[AIB]

AIB. Commissione nazionale servizi bibliotecari nazionali e tutela


CONSERVARE IL '900
Ferrara, 25-26 marzo 2000

Intervento / Luisa Finocchi

In un recente intervento alla Mostra del libro antico di Milano, Giuseppe Pontiggia ricordava come negli ultimi anni fosse cambiato l'atteggiamento nei confronti del mondo editoriale; superata la concezione di semplice servizio, infatti, alla mediazione editoriale viene riconosciuta una funzione primaria, di scoperta di nuovi autori, promozione di nuovi campi del sapere, allargamento degli orizzonti. E citava come esempio Formiggini, il primo a dare all'umorismo una dignità culturale, o in anni più recenti il ruolo svolto da Adelphi nella riscoperta per il pubblico italiano della cultura mitteleuropea, senza dimenticare che la storia dell'editoria è anche storia del costume, come dimostrano la storia dell'illustrazione o della grafica.

Quello che mi preme sottolineare è che, pur tenendo conto del divenire e trasformarsi della figura e del ruolo dell'editore nel corso del Novecento (dalla figura dell'Editore con la E maiuscola -Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Einaudi ecc.- alla figura dell'intellettuale editore -Gobetti, Formiggini, ma anche De Benedetti, Vittorini, Calvino...-, fino al prevalere della figura del manager editoriale), resta comunque fondamentale il ruolo svolto dalla mediazione editoriale nel suo porsi tra il momento della produzione del testo da parte dell'autore e il momento della sua fruizione da parte del lettore a cui il testo è rivolto, in quella catena che Vittorio Spinazzola ha efficacemente riassunto nel sottotitolo del suo annuario "Tirature" come AUTORE-EDITORE- PUBBLICO.

Tutta la ricchezza e la centralità di questa funzione viene rispecchiata negli archivi degli editori che sono al tempo stesso archivi di impresa e archivi culturali e credo a pieno titolo archivi d'autore, là dove l'autore non è in questo caso lo scrittore ma l'artefice della mediazione editoriale.

In altre occasioni mi sono soffermata sulla straordinaria ricchezza di questi fondi che conservano carteggi tra autori e editori (basti pensare allo strettissimo rapporto che aveva legato per anni Alberto Mondadori a Stefano Arrigo, durante la travagliatissima stesura della sua Horcynus Orca, testimoniato da diversi faldoni di lettere e stesure successive), pareri di lettura (un genere letterario sconosciuto e affascinante, soprattutto quando porta firme autorevoli di critici che in questa sede possono esprimere i loro giudizi in modo diretto), dati di vendita e diffusione (vero termometro dei gusti letterari e della propensione alla lettura oltre che elementi imprescindibili per chi si accosti alla storia dell'editoria utilizzando gli strumenti di indagine propri della storia di impresa), progetti realizzati e progetti rimasti nel cassetto, disegni originali, ecc.

Inoltre non è possibile parlare dell'archivio di una casa editrice senza parlare della sua biblioteca: per un archivio editoriale, infatti, la biblioteca storica non è un'appendice, una sezione a sé stante, ma è parte integrante e inscindibile dell'archivio, vera ossatura della storia della casa editrice.

Esaminare il catalogo di un editore, scriveva Roberto Calasso in un articolo comparso qualche giorno dopo la scomparsa di Einaudi, è l'unico modo per giudicare un buon editore: la scelta dei titoli, ma anche la sequenza in cui vengono proposti e la tenuta nel tempo di queste scelte, sono gli unici criteri possibili per valutare il suo operato.

La biblioteca storica di una casa editrice è a base per la redazione del catalogo storico, un genere che ha avuto recentemente una particolare diffusione. Promosso in occasione dei particolari scadenze commemorative, può prendere in esame tutta la produzione della casa editrice o volutamente scegliere solo un settore (gli economici o una collana come nel recente caso del cinquantenario della BUR, collana nata per iniziativa di Luigi Rusca, passato dalla Mondadori alla Rizzoli nel secondo dopoguerra, e proseguita sotto la direzione di Paolo Lecaldano e Evaldo Violo). Sono molti gli esempi a cui possiamo riferirci, dal catalogo storico della UTET a quello di Vita e Pensiero, dal catalogo della Mondadori a quello del Saggiatore, o ancora a quello curato da Luigi Crocetti per il ventennale delle Edizioni Bibliografiche, in diverse occasioni indicato come un modello di riferimento. Ma ci sono anche cataloghi storici che ricostruiscono la vita di esperienze editoriali cessate, come il recente lavoro di Carlo Carotti dedicato a Corticelli.

I cataloghi storici delle case editrici sono stati riconosciuti come un genere di crescente interesse nel campo della descrizione bibliografica, che meriterebbe, come ha rilevato in diverse occasioni Crocetti, un maggiore approfondimento in vista di una standardizzazione delle norme di stesura.

Quando parliamo di biblioteca storica di un editore intendiamo la raccolta di tutta la produzione dell'editore (con tutte le difficoltà che comporta la definizione di cosa un editore debba conservare, tenendo conto che non sempre è facile distinguere tra nuove edizioni, ristampe, ricopertinature, ecc.), ma non dobbiamo dimenticare che le case editrici spesso conservano altri fondi di straordinario interesse come le biblioteche private degli editori, che consentono di ritrovare le radici dei percorsi culturali che precedono le scelte editoriali (basti come esempio la biblioteca di Roberto Bazlen, che ha posto le fondamenta per lo sviluppo della casa editrice Adelphi); ma non vanno dimenticate le biblioteche specializzate, raccolte negli anni per consentire il lavoro dei redattori, o ancora le raccolte che testimoniano l'attività di import export della casa editrice: si tratta da un latodei volumi in lingua originale utilizzati per le traduzioni in lingua italiana, e dall'altro dei volumi di autori italiani di cui l'editore ha venduto i diritti all'estero e di cui riceve copia per conoscenza al momento della pubblicazione in altri paesi. La raccolta di questi volumi rappresenterebbe, se adeguatamente conservata, un segno della, per quanto troppo spesso flebile, penetrazione della cultura italiana all'estero.

Ma la biblioteca e l'archivio sono soprattutto uno strumento di lavoro per chi opera in casa editrice: in caso di riedizione di un testo, recuperare in primo luogo il contratto, ma anche i pareri di lettura o la rassegna stampa raccolta negli anni, dovrebbe essere una prassi per un buon editor, non eccessivamente stressato dalla mole di lavoro.

Le biblioteche storiche in molti casi forniscono materia prima per le riedizioni, fotografate e riprodotte senza variazioni; questa discutibile abitudine comporta spesso come conseguenza la distruzione di volumi conservati in un'unica copia.

Se l'utilizzo della documentazione in casa editrice rappresenta un fattore di rischio ai fini della conservazione, è vero però che, per un altro verso, può rappresentare anche uno stimolo alla conservazione che andrebbe correttamente incanalato nella giusta direzione, anche grazie a semplici suggerimenti. Ad esempio per le biblioteche storiche, basterebbe costituire due sezioni, una di consultazione e di uso quotidiano e una destinata alla conservazione perenne. Lo stesso Arnoldo Mondadori ci aveva pensato, volendo conservare personalmente, quella che chiamava la Biblioteca degli Intangibili, ovvero una copia di tutti i volumi pubblicati dalla casa editrice Mondadori dal 1912; anche se gli Intangibili negli anni hanno subito furti e smarrimenti, ancora oggi la biblioteca degli Intangibili, composta di circa 30.000 volumi, aggiornata con le nuove edizioni di tutti i titoli (oltre 1000 titoli all'anno), consente di ripercorrere la storia della Mondadori, mentre è compito della Fondazione cercare di recuperare i mancanti.

Ma quello che mette più a rischio la documentazione prodotta nel corso del lavoro editoriale in Italia è il fenomeno di alta concentrazione che contraddistingue il panorama editoriale italiano: oggi, come rileva anche Giuliano Vigini nel suo rapporto sull'editoria, la quasi totalità della produzione è concentrata nelle mani di pochissimi gruppi editoriali: Mondadori, Rcs Libri, Longanesi, De Agostini, UTET.

Cosa succede in questi casi? Cosa accade degli archivi della storica casa editrice Le Monnier di Firenze, da poco acquistata dalla Mondadori? Degli archivi della Mursia, da cui recentemente è stata smembrata la sezione scolastica? O ancora quale sarà il destino dell'archivio della Rusconi Libri, trasferito in seguito alla vendita in Romagna e poi solo in parte tornato a Milano dopo la vendita dei diritti di alcuni volumi, ma non del marchio, alla RCS Libri? E ancora cosa ne è stato del sempre negato archivio Garzanti, che avrebbe dovuto contenere anche le carte Treves, dopo tre trasferimenti ravvicinati?

Per non parlare delle centinaia di case editrici nate in questi ultimi decenni, quando lo sviluppo tecnologico aveva reso alla portata di tutti il mestiere dell'editore; si trattava per lo più di case editrici di piccolissime dimensioni, ma non per questo di minore rilevanza, di cui oggi spesso non rimane alcuna traccia, neppure nelle biblioteche deputate alla conservazione.

Il censimento è parso lo strumento più efficace per intervenire in questa situazione, un censimento rivolto alle case editrici in vita, che si proponesse tre obiettivi: mappare le situazioni a rischio, sensibilizzare il mondo editoriale ai temi della conservazione, fornire consulenze e spazi di conservazione a chi ne facesse richiesta. Promosso dalla Regione Lombardia e affidato alla Fondazione Mondadori per l'area lombarda, è stato poi esteso grazie all'intervento dell'Ufficio centrale per i beni archivistici del Ministero per i beni e le attività culturali a altre quattro regioni (Emilia-Romana, Toscana, Lazio e Campania).

Naturale corollario di questo intervento è stata la volontà espressa dal Ministero di dare vita a una Commissione nazionale formata da autorità competenti in materia di archivi e biblioteche, rappresentanti dell'Associazione italiana editori e del mondo editoriali, con l'obiettivo di definire un titolario e un massimario di conservazione e di scarto per le case editrici: la commissione a sua volta si è articolata in quattro sottocommissioni (archivio corrente, archivi storico, sistemi informativi, biblioteche). Obiettivo, proporre agli editori semplici regole di conservazione, che tengano conto che le case editrici sono imprese e non istituti di conservazione, ma che al tempo stesso consentano di conservare per i ricercatori del futuro la memoria del lavoro editoriale.

C'è ancora molto da discutere per definire meglio il rapporto che deve esistere tra le responsabilità di conservazione assegnate ai privati, gli editori, e i compiti propri delle strutture pubbliche. Come agire correttamente in modo sinergico? E quale ruolo devono rivestire le istituzioni private che a diverso titolo collaborano alla conservazione, per evitare sprechi di risorse e garantire invece risultati concreti, che rispondano alle esigenze di un attento e sempre più esigente pubblico?

La risposta non è facile: certo non si tratta di lottare per "accaparrarsi" nuovi fondi con il rischio di smembrare unità archivistiche e neppure di intervenire episodicamente, sulla spinta di troppo spesso solo presunte emergenze, che altro non fanno che far lievitare i prezzi nel mercato antiquario.

Ho già ricordato l'annuale Mostra del libro antico di Milano dove si poteva trovare documentazione che abbonda, o meglio abbonderebbe, negli archivi editoriali se questi venissero conservati nel modo adeguato, proposta a prezzi che definirei inaccessibili.

In quella sede Andrea Tomasetig, un libraio antiquario milanese, ha lanciato la proposta di un Museo dell'editoria, che potrebbe nascere dall'acquisizione di 4-5 importanti fondi novecenteschi, provenienti da collezioni private, che troverebbero in questa modo una nuova identità, passando da una logica di collezionismo privato al pubblico.

Tralasciando la riflessione su cosa si debba intendere per Museo dell'editoria, là dove la parola museo ha in sé un preciso significato che non può fermarsi alla semplice conservazione, ma si deve arricchire di progetti di ricerca e valorizzazione di quello che conserva, progetti pensati per il pubblico degli studiosi ma anche per il largo pubblico; e tralasciando che un museo dell'editoria deve, a mio parere, essere in primo luogo un museo di impresa, strettamente legato, come l'esperienza di altri musei di impresa ci insegna, alla documentazione archivistica, credo si imponga una riflessione sulle modalità con cui i privati possono contribuire alla conservazione del '900.

In primo luogo, infatti, non si devono dimenticare quelle che sono le specifiche competenze del settore pubblico; le collezioni private, infatti, non dovrebbero sostituirsi ma andare a integrare le carenze delle biblioteche pubbliche destinate alla conservazione: penso ad esempio alla produzione scolastica, o alla produzione rivolta all'infanzia o alle cosiddette pubblicazioni di occasione, spesso trascurate nelle biblioteche nazionali.

Ma sarebbe bene prima di tutto intervenire su quei problemi che sono alla base di queste carenze: la legge sul diritto di stampa, la mancanza di spazi, di risorse, la normativa sul prestito nelle biblioteche di conservazione.

Se non sempre è facile definire il rapporto di collaborazione tra istituzioni pubbliche e private, le esperienze e le convenzioni che regolano le modalità di azione per raggiungere obiettivi comuni sono sempre più diffuse.

La Fondazione Mondadori, organizzando i lavori del censimento e della Commissione per gli archivi editoriali; ospitando presso la propria sede archivi in deposito con l'impegno di ordinarli, catalogarli e metterli a disposizione del pubblico; promovendo ricerche e strumenti di lavoro, ha cercato di muoversi in questa direzione, proponendosi come cerniera tra pubblico e privato, in un ambito come quello della conservazione della memoria del lavoro editoriale, che credo possa riservare ancora molte sorprese.


Copyright AIB 2000-04-16, a cura di Elena Boretti
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