[AIB] AIB. Sezione Toscana. Bibelot, n. 3 (1999)

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Il punto di vista di Paul Ginsborg, storico e frequentatore di biblioteche

LA CULTURA DEL SERVIZIO E LE BIBLIOTECHE ITALIANE

Intervista a cura di Elisabetta Francioni e Alessandro Sardelli

Paul Ginsborg, uno dei più importanti studiosi della storia del nostro Paese, è professore ordinario di Storia dell'Europa contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell'Ateneo fiorentino. Nato a Londra nel 1945, vive a Firenze dal 1992, è sposato, ha 3 figli e abita in Oltrarno, quartiere storico ad alta densità di abitanti di origine inglese. Dei suoi scritti pubblicati negli ultimi anni ricordiamo Dialogo su Berlinguer (scritto con Massimo D'Alema, Giunti, 1994) e Storia d'Italia 1943-1996: famiglia, società, Stato (Einaudi, 1998).
Fra i suoi hobby: l'opera lirica e la raccolta dei funghi.

Da quando vive e lavora in Italia che idea si è fatto delle biblioteche e degli archivi, e di quelli toscani in particolare?

Ho iniziato a frequentare le biblioteche e gli archivi italiani nel 1967-68, a 22 anni, quando passai un intero anno a Venezia per la mia tesi di dottorato su Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49. In quel periodo indimenticabile ho trovato negli istituti una grande varietà di situazioni (di cui ho a suo tempo parlato sul Gazzettino e anche in appendice al mio libro): dalla Biblioteca del Museo Correr che funzionava bene, all'Archivio comunale dove si conviveva con i topi che facevano dei buchi incredibili nei documenti, alla straordinaria Querini Stampalia che restava aperta sino a mezzanotte, alla Biblioteca Comunale di Vicenza dove una dottoressa si ostinava a non capire che, come straniero,avevo il tempo limitato e non potevo vedere una lettera per volta... Non ho, invece, una grande conoscenza delle biblioteche toscane, e mi dispiace: conosco bene la Nazionale di Firenze, (che in periodi di intenso lavoro diventa quasi la mia abitazione), un poco la Marucelliana, e la Biblioteca del British Institut; questo perché non ho fatto ricerche sulla Toscana contemporanea, salvo il libro sulla Valdelsa (Un'Italia minore, scritto con F. Ramella, Giunti, 1999) che ho pubblicato recentemente e che mi ha dato modo di conoscere la nuova biblioteca comunale di Poggibonsi, che mi sembra deliziosa, e dotata di personale preparato. Ecco, una delle cose più interessanti della provincia italiana è scoprire che ci sono delle persone che lavorano bene, in silenzio, e che spesso fanno delle cose bellissime.

Come frequentatore di biblioteche in funzione della sua attività professionale, come giudica l'offerta di servizi bibliotecari in Italia?

La mia esperienza, come quella di molti stranieri, non è positiva. Quando sono arrivato in Italia ero reduce dall'esperienza di biblioteche inglesi e americane che sono veramente aperte al pubblico, che hanno una cultura bibliotecaria come cultura di servizio, questa è la chiave, e una volta arrivato in Italia, ho riflettuto molto su questi aspetti. Ho capito subito che qui vigeva una cultura di conservazione, e solo secondariamente di servizio; anche se devo dire che le cose negli ultimi anni stanno lentamente ma costantemente cambiando. La logica di molte biblioteche italiane è una logica tutta interna, è come se la biblioteca fosse organizzata per altre ragioni, per altre finalità che non quelle di rapportarsi all'utenza; c'è un'incapacità fortissima ad avere un atteggiamento esteriorizzante, cioè di mettersi a disposizione del pubblico. Quello che colpisce moltissimo uno studioso inglese o americano è la mancanza di sensibilità verso una serie di problemi basilari: prima di tutto gli orari, ristretti e addirittura antisociali, perché tagliano fuori tutto il mondo del lavoro, e anche gli stessi studiosi, che trovano insopportabile non avere almeno una sala aperta di una biblioteca nazionale per poter continuare a studiare il sabato pomeriggio e la domenica. Il personale non è formato ad un atteggiamento di disponibilità e di aiuto verso i lettori; per esempio una biblioteca come la Nazionale di Firenze dovrebbe avere un servizio per gli stranieri, che a volte non parlano bene l'italiano: io mi sono trovato tante volte a fare l'interprete nelle sale, perché vedevo persone in ovvie difficoltà. E poi le regole assurde, i divieti: solo 2 o 3 libri per volta nella sala di lettura della BNCF: lo studioso ha bisogno di tanti libri sul tavolo contemporaneamente! Io non chiedo un'assenza di regole, anzi. Alla British Library, fin dai tempi di Panizzi, la regola era fino a 12 volumi, e quando il grande storico Thomas Carlyle ne chiese 20 gli fu risposto: no! Che tu sia Carlyle o la Regina Vittoria, hai diritto a 12 libri, come tutti gli altri! In una Nazionale come Roma se uno vuole consultare 12 libri deve fare richieste in almeno 3 sale diverse: ma vi rendete conto della follia di queste cose? Un'altra cosa che noi stranieri sempre commentiamo delle biblioteche italiane è l'atteggiamento gerarchizzante nei confronti degli utenti, questa separazione tra la Sala generale di lettura e le Sale riservate (cosa che esiste alla Braidense, come alla BNCF e alla Marucelliana, ma non ad esempio alla Library of Congress, dove io ho studiato accanto addirittura a dei barboni).
Non parlo naturalmente di materiale prezioso o raro che è giusto salvaguardare e dare in lettura con cautela e a chi abbia certe credenziali, parlo di materiale otto-novecentesco, che è quello che io consulto: in una sala riservata lo stesso tipo di materiale lo si può vedere con tutta una serie di privilegi (più richieste, possibilità di tenere i libri in deposito sul tavolo, non dover riconsegnare tutto solo per uscire a prendere un caffè, ecc.). Poi a tutto ci si abitua, se la regola ferrea è questa: figuriamoci, io ormai faccio parte dei privilegiati, sono nella cosiddetta gerarchia! Ma non lo trovo giusto, e mi impegno e lotto perché queste disuguaglianze vengano a cadere: se proprio si deve mantenere questa divisione (che a quanto pare in Italia si è radicata storicamente) che perlomeno ci siano diritti uguali per tutti. In una sala generale di lettura può entrare uno che può essere benissimo un Balzac, che ne sappiamo noi chi è?! Ecco perché, di fronte a disuguaglianze e disservizi di ogni tipo, ogni tanto la gente si muove (troppo poco, purtroppo): questo è stato il senso dell'Associazione dei lettori della Biblioteca Nazionale di Firenze, e della petizione che gli studenti hanno presentato alla direzione la scorsa primavera. È il segno che qualcosa sta cambiando, anche se molto lentamente.

A proposito di cambiamenti, vede segnali positivi da parte del Ministero per i beni e le attività culturali e del Governo stesso, in ambito di politica bibliotecaria? Per farLe una domanda maliziosa, visto che Lei è un uomo di sinistra, quale dovrebbe essere una politica di sinistra (ammesso che esista) per le biblioteche?

Io vedo che oggi c'è una malattia, che è quella dell'infatuazione rispetto alle novità, cioè si segue quello che è nuovo senza apprezzare e valorizzare maggiormente quello che già c'è: sento per esempio delle sparate sulla biblioteca che cesserà di esistere perché c'è Internet. Mi colpisce quanto poco conta la biblioteca in Italia, per esempio dentro il Ministero, dove è un settore di intervento assolutamente marginale, non abbastanza apprezzato e valutato. Con Veltroni si è cominciato a dare un'impostazione nuova, però poi quello che si vede è che si dà molta importanza ai musei e poco alle biblioteche. Io credo che la sinistra dovrebbe fare una cosa basilare, e cioè aprire le biblioteche, intendo dire prolungare gli orari (ma non con quelle sperimentazioni che sono durate 3 mesi!), perché il primo servizio è essere aperti. Per il personale da adibire si potrebbe operare una semplificazione, creando un misto di volontari e staff professionale, e magari in alcune ore offrire un servizio ridotto. Mi chiedete che cos'è un'idea di sinistra per le biblioteche: è una domanda non da poco, ma credo che dovrebbe essere un servizio bibliotecario di base, diffuso, non gerarchizzante come ho detto prima, ma di uguaglianza tra i cittadini per dare a tutti la possibilità di fruire della cultura. E poi, diciamolo pure, è fondamentale trovare i soldi, perché le biblioteche oggi sono le cenerentole della situazione, soprattutto se rapportate ai musei. Per dirigere bene le biblioteche, inoltre, ci vorrebbero dei manager o perlomeno persone che abbiano formazione manageriale, di programmazione, di sfruttamento adeguato delle risorse. Stare dentro l'Europa del ventesimo secolo significa questo: un'idea di capitale culturale da far crescere, le nuove generazioni da abituare all'uso della biblioteca, soprattutto in un momento di crisi del libro nei confronti di altri strumenti come ad esempio i videogiochi...

Vuol dire che c'è una minaccia nei confronti del libro da parte dei nuovi strumenti multimediali, o di Internet?

Io credo nel percorso di ricerca da parte del ragazzo, dello studente. Il videogioco, che i miei ragazzi usano, mette alla prova le capacità, propone dei percorsi in cui bisogna usare la logica, risolvere dei problemi. Non sono contrario a queste cose, ma penso che il percorso di ricerca da un libro ad un altro, il filo che mi porta da una nota a piè di pagina al titolo di una rivista e così via, è un'avventura infinitamente più affascinante e formativa delle possibilità date da un videogioco, che alla fine sono molto più prevedibili. Io vedo i miei studenti quando partono con un filone di ricerca e si appassionano, è un'avventura che batte tutti i videogiochi, perché è più bello, più eccitante, più straordinario: partiamo da uno spunto, ma chissà dove arriveremo, cosa troveremo tra i 6 milioni di libri della Nazionale di Firenze? Rispetto a Internet non sono un utilizzatore diretto, è un fatto generazionale, posso dire di essere un... dinosauro, cioè sono arrivato in ritardo, ho già fissato il mio modo di lavorare, che è tradizionale perché amo ancora usare la penna per scrivere a mano le mie schede di lavoro, anche se naturalmente scrivo i miei libri al computer. Credo che ci sia un problema di digestione di tutto quello che offre Internet, spesso ci si ferma alla ricerca degli strumenti e non si passa mai ai contenuti. È un po' come quando sono venute in auge le fotocopie: si fotocopiava tutto e questo sembrava già in qualche modo aver fatto la ricerca, poi le fotocopie spesso non si leggevano neanche! Nonostante questo, non sono scettico: vedo che ci sono orizzonti straordinari, come ad esempio la localizzazione dei libri in biblioteche lontane, anche se non sempre è chiaro come usare questi cataloghi (quello dell'Istituto Universitario Europeo di Fiesole, ad esempio, è molto user friendly, ma non tutti sono così). Il problema è istruire gli utenti su come si usa lo strumento, fare dei corsi per spiegare da dove si parte e dove arrivare: credo che sia questo il compito del bibliotecario di oggi. Se non si fa questo, credo che siano solo fughe in avanti, per coprire l'incapacità di risolvere i problemi antichi delle biblioteche.

Che cosa pensa dei bibliotecari italiani, in particolare del loro livello di professionalità? Ci sono dei cambiamenti negli ultimi anni, e come li giudica?

Bisogna distinguere tra cultura imperante e singoli bibliotecari: io ho visto tante volte i bibliotecari italiani adoperarsi per aiutare gli utenti, ma qui non stiamo parlando di individui bensì di un sistema. Il rischio è, nella situazione attuale, che l'accesso dell'utente alla biblioteca passi attraverso la discrezionalità del bibliotecario, su criteri di simpatia, o perché la persona è potente, o ha una reputazione, e non sui criteri dell'uguaglianza. Questo io l'ho scritto più volte nei miei libri: è una cultura radicata nella Pubblica Amministrazione, questa, e le biblioteche la rispecchiano in pieno.

Anche in Italia, con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi europei, si sta diffondendo il concetto di Qualità: aziende di ogni tipo, ma anche enti di erogazione servizi, si orientano verso indagini di customer satisfaction, Sistemi Qualità, richieste di Certificazione. Avverte il rischio che - specialmente nel settore pubblico - ci si possa trovare di fronte ad operazioni di facciata, che non incidono nella struttura delle organizzazioni? E che cosa pensa della Carta dei Servizi di cui si comincia a parlare da qualche tempo anche nelle biblioteche?

Come storico ho un profondo scetticismo rispetto alle misure formali: una carta dei servizi è certamente importante e sacrosanta, ma non illudiamoci che le cose cambino per il fatto stesso che esista. La carta dei servizi c'è anche negli ospedali, ma poi i diritti dei malati... Il problema è a monte: ci deve essere una nuova cultura di formazione delle nuove generazioni di bibliotecari italiani. Per restare in tema di sanità, è come per gli infermieri: sia ben chiaro, io qui non faccio un discorso nazionalista su come è bella l'Inghilterra e come tutto va male in Italia (anche perché sono felicissimo di vivere qui), ma c'è una profonda differenza tra il senso del servizio dell'infermiere inglese rispetto a quello italiano, anche perché nel primo caso dietro c'è un training, c'è formazione, per arrivare a quello che si offre al paziente (e la stessa cosa vale per il medico, naturalmente). Ripeto, tra i bibliotecari italiani ci sono persone splendide come preparazione e capacità, ma non c'è in generale questa sensibilità, non esiste nella vostra cultura questo face to face con l'utente. La carta dei servizi può servire innanzitutto se è conosciuta dagli utenti stessi: quando un nuovo utente entra in biblioteca gli dovrebbe essere consegnata, insieme ad una guida di orientamento ai servizi e alle sezioni della biblioteca, altrimenti è una cosa del tutto formale e retorica. Io però, più che a queste cose, credo profondamente nel capitale umano, nella formazione del personale, che è il primo passo. E con personale intendo anche i custodi, che costituiscono il primo impatto dell'utente con la biblioteca, impatto che è sempre negativo perché questo personale nelle biblioteche italiane è molto scadente, è il meno capace di aiutare, è lontano anni luce da quella figura che alla Library of Congress ti rivolge la semplice ma fondamentale domanda Can I help you?. Nessuno qui dice mai Posso aiutarLa? Posso dare assistenza?, mentre si affrettano a dire non può fare questo o quello, non può entrare in quella sala, deve lasciare la borsa, ecc. In conclusione, tornando alla domanda, è nel capitale umano che inizia il vero gioco, non sui pezzi di carta.

E degli Uffici Relazioni con il pubblico che cosa pensa? Ha mai avuto modo di rivolgersi ad uno di essi, in una biblioteca?

Io penso che spesso si cambia nome agli uffici, ma non si cambia niente nella sostanza. Mi sono rivolto, a volte, agli URP delle biblioteche e anche qui ho trovato situazioni diverse, che variavano a seconda dalle capacità manageriali del dirigente. In generale questi uffici a volte funzionano e a volte no, ad esempio quello dell'ospedale fiorentino di Careggi l'ho sperimentato e funziona, mentre quello sul traffico istituito dal Comune di Firenze, no. È ovvio che, prima con Cassese ministro della Funzione Pubblica nel '93-94 e poi con Bassanini, ci sono state tutte una serie di direttive giuste, ma bisogna vedere poi come sono state applicate dai dirigenti. Pensate all'URP della Nazionale di Roma, una biblioteca che è tutta un disservizio: dovrebbe essere preso addirittura d'assalto, e impiegare decine di bibliotecari per sentire tutte le lamentele degli utenti! Ma allora che senso avrebbe? Bisognerebbe piuttosto andare a monte e cambiare radicalmente la struttura.

Ma allora, che strumenti ha l'utente per dire che cosa non va nelle biblioteche?

Il problema non è solo la segnalazione del disservizio. In nessuna biblioteca in cui sono stato in Italia qualcuno mi ha chiesto il mio parere. Faccio un esempio che mi sembra calzante: nella Facoltà di Lettere dove insegno è passata finalmente la proposta di un questionario in cui gli studenti esprimono il loro giudizio sul professore, sul corso, sul metodo didattico seguito. Non avete idea della difficoltà di questa cosa: c'è stata un'autentica rivolta dei professori che non intendevano essere sottoposti al giudizio degli allievi! È questo feedback che fa una fatica enorme a passare, e che è completamente estraneo anche alla cultura bibliotecaria: in Italia non c'è l'idea dell'utente che parla, l'utente è un recipiente, è uno che deve ricevere, non deve parlare. Invece io credo che bisognerebbe cercare di capire le necessità delle diverse utenze, in ogni singola biblioteca; in particolare nelle biblioteche della Toscana, dove c'è un alto numero di stranieri, bisognerebbe avere un occhio di riguardo per chi viene da fuori e magari ha poco tempo perché gli parte un treno. Io vedo quelli che in Nazionale, a Firenze, vengono magari da Milano e hanno un solo giorno a disposizione: diventano pazzi! E non possono rivolgersi a nessuno, ma non per chiedere un favore, semplicemente per economizzare al meglio il proprio tempo per portare avanti la ricerca.

Con le privatizzazioni, di cui tanto si parla, potrebbe secondo Lei cambiare qualcosa?

Anche qui dipende. Il giudizio assoluto per cui Pubblico equivale a spreco, e col Privato invece cambia tutto, mi sembra poco condivisibile. Io ho visto delle strutture pubbliche che funzionano, anche in questo Paese, straordinariamente bene: ma dipendeva dal capitale umano, dalla formazione del personale, da persone serissime che credevano nel servizio che stavano dando. Se prendiamo custodi, bibliotecari, manager, e riusciamo a comunicare una cultura di servizio, un'idea di etica pubblica, di professionalità, l'idea di essere un servitore dello Stato e di essere fiero di questo, allora anche il Pubblico può funzionare e non c'è nessun bisogno di parlare di Privato a tutti i costi.
Ma tutto questo, attualmente, è molto distante dalla cultura della Pubblica Amministrazione. Qui ci sarebbe un lungo discorso da fare, quello del distacco tra Stato e cittadino, tra Pubblica Amministrazione e cittadino, di cui ho parlato in una decina di pagine nel mio libro L'Italia del tempo presente. Bisogna andare indietro alla formazione dello Stato nazionale, e in particolare all'effetto funesto della legge amministrativa che in Italia ordina tutto non sull' informalità e sulla fiducia nel cittadino ma sulla norma, su un apparato complicatissimo di leggi e circolari. Nel 1945, poi, quando tutto avrebbe potuto cambiare, essere rifondato, la riforma della Pubblica Amministrazione non c'è stata, non è stata operata questa svolta. Tornando alle biblioteche, la sfiducia nel cittadino e la complicazione delle norme porta da una parte il funzionario ad essere arroccato su queste, e dall'altra il cittadino a cercare di aggirarle.

Lei si è impegnato più volte in comitati di cittadini e in raccolte di firme: ricordiamo le Sue iniziative per sollecitare il Comune di Firenze ad affrontare il problema del traffico, dell'inquinamento, delle piste ciclabili, ecc., e inoltre la Sua partecipazione all' Associazione dei lettori della Biblioteca Nazionale di Firenze, di cui è stato uno dei fondatori. Quale bilancio traccia di questa esperienza e a quali risultati ha portato?

L'Associazione dei lettori della BNCF è stata fondata circa 5 anni fa, da un gruppo di studiosi che frequentavano quotidianamente la biblioteca. Abbiamo anche pubblicato 4 bollettini, che io conservo, e vi assicuro che sono molto... divertenti, e anche istruttivi. Abbiamo ottenuto delle cose importanti, per esempio la distribuzione dei libri anche di pomeriggio e il fatto di non dover ordinare le riviste dal giorno prima, cosa insopportabile in una Nazionale: dopo un anno di contestazioni e litigi su questo abbiamo vinto, nonostante all'inizio ci fosse stato risposto che era ASSOLUTAMENTE IMPOSSIBILE (cosa evidentemente non vera). È stata una bella esperienza, ma molto difficile: quando abbiamo fondato l'Associazione, molti hanno pensato che eravamo a caccia di favori, che lo facevamo per essere trattati meglio, perché questo è l'atteggiamento distorto del cittadino italiano nei confronti della Pubblica Amministrazione, cioè muoversi per ottenere qualcosa di personale, per aggirare l'ostacolo a proprio personale vantaggio, e non per ottenere diritti certi per sé e per gli altri. Purtroppo questa beata società civile si rivela spesso grottesca, nel senso che è difficile che i lettori si mobilitino compatti per avere delle cose che gli spettano, al massimo si riesce a far firmare una petizione, e quindi con grandissima fatica siamo andati avanti sempre in 10-15 persone. Abbiamo sempre cercato il dialogo con la controparte (che all'inizio ci guardava con paternalismo, come dire ma che carino! come siete bravi!) mantenendo però sempre un atteggiamento di antagonismo, di contestazione, che è irrinunciabile se veramente si vogliono ottenere delle cose, e alla fine siamo stati presi sul serio.

Per concludere, cosa c'è dietro l'angolo per le biblioteche del nuovo millennio?

Per quanto riguarda i bibliotecari io spero che, con la catalogazione automatizzata, non si perda una tradizione importante della professionalità bibliotecaria italiana che è quella della soggettazione. In Italia ho potuto vedere cataloghi cartacei per soggetti che sono bellissimi e fatti benissimo, e che non ho trovato ad esempio alla British Library.
La soggettazione per noi studiosi (e anche per i nostri studenti, quando li indirizziamo in biblioteca a fare ricerche) è una questione di vita o di morte: i soggetti specifici, approfonditi, che accolgono anche termini e concetti attuali dei vari campi disciplinari, sono fondamentali. Non vorrei che si finisse per affidarsi solo alle parole-chiave, che però non sono la stessa cosa del soggetto... non hanno quella ricchezza.
L'augurio che posso fare alle biblioteche italiane è quello di continuare sulla strada del cambiamento, che piano piano comincia a vedersi anche perché ci sono delle persone come voi che hanno capito in che direzione si deve andare: credo che anche il vostro giornale, Bibelot, sia un segno di questo cammino.


Copyright AIB 2000-01-28, ultimo aggiornamento 2000-02-08 a cura di Vanni Bertini
URL: https://www.aib.it/aib/sezioni/toscana/bibelot/b9903i.htm


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