[AIB]

53º Congresso nazionale AIB

Le politiche delle biblioteche in Italia
La professione

Roma, Centro congressi Europa
Policlinico universitario "A. Gemelli"
18–20 ottobre 2006


Programma 53º Congresso AIB

Introduzione.  La professione di bibliotecario ha un ruolo nella società dell'informazione?

Francesco Consoli
Università degli Studi di Roma "La Sapienza"

Abstract

Il titolo della relazione è dovuto al fatto che, malgrado quella dei bibliotecari sia una delle professioni chiave del sistema della informazione e della conoscenza, l'immagine professionale del bibliotecario non sembra beneficiare del crescente ruolo strategico della conoscenza e dell'informazione. Insomma, stiamo ancora a discutere sul riconoscimento dei bibliotecari e del loro servizio; anzi, l'affermarsi della società dell'informazione sembra, paradossalmente, ridimensionare la professione di bibliotecario che sembra divenire obsoleta così come la biblioteca diventa obsoleta come luogo di reperimento dell'informazione.

La parte introduttiva della relazione sottolinea l'importanza del "riconoscimento" nell'affermazione del carattere professionale delle occupazioni e il rapporto che vi è tra riconoscimento, costruzione del mercato professionale, definizione della "giurisdizione" all'interno del campo professionale, ed elaborazione dell'idea professionale del "servizio" intorno ad alcune innovazioni strategiche. Tale riconoscimento è sempre più difficile nel caso delle professioni "invisibili", tra le quali vi è quella del bibliotecario. Ma il concetto di professione invisibile dovrebbe essere superato in una società dei servizi.

Successivamente, la relazione prende in considerazione la questione del riconoscimento della professione del bibliotecario in rapporto alla trasformazione della natura del servizio offerto. Per illustrare questi concetti si farà riferimento a due fasi emblematiche della storia della professione: quella della riprofessionalizzazione dei bibliotecari negli Stati Uniti negli anni '30 e quello che sta avvenendo oggi. Per quello che rigliarda l'oggi tre esempi fanno oggi pensare a una base più avanzata per riformulare la figura professionale dei bibliotecari su cui costruire un nuovo processo di riconoscimento: l'importanza chiave della figura del librarian nel movimento della EBM (Evidence Based Medicine), l'emergenza dell'information literacy come competenza di base professionale (e della figura del formatore di information literacy come attore della didattica e della formazione nell'ambito degli studi universitari) e la frontiera dell'information manager nelle organizzazioni. Il riconoscimento sociale e professionale del nuovo bibliotecario dipende dalla conquista dei punti alti della professionalità su tutti e tre questi tre lati, scientifico, didattico-formativo e organizzativo-manageriale. Come l'esperienza di altre professioni ha mostrato la strada non è facile e bisogna sciogliere il dilemma se continuare a puntare su una figura distinta di bibliotecario o su una nuova professione di "professionista dell'informazione" di cui il bibliotecario sarebbe un livello o una specializzazione. Comunque occorre considerare che la posta in gioco di questo sviluppo professionale è il passaggio ad un nuovo modo di concepire la conoscenza e di produrre conoscenza e il carattere pubblico della conoscenza e dell'informazione. Il librarian, oggi come nel periodo della sua nascita, è caratterizzato non solo dalle sue competenze tecniche (che si sono sviluppate con l'avvento dell'informatica e della e-library globale) ma anche dalla sua etica professionale, dall'idea di servizio per l'utente, dalla democratizzazione della cultura e dell'informazione. La funzione pubblica del bibliotecario e il carattere di bene pubblico del suo sevizio è la premessa per costruire un riconoscimento specifico rispetto ad altre professioni dell'informazione. Ma l'auto riconoscimento passa attraverso l'identificazione, insieme ad un nuovo corpus formativo, di un processo di carriera e sviluppo.

 


 

Centotrent'anni dopo la rivoluzione apportata da Dewey al sistema di catalogazione, cui molti fanno risalire l'innovazione concettuale e la fondazione della disciplina su cui poggiano i sistemi delle biblioteche – e quindi la professionalizzazione dei bibliotecari – stiamo ancora a discutere del riconoscimento di questo lavoro come professione. Una parte importante della sociologia delle professioni – e dei libri di testo di sociologia delle professioni –, come è noto, confina i bibliotecari nella classe-limbo delle semi-professioni, delle professioni in qualche modo "imperfette", insieme a infermieri, insegnanti e assistenti sociali, guarda caso tutte professioni a prevalenza femminile. Evidentemente qualche cosa non va o nel modo in cui i sociologi considerano le professioni o nella professionalità dei bibliotecari. A mio avviso il fatto che le semi-professioni siano rimaste nel limbo per tanti anni dimostra, per esempio, che l'immagine della professionalizzazione come un processo graduale e lineare di trasformazione non funziona. Non funziona, cioè, quella che Abbott (1998) definì la metafora dell'ascensore che gli studiosi hanno spesso adottato. Le semi-professioni non riescono a salire neppure con il tempo sull'ascensore, né sulle scale. I bibliotecari sono ancora.... bibliotecari.

Ritengo però che il tormentone infinito delle semi-professioni sia superato oggi dal ciclone che sta sconvolgendo tutto il mondo dei servizi e del lavoro intellettuale. Il problema del riconoscimento delle professionalità all'interno di un modello generale è un problema obsoleto che, però, è di estrema attualità, se è vero che una delle trasformazioni più rilevanti del mondo del lavoro è quella della spinta alla professionalizzazione dei lavori, professionalizzazione che implica anche forme di riconoscimenti e di standard. Diciamo meglio: il nodo del riconoscimento delle professioni è un problema di grande attualità che rischia di essere affrontato in modo obsoleto.

Inquadriamo storicamente la questione. La professionalità del bibliotecario e l'istituzione della biblioteca e dei sistemi nazionali delle biblioteche si sono intrecciate, nel loro nascere, con la progettazione delle istituzioni fondamentali della società urbana moderna (Garrison 1979). Essi hanno fornito il presidio professionale e istituzionale dell'organizzazione e della trasmissione delle conoscenze e hanno costituito il "sistema esperto" di questa organizzazione e trasmissione. Oggi, invece, il destino di questa stessa professionalità si intreccia con quello della società dell'informazione post-moderna, cioè con l'epoca in cui informazione e disinformazione avviluppano le loro spire in un micidiale abbraccio. All'informazione rara e costosa si è sostituita l'informazione sovrabbondante ed economica. I problemi critici sono diventati quelli dell'accesso e della valutazione, selezione e costruzione di senso dell'informazione. Anticipo le conclusioni di questa relazione avanzando l'ipotesi che è intorno alla capacità di fornire una risposta a questi problemi critici che si gioca il riconoscimento sociale e istituzionale della nuova professione di bibliotecario.

La diffusione, avvenuta nel corso dei sessant'anni a cavallo del Novecento nei college, nelle università, nei quartieri e nei piccoli centri, delle public libraries, delle biblioteche pubbliche, ha preparato – dove è avvenuta – la strada all'educazione di massa, quindi della formazione culturale delle popolazioni, sorreggendola e accompagnandola in quello che potrebbe essere visto come un grande progetto di formazione ed educazione degli adulti. Al livello delle tecnologie dell'epoca e della diffusione del saper leggere e scrivere, la biblioteca era il luogo dell'accesso alla cultura per le nuove masse urbane. Oggi, in pochi anni, Internet sembra spazzare via contemporaneamente la centralità fisica della biblioteca e la figura del bibliotecario come abitante, custode e guida della biblioteca, entrambi fatti evaporare dalla diffusione della tecnologia informatica e delle opportunità che essa apre. La biblioteca ordinata dei bibliotecari cede il posto alla «biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio» (Jorge Luis Borges Borges, La Biblioteca di Babele). Altre professionalità dell'informazione avanzano a grandi passi e nello stesso tempo gli utenti possono a casa loro, o nel loro ufficio, fare ricerche di documenti, testi, informazioni che prima richiedevano di passare quasi obbligatoriamente dalla biblioteca e dal sistema bibliotecario. Il sistema tecnico e intellettuale di cui il bibliotecario era l'operatore appare oggi insopportabilmente lento e farraginoso a questo bibliotecario imperfetto affetto da deliri di onnipotenza.

«Dove hai trovato questo documento?» – chiede il professore. «Su Internet!» , risponde lo studente con aria compiaciuta.

I docenti americani lamentano il fatto che i loro studenti si impigriscono e consultano solo le riviste e i documenti cui possono accedere on line e che arrivano sul loro schermo .

Anche i professionisti e i tecnici sono preda di una sindrome di onnipotenza informativa. Un medico mediante Medline può accedere a tutti gli articoli scientifici pubblicati su una malattia, una terapia o un farmaco. Meglio ancora, poiché il medico spesso non ha tempo di andare a consultare Medline, il paziente colto, che magari conosce l'inglese più del medico, può fare, grazie alle potenzialità delle banche dati accessibili gratuitamente in rete, le pulci al medico.

L'avvento della società dell'informazione e dell'informatica, l'era dell'accesso (Rifkin 2000) e della società in rete (Castells 2002) sembrano rendere non necessario e obsoleto il bibliotecario insieme alla biblioteca e al sistema bibliotecario. Le information sciences sembrano sostituire le professionalità del catalogo e lo fanno colpendo al cuore la stessa funzione pubblica delle professionalità del catalogo, trasformando l'utente in attore della ricerca dell'informazione, apparentemente senza mediazioni, nell'empowerment dell'utente. Conseguentemente, le grandi scuole di biblioteconomia rivoluzionano la loro vocazione per continuare ad avere studenti con prospettive professionali e diventano scuole di information sciences.

Il riconoscimento professionale del bibliotecario si basava sul riconoscimento sociale e istituzionale dell'organizzazione in cui egli operava, la biblioteca (Associazione italiana biblioteche, American Library Association ecc.). Questa era la sua forza ma anche il suo limite (Minardi 1998). Ora il bibliotecario, "l'operatore della biblioteca", sembra essere sfrattato dalla biblioteca virtuale e perdere anche quel riconoscimento situato e semi-professionale che aveva faticosamente ottenuto soprattutto in alcuni paesi. Ma non vi è "professione" senza quel riconoscimento sociale e istituzionale su cui viene costruita e sviluppata l'identità verso l'esterno e la colleganza verso l'interno. La domanda è dunque: siamo di fronte a una deprofessionalizzazione dei bibliotecari? L'ascensore della professionalizzazione, che non si è mosso in salita, si sta forse muovendo in discesa?

Questa domanda va posta, appunto, per non affrontare un problema di attualità, come quello del riconoscimento, in modo obsoleto. La risposta non è semplice, perché sicuramente tutto dipende da come l'idea professionale, che è il core del riconoscimento professionale, sarà in grado di intercettare e interpretare i grandi cambiamenti della società attuale, della società della conoscenza. La posta è alta e la si gioca su molti livelli, che sono, a rigore, proprio i livelli su cui si valuta il "tasso di professionalismo" delle occupazioni.

Il livello che occorre considerare innanzi tutto è quello del rapporto tra teoria e pratica.

Malgrado il loro lavoro si svolgesse nel centro nevralgico della cultura, in quello che poteva essere considerato il "luogo", se non il tempio, della cultura colta, della cultura consegnata alla forma durevole della carta stampata, cioè la biblioteca, il bibliotecario era pur sempre un practitioner. Dewey stesso era un practitioner, la teoria non era nei suoi orizzonti (Danner 1999). L'innovazione da lui introdotta era, in ultima analisi, un'innovazione concettuale orientata a risolvere problemi pratici, che, grazie all'indispensabile riconoscimento istituzionale, riuscì a trasformare in uno standard. Dopo di lui numerosi altri lavorarono nella stessa direzione, utilizzando gli strumenti che altri campi disciplinari, dalla logica alla matematica, alle teorie della comunicazione, mettevano via via a disposizione. L'obiettivo era la creazione di standard efficaci ed efficienti, con tutti i requisiti, anche istituzionali, ripeto, che l'affermazione di uno standard richiede.

Non è una traiettoria inedita. Anzi, essa è condivisa con molte, probabilmente con tutte, le professioni, che nascono come tecniche intellettuali e pratiche sociali concrete in parte locali, in parte condivise in circoli più vasti. Penso alla partita doppia e alle umili ma decisive innovazioni degli uomini della contabilità, di quella matematica del diritto su cui poggia il mercato e il mondo economico moderno, che solo grazie all'opera di razionalizzatori sistematici e pignoli (da quel grande esponente del pensiero rinascimentale che fu il matematico e frate francescano Luca Pacioli a quei sistematizzatori che furono Savigny padre e figlio in Francia nel Seicento, per fare alcuni nomi) riuscirono a divenire standard della contabilità condivisi dalla comunità degli affari a livello mondiale. Essi divennero così, con un lungo processo, i fondamenti della formazione dei contabili prima e della teoria della contabilità poi, sbarcando infine dentro le università (Colasse 1996). Ma non solo. Il cammino delle professioni avviene sempre per un processo di aggregazione di micro-innovazioni negli oggetti e nei saperi d'azione locali in cerca di teorie, e di teorie in cerca di oggetti e di saperi d'azione. La divisione del lavoro tra mondo della pratica e mondo della teoria (accademia) è successivo, è parte dell'istituzionalizzazione delle professioni, anche se spesso essa, quando si afferma, volta le spalle a quel magma caotico di ricerca, pratica e sistematizzazione teorica, negandolo come si trattasse di una nascita illegittima.

Dietro alle tecniche intellettuali e alle pratiche sociali concrete dei "padri" della biblioteconomia moderna vi erano alcuni principi teorici ben precisi che riguardavano la natura del sapere e della conoscenza (si pensi alla divisione delle dieci classi del Sistema Dewey tra scienze di Dio, scienze dell'uomo e scienze della natura e del mondo sensibile), e che si inquadravano nell'orizzonte della costruzione di un catalogo nazionale (e più tardi internazionale), all'interno di un progetto di policy, come si direbbe oggi, dove la costruzione di un canone nazionale (standard culturale) si intrecciava con la finalità civile della public library. Erano all'opera principi di classificazione (quindi di conoscenza, di pensiero, o delle premesse del pensiero consapevole, come ci ricorda la Douglas (1990), contemporaneamente a esigenze di recupero dell'informazione e dei documenti (retrieval) e di educazione dei cittadini. Malgrado lo sviluppo – in molti paesi – di scuole e di reti di scuole per bibliotecari, il crogiuolo tra teoria e pratica rimase tale, non produsse lo sdoppiamento di accademia e professione. Posso proporre delle ipotesi al riguardo. Forse l'attrattore istituzionale (la biblioteca) rimaneva troppo forte rispetto ad altri attrattori accademici, tanto da non riuscire a stabilizzare quella divisione, quella scissione, se si vuole, tra teoria e pratica, tra accademia e mondi professionali, che invece altre famiglie professionali hanno conseguito, traendone un indubbio vantaggio in termini di riconoscimento sociale. L'elevata femminilizzazione della professione, poi, può essere stata un ostacolo anche in questo senso, data la discriminazione accademica delle donne. Ma naturalmente può essere vero l'opposto, che il basso prestigio accademico abbia indotto l'elevata professionalizzazione. La storia del professionalismo dei bibliotecari appare, così, profondamente intrecciata – ma anche subalterna – a quella dell'istituzione e dell'interesse pubblico che quella istituzione assolve, condividendo, in questo, la stessa sorte degli/delle insegnanti, la cui professionalità è anche incapsulata nell'istituzione e nell'organizzazione in cui si esercita. Là dove il movimento delle biblioteche diventa uno strumento di un grande movimento di educazione degli adulti (si pesi all'esperienza statunitense che ha visto come protagonista Carnagie, con la fondazione Carnagie e le biblioteche Carnagie. Per un'analisi del movimento cfr. Di Maggio 1991), la professionalizzazione dei bibliotecari si inscrive nel quadro di un campo professionale nuovo e acquista spessore e autonomia più spiccati, convergendo con altri saperi per lo sviluppo del servizio e del progetto professionale. Ma diverso è il sistema scolastico e il modo in cui gli interessi pubblici vengono perseguiti. In fondo la fondazione Carnagie non è un organismo statale ma una potente organizzazione filantropica. Dove, come da noi, la biblioteca non conquista questo ruolo all'interno di un movimento nazionale, non si forma un chiaro campo professionale autonomo e identificabile ("riconoscibile"), il bibliotecario rimane, non solo nell'immaginario collettivo ma anche per gli utenti reali e potenziali, sostanzialmente un impiegato addetto ai prestiti. Il caso delle biblioteche universitarie o scolastiche italiane è sintomatico: mancanza di un campo professionale distinguibile, mancanza di una professionalità riconosciuta, subordinazione decisionale e professionale ecc.

Oggi però la situazione appare in movimento accelerato e per certi aspetti sembra si aprano prospettive interessanti anche se, prese singolarmente, come la rondine, non fanno primavera. Sullo sfondo, mi sembra che vi sia la trasformazione del modo di produrre conoscenza. Se il librarian di cento, centocinquant'anni fa era espressione di un modo istituzionale di produrre conoscenza che prevedeva luoghi separati e specifici, eterotopie della cultura, come era anche l'università, oggi viviamo immersi in un «nuovo modo di produrre conoscenza» (Il modo 2 di Gibbons [et al.] 1994), che implica un processo di ripensamento della scienza (e della conoscenza) stessa basato su una modifica profonda dei rapporti tra scienza e società che impongono un ripensamento della scienza e della conoscenza stesse. Gli studi moderni su questi temi, che cercano di tenere il passo con una realtà che corre forse in modo ancora più veloce, trovano forte assonanza con le moderne ricerche di un nuovo fondamento teorico delle scienze bibliotecarie, quale quello dell'"epistemologia sociale" di Shera, Egan, Fuller ecc., che confluiscono, a loro volta, con le ricerche – e i curricula – relativi al knowledge management, nel management della conoscenza. Si profila quindi un nocciolo e insieme un crocevia teorico/accademico che potrebbe collocare a pieno titolo la ricerca biblioteconomica sui più avanzati fronti della ricerca in campo epistemologico.

Questo fronte, forse, è quello decisivo, anche perché potrebbe contribuire a riformulare l'idea professionale in rapporto con l'alta formazione e la ricerca. Il ritardo italiano su questi campi e lo spazio solo di nicchia che questi studi hanno nelle nostre istituzioni accademiche, rischiano di soffocare sul nascere questi orizzonti, mortificando le intelligenze più brillanti e facendone dei casi isolati. Questi orizzonti rischiano di apparire lontani dai problemi di riconoscimento che sono più immediatamente percepibili dal grande pubblico, dai mondi professionali e accademici, dagli stessi operatori. Vorrei soffermarmi, quindi, su tre esempi di sentieri di sviluppo e riconoscimento del bibliotecario che, collegati con i grandi temi di cui parlavo, ne costituiscono però l'esemplificazione pratica.

Innanzitutto la validazione delle fonti. Vorrei fare un esempio preciso riferendomi alla funzione svolta dal bibliotecario nella Cochrane Collaboration. Nei primi anni Settanta, l'epidemiologo inglese Archi Cochrane sostenne in un famoso articolo (1972) che «è certamente una grossa colpa della professione medica che non si sia riusciti ancora a produrre un meccanismo per il quale le conoscenze sull'efficacia degli interventi derivate dagli studi clinici controllati vengano periodicamente considerate in modo critico nel loro insieme e per il quale la ricerca futura venga pianificata sapendo esattamente quali sono le questioni realmente controverse». Alla denuncia seguì un'intensa attività di arruolamento di consensi e di promozione di un movimento scientifico e professionale centrato sull'epidemiologia clinica che ha suscitato un interesse crescente nelle istituzioni fino a raggiungere oggi lo status dell'ortodossia sia nell'ambito del Sistema sanitario nazionale britannico sia in una vasta articolazione in altri paesi e a livello internazionale. Nel 1992 nacque a Oxford il primo Cochrane Center, parte dell'Information System Strategy sviluppato a sostegno del programma di ricerca del Servizio sanitario britannico. La Cochrane Collaboration è oggi una rete mondiale di centri divisi per sottodiscipline, che producono sistematicamente rassegne delle pubblicazioni relative a tutti gli aspetti dell'assistenza sanitaria ( <http://www.cocrane.org>). Queste ricerche sono raccolte in una "biblioteca" disponibile su CD-ROM e via Internet che viene aggiornata trimestralmente. A differenza di altri database come Medline, la biblioteca Cochrane contiene non solo le citazioni ma anche la rassegna dell'articolo con la sua validazione realizzata con una metodologia scientifica che è stata sviluppata in parallelo dal movimento dell'Evidence Based Medicine (nota come meta-analisi). Di tutto questo apparato, volto ad aumentare la scientificità della professione medica riducendo l'estrema varianza delle pratiche mediche, l'elemento chiave è il librarian, il bibliotecario, la cui funzione non è solo quella di svolgere un'attività di recupero anche online dell'informazione, ma è, appunto, soprattutto quella di validazione del "significato" scientifico dell'informazione e degli articoli. Sulla base di metodologie statistiche maturate nell'ambito dell'epidemiologia, il bibliotecario sembra diventare, quindi, da operatore del recupero dell'informazione (questo lo potrebbe fare facilmente anche l'utente), operatore della validazione e dell'aggiornamento. In questo senso il bibliotecario, ovvero la funzione che egli svolge, diventa parte integrante della formazione dei professionisti. Non è un caso che il movimento sia nato in riferimento alle scuole di medicina e della formazione continua/aggiornamento dei medici. Questo esempio sembra mostrare dunque il bibliotecario impegnato in una funzione attiva nel sistema scientifico e professionale mondiale e nella stessa produzione della conoscenza e nel rapporto tra conoscenza e società.

Forse questo è un caso limite, ma la diffusione dei principi dell'Evidence Based Movement e della meta-analisi in campi diversi dalla medicina evidenzia un problema critico della società contemporanea: il rapporto tra mondo della ricerca e mondo dei policy maker. Il fatto che la ricerca si sviluppa sempre di più a ridosso dei problemi pone sotto stress questo confine. Non è casuale che uno dei campi di applicazione dell'Evidence Based Medicine sia quello della formulazione delle linee guida per le politiche sanitarie. Si configura quindi un triangolo tra ricerca, professionisti e policy maker/amministratori all'interno del quale le competenze del librarian (e la sua formazione) sono un elemento critico per il funzionamento del sistema. Questo è uno sviluppo che si colloca in pieno in quel filone del re-thinking science di cui parlano la Nowotny e Gibbons.

Un secondo esempio è quello della information literacy. In tutti i campi educazionali e formativi, soprattutto nell'alta formazione e nell'università, siamo di fronte a una forma di analfabetismo tanto più grave quanto più nascosta da una conoscenza "fai da te" di furbizie e abilità. In molte università (l'Italia appare con il solito spaventoso ritardo, prevedendo al massimo un'attività di "formazione dell'utente" che non assurge alla dignità di attività docente) la biblioteca e il centro di documentazione, con le loro componenti professionali, sono divenute il presidio per la formazione degli studenti all'informazione e, per questa via, della formazione agli alti studi. Tra i molti esempi, tra cui i numerosi tutorial spesso eccellenti che sarebbe possibile citare, vorrei menzionare il programma introdotto a partire dal 1984 dall'Università di Paris VIII nel quartiere di Saint Denis. Tale programma fu introdotto allo scopo di sviluppare i "Linguaggi fondamentali" previsti dalla legge sull'orientamento per far acquisire agli studenti i metodi di lavoro e di studio considerati indispensabili per la loro riuscita universitaria e professionale. Nel monitoraggio di questo intervento, denominato Penser, classer et categoriser si dimostrò che gli studenti che avevano partecipato a questo programma, a parità di condizioni, avevano un miglior esito scolastico, cioè che la formazione ottenuta inserendo tra i linguaggi fondamentali quella che possiamo definire l'information literacy, aveva una ricaduta positiva sull'apprendimento del "mestiere di studente" (Coulon 2004). Questa frontiera ha anche un risvolto in negativo. Nelle università straniere, ma sempre di più anche in Italia, si sta diffondendo la piaga del plagio (plagiarism), alimentata dall'abilità e facilità di consultazione di Internet per fare tesi e tesine. Nelle numerose pubblicazioni dedicate all'argomento viene data un'ampia rilevanza all'aspetto morale. Il plagio viene considerato come comportamento deviante. Credo, anche sulla base della mia personale esperienza del fenomeno, che una più corretta interpretazione della diffusione del plagio sia da ricercare nello squilibrio tra potenzialità e literacy, là dove la literacy informativa non solo costituisce uno strumento per essere un migliore studente oggi e un migliore professionista domani, ma anche un ponte tra senso comune e consapevolezza metodologica. Se il plagio costituisce un sintomo (grave) del vuoto tra senso comune di cui gli studenti sono portatori e leggi della conoscenza, il contributo del librarian non è soltanto di facilitatore ma formativo ed etico, sintesi metodologica tra la teoria dell'accademia e la pratica della teoria.

Un ultimo esempio è quello dell'information manager. Organizzazioni, aziende, istituzioni formative e di ricerca, non hanno bisogno ormai solo di un "servizio biblioteca" ma anche di professionisti competenti a progettare sistemi di informazione integrati con i sistemi informativi. Anche questo ambito di sviluppo è profondamente innovativo, perché implica un'integrazione profonda del professionista dell'informazione con i diversi sub-sistemi organizzativi (se penso all'università, per esempio, penso all'integrazione con il sub-sistema didattica, con il sub-sistema ricerca, con il sub-sistema amministrazione). Due aspetti sono da considerare al riguardo: da un lato la necessità di superare la concezione della "biblioteca" come un luogo separato dell'informazione, retto da regole proprie più o meno esoteriche, dall'altro la necessità che un'integrazione di questo tipo conti su figure apicali forti abbastanza da poter affermarsi nella definizione del core business (cosa che nelle istituzioni universitarie e di ricerca dovrebbe essere ovvia). Di management si tratta, e relativo ad una funzione strategica, se la conoscenza è la risorsa. Non è una funzione tecnica soltanto o di sussidio per altre funzioni.

Se si considerano queste tre linee di sviluppo nel loro insieme mi sembra che sia possibile riformulare, anche con qualche base di realismo, il profilo della professionalità in modo da intercettare, mi si perdoni di nuovo la metafora, gli ascensori che si stanno muovendo verso l'alto e i flussi di risorse che si stanno dedicando in molti paesi a questo tipo di obbiettivi. Vi è la forte impressione, con tutte le cautele del caso, che siamo di fronte alla formazione di un potente nuovo campo professionale, per lo meno a livello internazionale, generatore di molteplici nuove professionalità interconnesse. Come riconfigurare la professionalità dei bibliotecari in modo da agganciare questi movimenti? Quale funzione possono avere i gruppi professionali che rappresentano queste nuove professioni, l'associazionismo professionale, nel ridisegnare i nuovi orizzonti professionali e i nuovi progetti professionali? Come ripensare la formazione e i curricula, il reclutamento e i sistemi di carriera? Sono tutti temi critici per la configurazione delle professioni che non possono, però, essere rappresentati senza un riferimento forte al campo professionale e al progetto professionale, anche per orientare le carriere e lo sviluppo in una prospettiva professionale sottraendoli a meccanismi e valutazioni puramente organizzativi e burocratici. I tre esempi che ho ritenuto di sottoporre alla vostra attenzione aprono importanti spazi in tre direzioni di carriera fondamentali per lo sviluppo e il riconoscimento delle professioni: il rapporto con il sistema scientifico, la didattica nell'alta formazione e il management, spazi che possono essere opportunamente articolati dalle autorità professionali. Questi spazi di carriera implicano, a ritroso, lo sviluppo di nuovi curricula e di nuovi sistemi di formazione. Ormai da diversi anni le scuole di biblioteconomia hanno aggiunto nel titolo (e nei curricula) l'information science. E le scuole di questo tipo si sono moltiplicate in tutto il mondo. Certamente, se si consulta il sito <http://www.informationr.net>, o altre directory di questo tipo, con indirizzari delle scuole sui sistemi informativi, si vede come l'Italia sia praticamente inesistente. In questo contesto la strada da compiere è particolarmente difficile e lunga. Le attività dell'AIB e le stesse caratteristiche di questo congresso dimostrano, però, che il panorama è in forte movimento. La posta in gioco non è solo il destino di una gloriosa quasi-professione, ma il sistema di produzione, trasmissione e comunicazione della conoscenza in Italia.

Questa relazione però sarebbe incompleta se non accennasse a un'altra dimensione del riconoscimento sociale della professione di bibliotecario. Vi è il rischio che questo orizzonte costituisca una fuga in avanti se non si tenesse conto della funzione specifica che il bibliotecario e il sistema delle biblioteche può svolgere all'interno delle professioni dell'informazione. Come ci si rende ormai conto, il virtuale non sostituisce il luogo fisico, anzi lo potenzia. Si era detto all'inizio della relazione che uno dei nodi critici della società dell'informazione era la sfida dell'accesso. Credo che sia esperienza diffusa il rapporto virtuoso che il "luogo" biblioteca può svolgere sul territorio proprio per rispondere ai molteplici e nuovi bisogni della società in rete. Si tratta di una nuova frontiera, analoga a quella dell'educazione degli adulti di un secolo fa. La nuova public library rivisitata e reinventata è spesso una realtà e la si trova più nel territorio che nelle sedi accademiche. Vi è qui, a mio giudizio, un'ulteriore ragione di riflessione per la costruzione di un riconoscimento sociale della professione del bibliotecario. Qualche volta quando trovo alcune delle nuove biblioteche sento che forse siamo di fronte a una nuova forma di eterotopia.

Riferimenti bibliografici

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Minardi E., Da occupazione a gruppo professionale: gli operatori dei servizi bibliotecari tra nuove tecnologie e nuovi pubblici, «Sociologia del lavoro», 1998, n. 70/71 (numero monografico dedicato a I gruppi professionali.

Nowotny H. – Scott P. – Gibbons M., Re-thinking science: knowledge and the public in an age of uncertainty, Cambridge: Polity Press, 2002.

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