli 2006, Gnoli - Hjørland 2009).

Benché le varie applicazioni differiscano nei dettagli e vari problemi rimangano aperti alla discussione, è possibile rintracciare uno schema generale comune a tutti tali sistemi di classificazione, che iniziano con soggetti molto generali, come la filosofia o la matematica, e procedono poi attraverso la fisica, la geologia, la biologia, l'ecologia, la psicologia e la sociologia fino alle scienze umane come la storia e la letteratura.

Il numero dei livelli previsti da tali sistemi di classificazione appare influenzato sia dalla tradizione (a ciò che viene studiato da una disciplina consolidata si tende ad attribuire una classe autonoma) che dai metodi notazionali adottati dai sistemi stessi (i sistemi che usano lettere, come la Bliss Bibliographic Classification, hanno circa 25 classi principali, mentre quelli che usano cifre, come la Information Coding Classification, ne hanno 10).

Ciò potrebbe suggerire che l'individuazione e il numero dei livelli siano puramente convenzionali. Tuttavia è anche possibile adottare un approccio opposto, di tipo ontologico: i livelli potrebbero coincidere con classi di fenomeni osservati nel mondo reale che condividono di fatto lo stesso insieme di categorie (Poli 2010). Le categorie ontologiche corrispondono alle faccette di una classe principale nelle classificazioni bibliografiche: ad esempio la classe degli organismi viventi è tipicamente dotata di organi e funzioni, mentre quella delle società è tipicamente dotata di ruoli e cerimonie.

Da questo punto di vista l'UTI è particolarmente interessante perché permette di utilizzare i suoi tre tipi di informazione come un criterio esplicito e non idiosincratico per individuare tre livelli evolutivi:

  1. il regno dei fenomeni nei quali l'informazione è solo una configurazione di elementi che dipendono passivamente da influenze esterne costituisce il livello fisico;
  2. il regno dei fenomeni nei quali, inoltre, l'informazione è capace di modificare lo stato interno dei fenomeni stessi (come nel caso dell'informazione genetica che controlla l'omeostasi di un organismo) costituisce il livello biologico;
  3. il regno dei fenomeni nei quali l'informazione è capace di modificare non solo lo stato interno, ma anche l'ambiente esterno ai fenomeni stessi, costituisce il livello socio-culturale.

Qualcosa di simile era stato adombrato anche dal biologo François Jacob (1970), che aveva osservato come le principali transizioni evolutive, come quella dalla materia alla vita e quella dalla vita alla mente, coincidono con l'apparizione di un differente meccanismo di memorizzazione: la vita è possibile solo quando si rende disponibile la memoria genetica, e la mente è possibile solo quando si rende disponibile la memoria neurale. Quindi, poiché la memoria non è altro che immagazzinamento di informazioni, anche in questa prospettiva l'informazione giocherebbe un ruolo cruciale nell'identificazione dei principali livelli.

Ispirandosi all'intuizione di Jacob e confrontandola con le varie teorie dei livelli che sono state proposte da vari autori si potrebbe estendere da tre a cinque l'elenco dei livelli principali, considerando anche il linguaggio umano e i media registrabili come ulteriori forme di informazione e memorizzazione.

Livello

Memoria

Unità

Variabilità

Pressione

Selezione

materia

negentropia

particelle

biforcazione

probabilità

stabilità

vita

genoma

caratteri

mutazione

ambiente

adattamento

mente

pensiero

nozioni

apprendimento

esperienza

rilevanza

società

linguaggio

usanze

innovazione

competizione

successo

patrimonio culturale

mezzi di comunicazione

documenti pubblici

teorie

critica

recezione

Figura 1: i cinque livelli principali (strati) dei fenomeni e i corrispondenti fattori evolutivi.

Ogni volta che appare un nuovo tipo di memoria si innescano nuovi processi evolutivi di generazione di variabilità, di pressione ambientale e di selezione naturale. Per esempio, a livello sociale, l'apparizione del linguaggio come forma di memoria orale permette di rappresentare caratteristiche dell'ambiente e di condividere informazioni su di esse, provocando lo sviluppo di una varietà di usanze sociali, politiche ed economiche. Le innovazioni sono una fonte di variabilità che può essere condivisa e diffusa attraverso la memoria orale. Tuttavia esse devono competere con usanze alternative, sotto la pressione selettiva dell'ambiente naturale e sociale, cosicché solo alcune di esse otterranno un buon successo e una larga diffusione nello spazio e nel tempo.

Occorre aggiungere che, mentre tali livelli coprono solo le principali transizioni evolutive, l'ILT e le classificazioni basate su di essa ne includono anche altre, minori, come il passaggio dagli atomi alle molecole o quello dalle tribù agli stati nazionali. Non è chiaro se l'informazione giochi un ruolo importante anche in questi casi. Ad esempio, nella versione di Hartmann (1940) dell'ILT i livelli principali, come quello materiale e quello organico, vengono chiamati "strati" e sono connessi fra loro da una relazione ontologica di "sovracostruzione", mentre quelli minori, come quello atomico e quello molecolare, vengono chiamati "layer" e si connettono attraverso una diversa relazione di "sovraformazione", dove solo la prima tipologia di relazione appare associata con nuove forme di informazione e memorizzazione.

5. Alcuni pro e contro di UTI, HDT e ILT

Né UTI né HDT né ILT sono teorie scientificamente dimostrate (né - probabilmente - dimostrabili), e nessuna di esse è attualmente predominante nei rispettivi ambiti accademici e professionali. In ciascuna di esse, inoltre, sono riscontrabili alcune debolezze, come ad esempio l'eccessiva enfasi attribuita dall'UTI alla libertà (che interverrebbe già a livello biologico e ancora più potentemente a livello culturale ogni volta che si produce dell'informazione autenticamente nuova, laddove il determinismo è invece attualmente l'orizzonte concettuale prevalente in ambito sia scientifico che filosofico) e dall'HDT all'ipertestualità (che in fondo è solo una delle tante caratteristiche proprie dei documenti, oltretutto preminente soprattutto nel recentissimo ambiente digitale).

Un'altra rilevante critica, rivolgibile sia all'UTI che all'ILT, è quella di considerare netti e discreti una vasta serie di "confini" che invece spesso si presentano come vaghi e continui. Storicamente si è discusso a lungo sul punto, il modo e il tempo del passaggio dalla materia inanimata alla vita, e tuttora i virus vengono talvolta considerati una sorta di anello di congiunzione fra composti chimici e organismi biologici.

Inoltre non è poi così ovvio né che alcune specie di animali non umani non abbiano mai sviluppato forme di produzione e trasmissione culturale, né che essi non modifichino anche pesantemente e permanentemente l'ambiente in cui vivono, nè che la civiltà umana abbia effettivamente sviluppato fini davvero radicalmente diversi rispetto a quello, naturalissimo, della sopravvivenza della nostra specie.

Per non parlare, infine, dell'ultramillenaria discussione - da Democrito fino a Damasio (2010) - sulla maggiore o minore continuità fra mente e corpo. Anche il numero dei livelli (o strati) in cui si articolerebbe la realtà secondo l'ILT può essere visto come un suo punto critico, nel senso che l'estrema varietà di tale cifra nelle diverse versioni di tale approccio (e, da questo punto di vista, anche l'UTI può essere vista come una versione di ILT applicata alle strutture informative, con il valore in questione pari a 3, numero che in questa teoria ricorre con frequenza quasi cabalistica) non depone certo a favore della loro oggettività.

Ciascuna di tali teorie è però dotata di una coerenza interna e di una forza esplicativa tali da giustificarne, a nostro avviso, se non l'eventuale pretesa (peraltro non sempre esplicitamente avanzata dai rispettivi autori) di descrivere la reale struttura dell'universo, quanto meno quella di proporsi come uno schema concettuale proficuamente utilizzabile per comprendere, classificare e unificare una serie di fenomeni che altrimenti risulterebbero disordinati, dispersi e scarsamente afferrabili (o comunque per offrirne una chiave di lettura diversa da quelle canoniche). Tale funzione ermeneutica non può che risultare suffragata e rafforzata dai numerosi punti di consonanza fra le tre teorie che speriamo siano emersi nel corso della nostra trattazione, mostrando come l'UTI sia un particolare tipo di ILT basato sull'ipertestualità.

Un approccio "ermeneutico", volto cioè a favorire una serie di utili interpretazioni della realtà, senza la pretesa di coglierne, una volta per tutte, la più autentica essenza, sdrammatizzerebbe, fra l'altro, la questione del numero degli strati in cui tale realtà dovrebbe oggettivamente strutturarsi. Infatti, se lo scopo è semplicemente quello di creare una griglia concettuale generale su cui possano appoggiarsi ontologie e classificazioni settoriali, in modo da incrementarne coerenza, economia e interoperabilità (Gnoli - Szostak 2014), allora da una parte il numero (e l'identificazione) degli strati potrebbe cambiare in base al contesto applicativo e agli obbiettivi che ci si pongono e dall'altra sarebbe probabilmente meglio sceglierne una cifra non troppo esigua, in modo da recepire la maggior parte delle proposte avanzate in letteratura e da costruire una base più ospitale per eventuali traduzioni o compresenze di schemi classificatori diversi.

Se invece l'obbiettivo fosse quello di fornire alla filosofia dell'informazione una base concettuale utile per cercare di integrare in modo coerente i vari significati del termine "informazione", allora (applicando il rasoio di Occam) sarebbe forse meglio limitarsi al numero minimo di strati che consenta tale integrazione e, poiché l'UTI e gli altri autori citati nella nota 2 ci sono riusciti in modo ragionevolmente plausibile con tre, non si vede perchè se ne dovrebbero postulare di più.

 

6. It da bit, bit da it, it con bit

Chi invece considerasse l'approccio ermeneutico troppo relativista e postmoderno e, anche sull'onda del recente dibattito sul "nuovo realismo" (Ferraris 2012, D'Agostini 2013, Ridi 2015), preferisse azzardare una spiegazione metafisica su come il mondo sia fatto "davvero", potrebbe essere tentato da una ulteriore riduzione del numero degli strati, che a questo punto però sarebbe forse meglio chiamare "sostanze" o "attributi", rinunciando sia a collocarli in un ordine progressivo basato sulla complessità o sulla successione cronologica sia a farli emergere uno dall'altro.

In tale ottica "il mondo sembrerebbe fluire in parallelo, a vari livelli di descrizione; ciò può lasciare perplessi e certamente non si è obbligati a farselo piacere, ma credo che faremmo tutti meglio a imparare a conviverci" (Fodor 1997, p. 162), proprio come accadrebbe nei confronti di un universo spinoziano composto da infiniti attributi paralleli, due soli dei quali (pensiero e materia) fossero accessibili agli umani.

A questo punto i più radicali potrebbero attingere dal vasto catalogo dei "monismi metafisici" offerti dalla filosofia classica (dal "tutto è acqua" di Talete fino al "tutto è volontà" di Schopenhauer) oppure, soprattutto se professionalmente coinvolti in ambiti connessi con le scienze dell'informazione e l'organizzazione della conoscenza, farsi affascinare dal più recente "tutto è informazione", declinato con qualche variante, fra gli altri [6], da Wiener (1961), Landauer (1967), Davies (2010), Floridi (2011) e dal celebre fisico John Archibald Wheeler (1990), a cui si deve l'efficace motto "it da bit" (it from bit).

It da bit. Ovvero ogni "it" – ogni particella, ogni campo di forza, perfino lo stesso continuum spazio-temporale – deriva la propria funzione, il proprio significato e la propria stessa esistenza (anche se in alcuni contesti indirettamente) da risposte indotte da un qualche apparato che formula domande del tipo sì o no, ovvero scelte binarie, i "bit". "It da bit" simboleggia l'idea che ogni elemento del mondo fisico abbia a suo fondamento – un fondamento molto profondo, nella maggior parte dei casi – una fonte e una spiegazione immateriali, e che ciò che chiamiamo realtà sorga in ultima analisi dal porre domande del tipo sì o no e dal registrare le risposte così provocate. In breve, che tutte le cose fisiche abbiano una origine informativa-teorica (Wheeler 1990, p. 5).

Figura 2: Tobia Ravà, Sistema entropico, 2008, stampa litoserigrafica acquistabile presso la libreria Calmadimare <http://www.calmadimare.it/libreria/tobia-rava-sistema-entropico-grafica-50x70/> di Rubano (Padova), che pur essendo ispirata, come molte altre opere dello stesso artista, alla tradizione esoterica ebraica (Trevisan 2008), ci pare anche particolarmente rappresentativa del profondo rapporto sussistente, secondo vari autori citati nel nostro articolo, fra materia (it) e informazione (bit).

Un compromesso fra questo approccio e il più tradizionale e realista "bit da it" (bit from it) (Barbour 2011), che assegna alle entità fisiche una decisa priorità rispetto a ogni genere di informazione, potrebbe essere costituito da una forma di dualismo metafisico sintetizzabile col motto "it con bit" (it with bit) che, semplificando la proposta di Stonier (1990) di identificare nella materia, nell'energia e nell'informazione gli elementi ultimi costitutivi dell'universo alla luce della sostanziale equivalenza posta dalla fisica contemporanea fra massa ed energia (si veda la celebre equazione einsteniana E=mc2) ipotizzerebbe due elementi fondamentali alla base di ogni realtà: da una parte l'it di Wheeler, ovvero tutto ciò che Aristotele avrebbe considerato semplicemente "materia", ma che oggi troviamo sparpagliato nei manuali di fisica sotto decine di denominazioni (dalla massa all'energia, passando per le onde elettromagnetiche, la forza di gravità e persino quella strana cosa impropriamente denominata anti-materia), e dall'altra ciò che Aristotele chiamava "forma" (Cappelletti 1974, p. 303-308; Clayton 2010, p. 42-43; Montagnini 2015, p. 53) e che noi potremmo chiamare organizzazione, configurazione (pattern), struttura, ordine, ordinamento o informazione, ovvero il bit di Wheeler.

L'universo, dunque, sarebbe fatto di "qualcosa" (it) "ordinato in un qualche modo" (bit), ovvero, in termini aristotelici, costituirebbe un "sinolo" indissolubile di materia (potenza) e forma (atto) (Longo - Vaccaro 2013, p. 173-175), come del resto viene suggerito dall'etimologia stessa del termine information, che viene dal latino informatio, che indicava anche e soprattutto il procedimento del "dare forma", in senso sia tangibile che intangibile (Capurro - Hjørland 2003, p. 350-353).

E, per saldare ulteriormente le tre teorie che abbiamo illustrato e confrontato nelle precedenti sezioni, non sarebbe forse corretto notare che, se accettassimo la radicalizzazione di UTI e ILT rappresentata dall'ipotesi "it con bit", il concetto che meglio di qualunque altro si presterebbe ad esemplificare la natura sia dell'intero universo che di ogni sua singola parte sarebbe quello del documento, ovvero di un pezzo di materia che contiene informazioni, in quanto "ordinato" in un certo modo, assicurando così un senso non più solo soggettivo ma anche oggettivo all'equazione "universo = docuverso" proposta dall'HDT? D'altronde lo stesso Aristotele, per spiegare il rapporto fra materia e forma, non usava proprio l'esempio di una statua (Clayton 2010, p. 41-42; Montagnini 2015, p. 56), ovvero di un tipico documento?

In ogni caso va ricordato che l'ipotesi "it con bit" resta compatibile sia con l'UTI che con qualsiasi altra teoria (sia ontologica che epistemologica) sui livelli della realtà che preveda un qualsiasi numero di livelli e che consenta il parallelismo fra ciascuno di tali strati ed una particolare modalità di organizzazione dell'informazione. In tale prospettiva la filosofia si accontenterebbe di ipotizzare che i componenti fondamentali della realtà sono due (la materia e l'informazione), lasciando alle varie discipline scientifiche, inclusa quella che si occupa di individuare i migliori modi per classificare il sapere (l'organizzazione della conoscenza), la valutazione di quante e quali siano, allo stato attuale delle conoscenze umane, le diverse modalità di organizzazione della materia (ovvero le diverse strutture informative che possono dare forma alla materia stessa) sufficientemente diverse, rilevanti e utili da giustificare la postulazione (in senso debole, ovvero euristico, come del resto dovrebbe sempre avvenire in ambito sia scientifico che classificatorio) di un diverso e distinto strato della realtà.

Claudio Gnoli, Biblioteca della scienza e della tecnica - Università degli studi di Pavia, e-mail: claudio.gnoli@unipv.it
Riccardo Ridi, Dipartimento di studi umanistici - Università Ca' Foscari, Venezia, e-mail: ridi@unive.it


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Note

[1] La prima versione di questo articolo è stata scritta nella primavera del 2012, quando i suoi autori scoprirono (in Salarelli 2012b, allora appena pubblicato) una teoria (UTI) che poteva costituire una sorta di anello di congiunzione fra altre due teorie che stavano loro particolarmente a cuore (ILT per Gnoli e HDT per Ridi). Il progetto iniziale era di proporlo come relazione per CoLIS 8 <http://iva.ku.dk/english/research/colis_8/>, ovvero per l'ottava International conference on conceptions of library and information science, che si sarebbe tenuta nell'agosto del 2013 a Copenhagen, ma quando è emerso che nessuno di noi due avrebbe potuto recarsi in Danimarca in quel periodo, abbiamo deciso di provare a sottoporlo all'autorevole Journal of documentation, peraltro diretto da uno dei membri del comitato scientifico di CoLIS 8, cioè David Bawden. L'articolo fu inviato alla rivista una prima volta nel settembre 2012 e una seconda - dopo aver accolto alcuni dei consigli inviatici nel febbraio successivo da due revisori anonimi, aggiungendo alcune pagine e numerosi riferimenti bibliografici - nell'aprile del 2013. A quel punto l'articolo venne immediatamente accettato, anche se la pubblicazione in forma provvisoria avvenne solo a dicembre 2013 e quella in veste definitiva a luglio dell'anno successivo (Gnoli - Ridi 2014). Quest'anno, mentre stavamo preparando il nostro intervento per il settimo Incontro ISKO Italia <http://www.iskoi.org/doc/bologna15.htm>, che si è tenuto a Bologna il 20 aprile 2015, ci siamo resi conto che forse anche la prima versione del testo, più compatta e lineare, poteva risultare utile - con piccoli aggiustamenti e aggiornamenti - per sottolineare con maggiore chiarezza le nostre argomentazioni, sfrondandole dagli approfondimenti suggeriti dai revisori, e per rendere accessibili anche in lingua italiana alcune premesse del nostro intervento bolognese e del suo successivo resoconto (Ridi 2015), pubblicato nel precedente numero di Bibliotime. Benché sia il lavoro di ricerca che quello di scrittura siano stati condotti in piena collaborazione, le sezioni 1, 4 e 5 vanno attribuite principalmente a Claudio Gnoli e le sezioni 2, 3 e 6 soprattutto a Riccardo Ridi. Le traduzioni non diversamente attribuite sono nostre e tutti gli URL sono stati verificati il 19 ottobre 2015.

[2] È degno di nota che anche Stonier (1990, 1992, 1997), Bates (2005) e Bawden (2007) siano giunti, indipendentemente dall'UTI di Hofkirchner, ad analoghi risultati, individuando tre livelli (fisico, biologico e sociale) di organizzazione dell'informazione, legati fra loro attraverso un processo evoluzionistico di emergenza dal più semplice al più complesso.

[3] Come del resto fa Bates (2005) quando scrive che "gli animali percepiscono dati, non informazioni".

[4] E' importante sottolineare che non solo i testi in senso stretto (composti di lettere e numeri) possono essere ipertesti, ma anche qualsiasi altro tipo di documento, purché dotato, in misura maggiore o minore, di queste cinque caratteristiche. I documenti digitali, essendo spesso dotati di tali proprietà più di quelli tradizionali, vengono più spesso considerati ipertestuali, ma a rigore anche i documenti tradizionali possono esserlo: basti pensare ai rinvii interni di una enciclopedia, alle citazioni e ai riferimenti bibliografici di un saggio scientifico, agli indici di un libro a stampa o ai cataloghi e alle bibliografie, che in fondo non sono altro che documenti che ci conducono verso altri documenti.

[5] Traduciamo così l'originale inglese integrative levels, seguendo l'esempio fornito da Luigi Crocetti in occasione del seminario L'indicizzazione: problemi e prospettive dell'approccio semantico all'informazione, Fondazione Collegio San Carlo, Modena, 16 dicembre 2002 <http://biblioteca.fondazionesancarlo.it/fondazione/Viewer?cmd=attivitadettaglio&id=2182>.

[6] Per una panoramica (da Pitagora fino alle recenti teorie di Edward Fredkin, Gregory Chaitin e Stephen Wolfram) sulla cosiddetta "filosofia digitale", che introduce l'informazione fra gli elementi costitutivi fondamentali della realtà, cfr. Pagallo (2005) e Longo - Vaccaro (2013).




«Bibliotime», anno XVIII, numero 3 (novembre 2015)

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