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I sistemi bibliotecari di Ateneo fra coordinamento e innovazione

Roma EUR, Palazzo dei congressi
Sala Monte Mario
Venerdì 5 ottobre, ore 9,00-13,00

Seminario organizzato dai Coordinamenti dei sistemi bibliotecari delle Università di Bologna, Padova e Sassari in collaborazione con la Commissione nazionale università e ricerca dell'Associazione italiana biblioteche


Giovanni Di Domenico

La valorizzazione del capitale umano: inquadramento, competenze e funzioni dei bibliotecari nelle università

Nuove competenze per nuovi processi organizzativi e di servizio
Il mio intervento prende le mosse da un contributo di Serafina Spinelli sulla cooperazione universitaria. Si tratta, a mio modo di vedere, di un'analisi molto lucida e puntuale, in cui si ricostruiscono le origini e il breve percorso storico dei sistemi bibliotecari universitari e si fa il punto sulla loro attuale configurazione: parliamo di insiemi di strutture accomunate dalla condivisione di obiettivi e dotate di organi di coordinamento istituzionalmente fondati e riconosciuti; parliamo anche di sedi per la concertazione strategica e decisionale di un complesso di attività cooperative (dallo sviluppo delle raccolte, alla catalogazione del pregresso; dalla digitalizzazione dei documenti alla costituzione di consorzi per l'acquisizione di risorse elettroniche; dalla individuazione di standard alla valutazione dei servizi, passando per i temi della formazione e dello scambio professionale). Parliamo infine di sistemi bibliotecari di ateneo che comunicano già tra di loro e che iniziano a porsi seriamente l'obiettivo di un coordinamento dei coordinamenti e di un sistema bibliotecario nazionale delle università (anche se io preferirei parlare di rete bibliotecaria degli atenei italiani, di un network più che di un sistema: ci servono, mi sembra, modelli organizzativi flessibili e non “organicistici” di cooperazione, forme plurali di partnership, all'occorrenza modificabili e anche revocabili).
Nell'ultima parte del suo contributo Serafina Spinelli traccia anche alcune linee possibili di sviluppo del discorso, indica alcune sfide da affrontare, che toccano
il ridisegno organizzativo dei sistemi bibliotecari, la necessità di accrescere il tasso di efficacia della cooperazione, le problematiche riguardanti le biblioteche digitali,
la proiezione verso l'esterno della professione bibliotecaria negli atenei e degli stessi sistemi bibliotecari (sistemi informativi, didattica a distanza, university press e così via): qualcosa che nasce dalle nuove esigenze di organizzazione della conoscenza e della comunicazione scientifica nelle università. Partirei da qui per sottolineare come gran parte di questi processi (nel loro insieme una sorta di mission per i coordinamenti interateneo), la loro stessa complessità, reclami una nitida e forte ridefinizione delle competenze, delle abilità e delle funzioni dei bibliotecari universitari e la loro piena valorizzazione professionale. Del resto, e più in generale, è proprio intorno alla centralità delle competenze (individuali e organizzative), alla capacità di integrare competenze diversificate (interne ed esterne alle organizzazioni), allo sviluppo delle professioni dentro le organizzazioni, insomma è intorno all'uso della conoscenza come risorsa organizzativa primaria, che una società dei servizi può nascere e consolidarsi. C'è peraltro un pendant negativo, che coinvolge le alte professionalità e i settori più avanzati: quello che si chiama skill shortage, mancanza di competenze necessarie, deficit di competenze sul mercato. Un fenomeno di dimensioni significative, che impone ripensamenti sul versante dell'alta formazione (la riforma 3 2 nel nostro paese trova qui alcune delle sue non contestabili ragioni di fondo), ma un fenomeno che spinge, rende indispensabili prospettive di formazione permanente, un fenomeno infine che impone una riclassificazione delle professioni esistenti strettamente connessa all'avvio di processi formativi di ampio respiro e di lunga lena. Come risponde l'università italiana? Risponde con una serie di processi di riforma nel segno dell'autonomia, quelli che tutti conosciamo e viviamo quotidianamente e che in questo momento portano in primo piano l'autonomia didattica; risponde anche con l'avvio di una revisione complessiva del suo impianto organizzativo, che tutti avvertono come invecchiato, burocratico, verticistico, ecc. L'ultimo Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) del personale tecnico amministrativo è una tappa importante lungo questo cammino.

Cornice contrattuale e destinazioni professionali
Il CCNL può avere (in parte sta già avendo) un impatto notevolissimo sulla crescita e sul destino delle professioni (segnatamente di quella bibliotecaria) all'interno degli atenei. Trovo una serie di ragioni:


Alcuni elementi di dettaglio vanno poi sottolineati: uno per tutti, la progressiva attenzione verso i contenuti di qualità delle prestazioni individuali. Se in passato si tendeva a privilegiare quasi esclusivamente l'incremento di produttività, nel nuovo contratto (art. 59) i contenuti di qualità figurano tra gli indicatori ponderati in base ai quali si può effettuare la selezione ai fini della progressione economica all'interno di ciascuna categoria. Sono contenuti che riguardano in modo particolare:


Sono tutti temi e processi su cui le biblioteche e i bibliotecari dell'università si stanno interrogando da tempo, io credo, in modo critico e fattivo. È da notare che siamo entrati, come dire?, nel territorio delle competenze organizzative e di comunicazione, con un duplice, non disprezzabile ampliamento di orizzonti: primo, si è consapevoli che il sapere tecnico non basta da solo ad assicurare la crescita professionale degli individui e quella delle organizzazioni; secondo, l'ambito applicativo di questi processi non coinvolge soltanto le figure apicali, ma anche tutte le altre. Del resto (e penso all'art. 63 del CCNL), le amministrazioni sono sollecitate anche a individuare, e a premiare con un'apposita indennità, posizioni di responsabilità organizzativa e funzioni specialistiche, certo di diverso livello, ma con riferimento a tutte le categorie. Una particolare sottolineatura è riservata alla categoria D (che, non dimentichiamolo, è la categoria di inquadramento per i vincitori dei concorsi esterni riservati ai laureati), per la quale si prefigurano incarichi di responsabilità, che si vogliono “qualificati”.

Se mettiamo in relazione il sistema premiante con quello di riordinamento delle professioni, cogliamo alcuni interessanti elementi di riforma:


La valorizzazione dei contenuti professionali di più alto profilo viaggia a sua volta su binari che non sono più quelli delle vecchie linee del comando gerarchico e del controllo. L'impianto classificatorio, di profilo, funzionale e retributivo delle professionalità elevate (EP) poggia su basi diverse. Quali sono? Voglio ricordarle:


Sul sistema formativo, complessivamente inteso, dirò qualcosa tra un momento. Nel frattempo, osserverei che questa cornice contrattuale – ancora esile, ma innegabilmente diversa da quelle passate e sicuramente migliorativa – sembra adatta a ospitare le destinazioni professionali verso cui i bibliotecari universitari italiani, in molte realtà, si stanno avviando (anche se siamo tutti consapevoli che un contratto, per quanto avanzato, non basta da solo a rendere gli apparati amministrativi di riferimento pienamente permeabili alle nuove culture organizzative e a una maggiore dinamicità e flessibilità di orientamento. E però da qualche parte bisogna pur iniziare…). Proviamo allora a coglierle queste destinazioni professionali, ragionando su alcuni processi. Leggevo tempo fa un bell'intervento di Federico Butera, dedicato ai problemi di rappresentanza dei lavoratori della conoscenza (manager, ma anche quadri e impiegati), persone comunque che non lavorano su processi materiali, ma sulle informazioni, sulle idee, sui progetti, sul governo dei processi di creazione e consolidamento del patrimonio conoscitivo delle organizzazioni. Butera segnalava una loro collocazione prevalentemente non gerarchica (si tratta di coordinatori di attività più che di capi) e anche una loro tendenziale trasformazione da knowledge provider a knowledge integrator, cioè da specialisti che conoscono un procedimento e forniscono una risposta a persone capaci di integrare le loro conoscenze con quelle altrui per ottenere risultati originali. Non mi sembrerebbe azzardato riconoscere in questo profilo qualcosa che possa rappresentare anche le funzioni che i bibliotecari - nelle università in modo particolarmente marcato - svolgono o aspirano a svolgere, indipendentemente dai livelli di responsabilità e all'interno di diversi processi, per esempio:


E ancora:


Tutti questi processi e molti altri si configurano come processi di integrazione, trasferimento, conversione di conoscenza – oltre che di facilitazione di accesso alle informazioni – e presuppongono da un lato scelte organizzative agili (a rete, a matrice, e così via), dall'altro il possesso di competenze trasversali (biblioteconomiche, organizzative, tecnologiche, relazionali), che un macrosistema flessibile di politiche del personale può aiutare a valorizzare, in stretta continuità con la formazione universitaria dei bibliotecari e dei documentalisti e con assennate politiche di reclutamento. Aggiungo un'osservazione a margine su quest'ultimo punto: non voglio insistere eccessivamente sulla vexata quaestio del valore legale del titolo di studio, ma certo qualcosa bisognerà pensare per differenziare la categoria di accesso in carriera per coloro che saranno in possesso della laurea triennale (presumibilmente l'attuale categoria D) dalla categoria di accesso per i laureati con titolo quinquennale di specializzazione. Oggi il contratto prevede per l'accesso alla categoria EP un doppio requisito: laurea e abilitazione professionale ovvero laurea e particolare qualificazione professionale. Nel prossimo futuro sarà opportuno richiamare in modo esplicito anche la laurea specialistica, ponendola ovviamente in relazione con le tipologie delle diverse aree professionali. Nel frattempo, si potrebbe intervenire in tal senso sui regolamenti di ateneo (perché questa possibilità è prevista dal contratto). Anche la “particolare qualificazione professionale” andrebbe meglio esplicitata, a evitare troppe difformità interpretative tra amministrazione e amministrazione e a bandire squilibri applicativi (dei quali, peraltro, si inizia già ad avere notizia).

Formazione continua: quale funzione per i coordinamenti bibliotecari?
Tornando indietro con il discorso: a me sembra che il contratto abbia, almeno in parte, questa valenza di strumento efficace di valorizzazione professionale, soprattutto se pensiamo al collante rappresentato dalle politiche della formazione permanente, che puntano alla riqualificazione delle competenze tradizionali e allo sviluppo di nuove competenze. La formazione continua deve diventare la colonna portante del sistema professionale negli atenei: su questo punto credo che nessuno di noi nutra il benché minimo dubbio. Ricordo il documento finale del convegno CRUI di maggio 2000: la formazione vi figurava come uno degli obiettivi primari che i sistemi bibliotecari d'ateneo devono assicurare e il personale bibliotecario con incarichi di coordinamento e direzione come il primo destinatario di interventi formativi corrispondenti a standard di qualità internazionali. Inoltre, il documento sollecitava gli atenei a riconoscere l'apprendimento conseguito con avanzamenti di carriera e incentivi di posizione. Molti di questi suggerimenti – sia detto senza ombra di enfasi – trovano un ottimo sostegno in alcuni articoli del CCNL. Come sappiamo, la formazione professionale è disciplinata dall'art. 45, che stabilisce un iniziale ed esplicito nesso tra crescita del personale e crescita qualitativa dei servizi, in buona sostanza tra valorizzazione delle competenze e cambiamento organizzativo. Dopodiché, in alcuni commi si dettano gli indirizzi che presiedono alla formazione del personale di nuova assunzione, alla programmazione degli interventi formativi, all'introduzione dei crediti formativi, al possibile riconoscimento di funzioni di formatore svolte dai dipendenti e alla loro retribuzione (modesta, per la verità), ecc.
Io vorrei soffermarmi su tre questioni, che mi sembrano molto importanti e che sono oggetto dei commi 4, 5 e 6. Il comma 4 attribuisce alle amministrazioni il compito di definire i programmi formativi, pur ribadendo che le linee di indirizzo generale per la programmazione annuale e pluriennale delle attività formative costituiscono materia di contrattazione collettiva integrativa. Seguono i criteri operativi. In particolare:


Il comma 5 precisa che la frequenza ai corsi che prevedano una verifica finale, se organizzati direttamente dalle amministrazioni, anche in consorzio o sotto la loro vigilanza, dà luogo a crediti formativi, validi in tutto il comparto e valutabili ai fini della progressione economica e di carriera. Infine, il comma 6 dispone la costituzione di un gruppo tecnico di lavoro, composto da rappresentanti sindacali e rappresentanti ARAN, per la definizione delle modalità attuative dei criteri di cui al comma 4. Il gruppo terrà conto delle linee programmatiche espresse dalla CRUI in materia.

C'è già chi ha notato come assolutamente opportuna risulti la distinzione tra finalità formative (che devono essere assunte dall'organizzazione universitaria) e strumenti attuativi (che sono invece di competenza di chi deve gestire direttamente i processi formativi). Tuttavia, restano aperte alcune questioni, che attengono ad aspetti rilevanti della programmazione: per esempio, il monitoraggio preliminare (analisi dei bisogni di apprendimento, analisi del contesto, analisi del fabbisogno organizzativo e delle competenze del personale: tutte le attività a carattere diagnostico, che permettono di selezionare gli obiettivi a media e lunga scadenza); poi aspetti importanti del piano di formazione, cioè dello strumento attraverso il quale si attuano gli indirizzi e si precisano le attività progettuali e organizzative della formazione: non sono, per esempio, prefigurate risorse umane (manager di progetto, tutor, ecc.) e strutturali (uffici di formazione) ad hoc. Io credo che i coordinamenti bibliotecari di ateneo non debbano rinunciare a svolgere un ruolo di primo piano e formalmente riconosciuto già su questo delicato terreno di intervento, reclamando il diritto-dovere di concorrere alla messa a punto delle attività di programmazione e al sostegno di tutte le fasi attuative dei piani di formazione che coinvolgono il personale bibliotecario, perché la formazione sia adeguatamente centrata sull'apprendimento e non sull'insegnamento e perché essa tenga anche nel debito conto le aspettative e le conoscenze dei partecipanti. Se vogliamo, questo è a sua volta un non trascurabile momento di crescita e utilizzo di competenze biblioteconomiche e organizzative a largo raggio all'interno degli atenei, ma è anche un percorso obbligato, se si vuole porre rimedio in anticipo alle carenze di programmazione che possono presumibilmente colpire il settore delle biblioteche e al deficit di impatto degli interventi formativi sui servizi. Mi riferisco, per esempio, alla genericità dei programmi di formazione, che talvolta sono passati sulla testa dei bibliotecari e che hanno visto confusamente sovrapposti diversi livelli di intervento (di base, di aggiornamento, avanzati) o hanno visto trascurare contenuti formativi non strettamente orientati all'addestramento tecnico-pratico tradizionale: intendo quelli che interessano i modi di pensare e di agire, quelli che insistono sulla cultura di progetto e di risultato, sui processi e sui comportamenti organizzativi, sulle capacità di relazione, ecc.

I crediti: forse occorre approntare apposite linee guida
Il contratto introduce, al pari di altri paesi europei, un sistema di quantificazione e di verifica formale dell'apprendimento e di certificazione di qualità dei percorsi formativi. Lo fa in un quadro che considera la formazione sempre più un investimento sulle persone e sempre meno un costo e che cerca la coerenza strategica tra formazione, crescita professionale, progressione di carriera ed esigenze organizzative di miglioramento dei servizi: una svolta, e di grande rilievo. Aspettiamo peraltro con fiducia che emergano efficaci criteri di regolamentazione e di indirizzo metodologico dal lavoro dei soggetti richiamati dal comma 6. Esistono già riflessioni e contributi in materia, in particolare un documento redatto da Asfor, Formez e altri enti. Ma anche qui non mancano questioni meritevoli di immediata attenzione da parte dei bibliotecari: mi riferisco a possibili iniziative di coordinamento interateneo e al contributo che può venire dalla stessa commissione università-ricerca dell'AIB, magari in collaborazione con AIB-Seminari. Perché, intanto, non tenere in grande evidenza l'opportunità offerta dal comma 5, laddove si parla di corsi organizzati da consorzi interuniversitari? Non potrebbe essere, questo della formazione coordinata e certificata, uno dei tasselli di un coordinamento bibliotecario universitario nazionale? Pensiamoci. Più in generale, e a proposito degli enti che offrono formazione: come valutare l'offerta, le competenze e l'esperienza che l'ente mette in campo, la qualità dei docenti, gli ambienti, le risorse, la metodologia, i costi? Quale equilibrio e livello d'integrazione immaginiamo tra formazione a distanza e formazione in presenza nel nostro settore? Come facilitare l'autodeterminazione nella scelta dei percorsi di crescita intellettuale e professionale? Come valutare la formazione in itinere e come valutare gli output, i risultati? Come valutare la forza di impatto? Mi sembrano domande pressanti e mi chiedo se non servano delle linee guida, a definire la qualità di un sistema di formazione continua per i bibliotecari che operano nelle università. Sono solo esempi a braccio, ci mancherebbe altro, ma sento la necessità di un nostro coinvolgimento (ragionato, prudente, aperto) su tutti gli aspetti delle attività formative accompagnate da accreditamento che riguarderanno i bibliotecari universitari: dalla programmazione (bisogni, risorse, obiettivi), alla progettazione didattica e organizzativa, all'attuazione degli interventi, alla valutazione d'efficacia di risultati e di impatto e così via.

Classificare le competenze?
Ritorno, in chiusura, sul tema delle competenze. Un documento CRUI sulla formazione apprezza nel contratto “una visione di investimenti individuali in un contesto di interesse collettivo”. Mi chiedo se premesse del genere non comportino per noi la necessità di compiere un lavoro preliminare, quello di classificare in qualche modo le competenze delle persone, dei bibliotecari, vale a dire il loro sapere, il loro saper fare, il loro saper essere: tutto ciò che consente di erogare servizi informativi e documentari di buona qualità, che permette di immaginare e realizzare nuovi prodotti e servizi, tutto ciò che fa legame con gli utenti, tutto ciò che permette di collaborare proficuamente con gli altri, di muoversi disinvoltamente in quell'intrico di rapporti e di scambi che caratterizza ormai la pratica professionale. Si tratterebbe di accertare quali competenze individuali occorrono prioritariamente, per poterne fare oggetto di formazione mirata e poterle proficuamente valorizzare dentro le più vaste competenze organizzative dei sistemi bibliotecari di ateneo. Anche queste ultime andrebbero, in senso molto lato, classificate, per stabilire le priorità e investire di più e meglio su ciò che oggi può rendere le biblioteche accademiche un valore, una risorsa strategica (cioè un complesso originale, dinamico e non sostituibile di conoscenze, abilità, tecnologie, processi), insomma un ambiente avanzato, in cui si acquisiscono, si conservano al meglio, si rendono disponibili, e non solo, ma si producono, si sviluppano, si integrano le conoscenze che servono al presente e al futuro della ricerca e della formazione superiore.


Copyright AIB, ultimo aggiornamento 2001-11-16 a cura di Gabriele Mazzitelli
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