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Le stanze dei libri

Biblioteche e modernità letteraria

di Daniela Baroncini


Testo della voce "Biblioteca" (p. 58-71) in "Luoghi della letteratura italiana", introduzione e cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi, Bruno Mondadori, 2003. Versione in rete pubblicata con il consenso dell'autrice, dei curatori e dell'editore.


Specchio di Mnemosyne e luogo del dialogo incessante con il passato, l'immagine della biblioteca percorre la letteratura occidentale con la vitalità inesauribile di una costante topica. È il "gabinetto magico" degli spiriti stregati che si risvegliano al passaggio del lettore, come voleva Emerson, ma al tempo stesso incarna una visione precisa della tradizione, sovente interpretata in termini di conflittualità e metamorfosi. A partire da Don Chisciotte la biblioteca diventa un luogo determinante nella vicenda di molti romanzi, autentico cronotopo che offre all'autore un pretesto per la riflessione estetica o metaletteraria, poiché la galleria dei libri rappresenta una trama complessa di rapporti intertestuali che si moltiplicano nell'allusione ad altre biblioteche immaginarie e talvolta costituisce la cornice della scrittura stessa, come in Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979) dove Calvino si propone di scrivere non il libro totale, ma tutti i libri, cioè un'intera biblioteca. Attraverso la presenza dei libri nei libri è possibile seguire l'evoluzione dell'idea di letteratura e del mondo che si trasforma in maniera radicale soprattutto in età moderna, quando un sentimento di inquietudine si insinua tra gli scaffali barocchi a turbare il sogno enciclopedico di totalità, e la permanenza del leibniziano thesaurus omnis humanae cognitionis appare insidiata dall'oblio e dalla rovina. Tale processo si manifesta in parte nell'Adone di Giovan Battista Marino (1623), il quale descrive nel capitolo decimo sulle "Maraviglie" una biblioteca universale, enciclopedia incorruttibile del sapere sottratto all'effimero:

Così parlando, per eccelse scale
sovr'aureo palco si trovàr saliti,
e quindi entraro in Galeria reale
che volumi accogliea quasi infiniti.
Eran con bella serie in cento sale
riposti in ricchi armari e compartiti,
legati in gemme, ed ogni classe loro
distinguea la cornice in linee d'oro.
[...]
Molti n'eran vergati in molle cera,
molti in sottili e candide membrane.
Parte in fronde di palma, e parte n'era
di piombo in lame ben polite e piane.
In Caldeo ve n'avea scritta una schiera,
altri in lettre Fenicie e Sorïane,
altri in Egizzii simboli e figure,
altri in note furtive, e cifre oscure.

Paradiso dei libri, arca di salvezza costruita sul Cielo della Luna, tempio di intatta perfezione, monumento alla durata che contende la scrittura al divenire, ma nel contempo la astrae dalla vita, la "Biblioteca de' libri segnalati" appare invero come la prima Babele libraria della modernità per la sua aspirazione ad essere infinita e totale, e soprattutto per la convivenza di lingue molteplici ed enigmi indecifrabili. Si rispecchia qui la vocazione enciclopedica del Seicento, secolo che non esplora l'universo bensì la biblioteca, come osserva Benjamin, inseguendo l'utopia dell'unità organica dello scibile conservato in forma di sistema, alla ricerca di un ordine nuovo. La biblioteca di Mercurio nell'Adone è una sorta di proiezione platonica che conserva eterno e imperituro l'originale di ogni libro soggetto alla devastazione del tempo e all'inevitabile corruzione terrena. Tuttavia nell'archivio dell'ordine astratto, che non ammette l'invenzione del nuovo per assicurare i valori eterni della letteratura, si trova anche un inferno di "libri sciolti, | ch'avean malconce e lacere le carte, | tutti sossovra in un gran mucchio accolti", "rosi dal tarlo, e ne la polve involti", esclusi dal "bell'ordine" perché giudicati indegni di memoria e conservazione, quindi condotti dal Tempo "ad attuffar nel rio | che copre il tutto di perpetuo oblio".

A questo universo concluso e impenetrabile si contrappone la desublimazione della "Libreria de' Gastrimargi" nel Racconto decimo del Cane di Diogene di Francesco Fulvio Frugoni (1687-89), elenco "estravagante" per l'argomento delle opere, giacché "tutti que' volumi, d'alta grassa, d'altro non trattavano che de esculentis et poculentis, ond'influivano in mirarli, non che in leggergli, una pigra lentezza, poiché s'apprendea da loro la scienza di poltroneggiare con tutto lo spirito". Questo mondo sconvolto e capovolto, che sovverte il modello della cultura edificante, riprende in maniera evidente l'eccentrico repertorio della biblioteca di Sainct Victor nel Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, enumerazione dissacratoria di titoli inventati nell'intento di colpire attraverso la deformazione parodica i fondamenti dell'istruzione tradizionale, con irriverenza manifesta nei confronti di eruditi, ecclesiastici e giuristi, depositari del sapere scolastico. In questo modo la degradazione suscitata dal riso demolisce il culto del passato per sostituire al sacrario dei libri custoditi come reliquie l'immagine più dinamica della biblioteca moderna, luogo di innovazione e trasmissione vitale.

Peraltro la rappresentazione statica della biblioteca viene definitivamente turbata all'inizio del Settecento con La battaglia dei libri, dove Jonathan Swift rappresenta la controversia tra Antichi e Moderni attraverso una sorta di personificazione delle opere che introduce tra gli scaffali un'inedita tensione agonistica. Così la St. James Library diventa scenario di una disputa accesa, campo di battaglia dove il tumulto dei libri contrasta in modo dissonante con una tetra visione mortuaria: "Ma io credo che accada nelle biblioteche quello che accade negli altri cimiteri, dove secondo alcuni filosofi uno spirito, da essi chiamato "Brutum hominis", aleggia sopra ogni monumento finché il corpo non si decompone e si trasforma in polvere o in vermi, per poi svanire e dissolversi. Così, possiamo affermare, uno spirito inquieto aleggia sopra ogni libro finché la polvere o i vermi non se ne impadroniscono". L'illusione di vita che anima la querelle degli spiriti risvegliati quasi per virtù negromantica attenua solo in parte l'angoscia intimamente moderna della dissoluzione e dell'annullamento che incrina l'armonia dei libri, ormai dominata da una conflittualità che sembra anticipare le contraddizioni delle biblioteche novecentesche.

Dopo la dissacrazione parodica condotta da Laurence Sterne nella biblioteca monografica e patologica di Tristram Shandy, interamente dedicata all'"argomento dei nasi", la satira si rivolge con Leopardi contro le edizioni di lusso raccolte dal conte Leccafondi nei Paralipomeni della Batracomiomachia, in aperta polemica contro un sapere vasto e prezioso, ma del tutto inutile: "La biblioteca ch'ebbe, era guernita | di libri di bellissima sembianza, | legati a foggia varia, e sì squisita, | con oro, nastri ed ogni circostanza, | ch'a saldar della veste la partita | quattro corpi non erano abbastanza. | Ed era ben ragion, che in quella parte | stava l'utilità, non nelle carte" (I, 39). Alla biblioteca dei moderni corrisponde lo studio di Dedalo "di libri preziosi adorno", elenco fittizio "d'autori topi antichi e di recenti": "i Delirii del gran Fiutaprofumi, | la Trappola, tragedia in atti venti, | Topaia innanzi l'uso de' salumi, | gli Atti dell'Accademia de' Dormienti, | l'Amico de' famelici, ed un cantico | per nascita reale in foglio atlantico" (VII, 6). Ancora una volta si osserva un procedimento di sovversione parodica ottenuta attraverso una trasposizione straniante che sembra riecheggiare gli eccessi di Rabelais e Frugoni.

D'altra parte anche Manzoni sceglie la stanza dei libri per manifestare la condanna del sapere vano nei Promessi sposi, concepito a sua volta nella biblioteca che contiene il manoscritto dell'anonimo. In particolare attraverso la digressione sulla biblioteca di don Ferrante nel capitolo XXVII, "una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato", si sviluppa un'acuta analisi psicologica del letterato enciclopedico che cela sotto il velo dell'ironia la polemica contro la pomposa ignoranza dell'erudizione secentesca. In questa sovrapposizione tra libro e vita prevale la suggestione di Don Chisciotte, con la reminiscenza dell'Antiquario (1816) di Walter Scott, dove Jonathan Oldbuck raccoglie i libri in una collezione caotica e polverosa, "avanzi dei tempi antichi" abbandonati tra oggetti bizzarri, irrimediabilmente sottratti a una lettura vivificatrice e condannati all'inerzia tra carte geografiche, incisioni, pergamene, sciabole, pugnali, elmi e scudi. Alla biblioteca barocca o, come scrive Calvino, "museo della falsa scienza" raffigurato con ironia sottile ma tagliente, Manzoni contrappone la biblioteca Ambrosiana, la quale con i suoi "trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti" incarna l'ideale illuminato di una cultura viva, costantemente aggiornata, europea e cosmopolita, ampiamente divulgata e accessibile a tutti. E così, nel romanzo che contiene in sé una pluralità di biblioteche, l'Ambrosiana appare come unico modello di vera scienza, in contrasto con l'iniquità del "grande scaffale di libri vecchi e polverosi" del dottor Azzeccagarbugli e con le letture ottuse di don Abbondio.

L'eredità di don Ferrante, fiducioso sino alla fine nel suo sillogismo barocco, si trasmette al barone di Nicastro di Ippolito Nievo, figura singolare di antieroe nel romanzo omonimo del 1857 che racconta la ricerca della virtù e le assurde peripezie per trovarla. Qui la biblioteca è origine e meta della narrazione, ma al tempo stesso diventa ancora una volta oggetto dell'ironia quale simbolo di una cultura immobile e desueta: " "Studiar il valor degli uomini e delle cose!..." pensava il giovane romito, vedendo fisarsi in lui dai profondi scaffali l'occhio vitreo e miscredente dei morti scrittori; "Converrebbe aver tra mano le anime non i libri!... pure anche il notomista cerca nei cadaveri la scienza della vita, e cosa son altro i libri se non le reliquie degli spiriti?" ". Sorretto dalla fiducia nell'armonia prestabilita, certezza ottimistica che lo rende simile al Pangloss di Voltaire, Camillo Nicastro può constatare alla fine l'inesistenza di un "complemento dialettico" alle contraddizioni del reale, e si ritira nella biblioteca di famiglia "ove la sapienza dormiva taciturna e infeconda in un buio pieno di mistero o di nulla", precursore dell'utopia di Bouvard e Pécuchet, i quali alla fine rinunciano a capire il mondo. E tra questi "polverosi zibaldoni", trasforma il motto avito "Pesare e pensare" nella "vera ricetta per guidar la Scienza a trovar la Virtù ricompensata colla felicità", riassunta infine nella formula "Pesar poco, pensar nulla". La distanza ironica diventa poi contestazione manifesta nella Vita d'Alberto Pisani (1870) di Carlo Dossi, il quale presenta nell'esordio del quarto ovvero primo capitolo la biblioteca polverosa e stantia della tradizione, simile a una Wunderkammer barocca che richiama per certi aspetti la raccolta antiquaria di Scott:

Degno di Paracèlso! È lo studio degli studi. Sente il tabacco, l'inchiostro e la citazione latina. È a tramontana, a terreno; è a volta da cui die' in fuori l'umidità. Tien le pareti, tutte a scaffali, con su spaventosi volumi in ramatina come la maggiorana sospirata dai gatti. Ecco i dieci schienali arabescati di oro della rarissima opera "de nùmero atomorum"; presso, è la completa voluminosa sèrie delle gramàtiche (gramàtica, cioè a dire, il modo con cui si apprende a piedi a montare a cavallo); poi, raccolta delle più massiccie disputazioni... e quella sulla parola culex, e l'altra intorno alla lèttera e considerata siccome còpula, e la arcifiera "sulla natura dell'aurèola del Monte Tàbor". Ed ecco, in un tratto dell'ùltimo palco, il famoso trattato "de nuce beneventana" quaranta tomi in-octavo, vestiti di pergamena, i quali, per il manco di uno, sèmbran dentiera priva di un dente occhiale; ecco -- tagliando corto -- una infinita turba di libraccioni, e nelle scansìe e fuori, spècula, theatra, convìvia, thesàura... di astrologìa, teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ia, -- tutta marròca.

Ma in questo caso si passa dal rifiuto dell'erudizione sterile, di chiara ascendenza manzoniana, a una volontà distruttiva che sembra preludere al furore biblioclasta di Filippo Tommaso Marinetti, il quale considerava musei, biblioteche e accademie come "cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci stroncati":

Però, si faccia prima tonnina di questa gran taràccola d'ipocrisìa e di scienziata idiotàggine; si abbàttano le illustrìssime sedie... dalle, allo scrittojo! una spinta, un'altra. [...] E lo scrittojo patatràcca giù; vanno sossopra scartafacci e libroni; la boccia d'inchiostro si spezza... quante dissertazioni abortite!... [...] Stracciamo dalle loro coperte di cuojo, scarpe andate a male, tante poltrone scritture. [...] Giù tai volumi, che nessuno più vuole, che fan starnutare chi li apre! Solo, rispàrmiami le cartapecore... per le ciliegie allo spìrito. Ma, non perdòno a' scaffali! strappa; uno tràe l'altro; tutto è tarlato, muffito... Che svolazzo di tarme! che còrrer briaco di topi!

In modo analogo all'incendio che negli Indomabili di Marinetti distruggerà i "libri coricati", "le culle, i letti e le tombe dei Cartacei" per generare "sfolgoranti adamantine parole in libertà", nella pagina di Dossi solo la demolizione fisica dei relitti inerti del passato, tabula rasa di questa tomba dell'invenzione, può consentire la fondazione del nuovo in una biblioteca elegante e luminosa, dove il pensiero trova finalmente un respiro libero dall'atmosfera soffocante dell'"infinita turba di libraccioni":

E si ripari in un altro studio; ben grazioso, bellino, n'è vero? Quì, la scienza non teme la luce; questa, entra a larghìssime ondate. [...] No, quì non ci ha perìcolo d'instupidirsi a furia di sgobbo, quì bisogna pensare col proprio cervello, e quì i pensieri, passati a ingentilirsi nel cuore, dèvono saltellare allegri giù dalle dita lungo quella cannuccia d'argento a penna d'acciajo [...]. I libri, nel nostro studiolo, chiusi in una breve scansìa di àcero rimpetto al camino son, quasi tutti, vivi, vivìssimi. Pochi, ma con i baffi. E vàlgono una biblioteca di centomila volumi, se, a dire il vero, non la val l'abicì, che tien, fra il panetto e la mela nel panierino lo scolaruccio.

Alla fine dell'Ottocento l'esigenza di rinnovamento congiunta a uno spirito sovversivo scuotono l'equilibrio della biblioteca convenzionale, la quale si trasforma nel laboratorio di una nuova estetica, come nel caso di Huysmans, che in A rebours (1884) fonda tra i libri di Des Esseintes il canone del decadentismo. E tra le pareti in marocchino di questa singolare biblioteca, scenario ideale del catalogo decadente selezionato in contrapposizione al culto della latinità classica, si assiste alla distruzione non cruenta, ma ugualmente radicale, di una cultura ormai logora:

In fatto di mobili, Des Esseintes non dovette operare lunghe ricerche, l'unico lusso di questa stanza dovendo consistere in libri e fiori rari; si limitò, riservandosi di ornare più tardi con disegni o quadri le pareti rimaste nude, a collocare sulla maggior parte dei muri dei palchetti e degli scaffali di biblioteca in legno d'ebano, a coprire il pavimento con pelli di bestie feroci e pellicce di volpi azzurre, a installare presso una massiccia tavola di cambiavalute del secolo XV, profonde poltrone ad appoggiatesta e un vecchio leggio di cappella, di ferro battuto, uno di quegli antichi leggii su cui il diacono poneva un tempo l'antifonario e che sosteneva adesso uno dei pesanti in-folio del Glossarium mediae et infimae latinitatis di Du Cange.

Nella luce artificiale di questa stanza si distilla il paradigma della letteratura decadente, specchio di una sensibilità raffinata sino all'estenuazione che esalta la tarda latinità per le "seduzioni della decomposizione stilistica", la stravaganza, l'eccesso morboso, riconoscibili anche nei poeti francesi della fine dell'Ottocento, in particolare Baudelaire, il quale aveva esplorato i recessi dell'anima rivelandone l'abisso. Non per caso i libri si dispongono in un ordine bipartito per riflettere l'affinità tra queste letterature di decadenza: "Le vecchie edizioni, amate da Des Esseintes, cessavano e, con un salto formidabile di secoli, i libri si allineavano adesso sugli scaffali, sopprimendo la transizione dei tempi, arrivando direttamente alla lingua francese del presente secolo". Ma lo iato che divide la biblioteca anticlassica è il vuoto della memoria che nega la tradizione per affermare un nuovo canone estetico.

L'eccentrico "studio arancione e azzurro" di Des Esseintes suggestiona intensamente l'estetismo europeo e ritorna, in forma per così dire degenerata, nella biblioteca erotica del marchese di Mount Edgcumbe nel Piacere di d'Annunzio (1889), "armario segreto" che custodisce edizioni rare e preziose, le quali appagano l'avida brama del bibliomane: "Le rilegature dei volumi erano mirabili. Una pelle di pescecane, rugosa e aspra come quella che avvolge l'elsa delle sciabole giapponesi, copriva le due facce e il dorso; i fermagli e le borchie erano d'un bronzo assai ricco d'argento, opere di cesello elegantissime che ricordavano i più bei lavori in ferro del secolo XVI" (IV, 1). Ma al gusto sensuale dell'oggetto raffinato si congiunge all'improvviso una sorta di repulsione per questa raccolta di oscenità, la quale "comprendeva quanto di più raffinato e di più infame l'ingegno umano ha prodotto nei secoli per comento dell'antico inno sacro al dio di Lampsaco: Salve, sancte pater". Questi libri, che annoverano tra l'altro tutti gli scritti di De Sade, suscitano nella fantasia di Andrea Sperelli pulsioni morbose e crudeli, un turbamento febbrile che alla fine diventa "terribile angoscia": "La stanza tappezzata di damasco rosso cupo, come la stanza dove Elena due anni innanzi erasi data a lui, gli parve allora tragica e lugubre. [...] L'armario aperto lasciava vedere le file dei libri osceni, le rilegature bizzarre impresse di simboli fallici". Ormai lontana dalla serenità dell'arte e turbata da un'ebbrezza dionisiaca, la "biblioteca arcana" appare ora pervasa da un'inquietudine insolita, senso angoscioso del vuoto, malessere intenso che prefigura in qualche modo la crisi del soggetto nel romanzo novecentesco, spesso rappresentata proprio attraverso l'invenzione della biblioteca.

Non per nulla il cronotopo bibliotecario del Novecento si inaugura con Il fu Mattia Pascal del 1904, dove Pirandello immagina una "vera babilonia di libri", regno del disordine che infrange definitivamente l'armonia della letteratura: "e siccome i libri furon presi di qua e di là nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile". Nell'accostamento imprevedibile tra opere edificanti e testi licenziosi che intrecciano amicizie "speciose" in una chiesa sconsacrata -- "per l'umidità le legature dei due volumi si erano fraternamente appiccicate" -- si realizza il sentimento del contrario sul quale Pirandello fondava la poetica dell'Umorismo (1908), in origine dedicato alla "buon'anima di Mattia Pascal bibliotecario". Dominio della casualità dove Mattia Pascal si ritira per raccontare la propria storia, la biblioteca di Miragno è l'immagine della totalità frammentata dal potere deformante dell'umorismo, rivoluzione copernicana che disgrega l'ordine classico e conduce alla perdita del centro. Qui l'incubo del disordine e della lesmosyne invade il tempio della lettura, dissemina le sue tracce tra i resti di una cattedrale distrutta, secondo un motivo recentemente ripreso anche da Ermanno Cavazzoni nelle Tentazioni di Girolamo. A questo punto il nuovo libro può nascere soltanto all'interno di una biblioteca babelica che riunisce frammenti di conoscenza secondo l'imponderabile legge del caso: "la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati; io accorro dall'abside, scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe'l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo". Qui la dimensione cartacea assume una precisa connotazione esistenziale, evidente anche nelle novelle, dove si accentua la dissociazione tra libro e vita nel momento in cui il personaggio rinchiuso nella stanza dei libri perde il contatto con la realtà, come il protagonista del Fumo, che legge passi virgiliani a una scimmia.

In questo modo la biblioteca pirandelliana si sottrae al tumulto vitale e si trasforma in una stanza della tortura, come una prigione che cristallizza il movimento magmatico e inarrestabile dell'esistere nell'ordine rigido dei libri. Tale contraddizione risulta particolarmente visibile nel Mondo di carta, con un personaggio ormai cieco per la "mania furiosa della lettura" che fiuta e palpa i volumi come corpi vivi: "con la fronte appoggiata sul dorso dei libri allineati sui palchetti degli scaffali, passava ora le giornate quasi aspettando che, per via di quel contatto, la materia stampata gli si travasasse dentro". Con questa inutile ricerca del calore della "realtà vera" nei libri, Balicci condanna se stesso a un simulacro di esistenza quasi asettico e del tutto inaccessibile al mondo esterno: "Non si doveva toccare. Il freddo, la neve, quei fiori freschi, e l'ombra della cattedrale. -- Niente lì si doveva toccare. Era così e basta. Il suo mondo. Il suo mondo di carta. Tutto il suo mondo". L'ossessione della biblioteca prigione assilla anche Lando Laurentano nel romanzo I vecchi e i giovani (1913), il quale però si ribella all'ordine cristallizzato poiché "provava un sentimento indefinibile di pena angustiosa nel vedere ridotta lì in parole quella che un giorno era stata vita, ridotto in dieci o venti righe di stampa, tutte allo stesso modo interlineate con ordine preciso, quello ch'era stato movimento scomposto, rimescolio, tumulto". Questa "ricca biblioteca", con i suoi "alti e ampi scaffali", rappresenta l'illusione fallace di un'armonia ormai impossibile, forma irrigidita che tenta di arrestare il flusso continuo, alla quale Pirandello sostituisce una visione più dinamica: "Composizioni artificiose, vita fissata, rappresa in forme immutabili, costruzioni logiche, architettoniche mentali, induzioni, deduzioni -- Via! via! via! Muoversi, vivere, non pensare!".

Immobilità e assenza di vita contraddistinguono anche la biblioteca di Joyce nell'episodio Scilla e Cariddi al centro dell'Ulisse (1922), che diventa luogo di riflessione sul problema della paternità connesso al tema dell'artista e della sua missione. Tempio, santuario, cella funeraria, questa biblioteca contiene libri imbalsamati, che tuttavia continuano a diffondere un richiamo flebile ma seducente, reliquie di un passato che si risveglia in voci di fantasma per una resurrezione parziale ed effimera, parvenza di vita breve e artificiale:

La quiete possedè d'un tratto la discreta cella a volta, quiete di un'atmosfera calda e meditativa. Una lampada di vestale. Qui egli pondera su cose che non furono [...] Pensieri chiusi in bare attorno a me, in casse da mummie, imbalsamati con aromi di parole. Thot, dio delle biblioteche, un dio-uccello, lunicoronato. E io sentii la voce di quel gran sacerdote egiziano. In camere dipinte piene di libri di laterizio. Sono immobili. Una volta vivi nei cervelli degli uomini. Immobili: ma un prurito di morte è in loro, di mormorarmi all'orecchio un racconto zuccheroso, spingermi a realizzare le loro voglie.

Il senso della letteratura come conflitto tra padri e figli si traduce nella visione funebre dei libri di pietra, tombe del passato, cimitero di spettri che aspirano a una innaturale e prolungata sopravvivenza, mentre attraverso la figura di Toth, mitico inventore della scrittura, si ripropone l'idea della biblioteca come luogo della dialettica perenne tra invenzione e tradizione, effimero ed eterno, memoria e oblio. E conviene ricordare che l'immagine della biblioteca alessandrina veniva reinterpretata anche da Saint-John Perse in Venti (1946) con la "Basilica del Libro", dove i volumi riposano simili a corpi mummificati, segni visibili della stratificazione delle ère, oggetti sacri da custodire nel tempio dedicato al dio Serapide:

L'uomo a testa nuda e mani lisce in quelle specie di cave di marmo giallo -- dove stanno i tomi nel serraglio, dove stanno i tomi nelle loro nicchie, come un tempo, avvolte d'infule, le bestie imbalsamate entro campane di vetro, nelle stanze chiuse dei grandi Templi -- i tomi tristi, innumeri, portanti in grandi strati incrostati credito e sedimento attraverso il crescere del tempo... E i muri sono d'agata dove risplendono le lampade. Alti muri politi dal silenzio e dalla scienza, e dalla notte delle lampade. Silenzio e silenziosi uffici. Preti e sacerdozio. Serapèo! (I, 4).

D'altra parte la biblioteca può diventare meta di un itinerario conoscitivo, come nell'Uomo senza qualità di Robert Musil, dove la ricerca dell'"idea salvatrice" conduce il generale Stumm nella Oesterreichische Nationalbibliothek, presunta fortezza del sapere universale. L'ingresso nella "celebre biblioteca di corte" è paragonato all'assalto delle "linee nemiche", con una metafora bellica che ritornerà poi in Auto da fé di Elias Canetti (1935) a sottolineare l'ostilità dei libri:

Percorremmo quella colossale profusione di libri e posso dire che non mi sentivo turbato, le file di volumi non son peggio di una sfilata militare. [...] Quando vedo che la passeggiata non finisce e chiedo spiegazioni al bibliotecario, sai quanti volumi contiene quella dannata biblioteca? Tre milioni e mezzo, m'ha risposto! Siamo circa al settecentomillesimo, dice lui, ma io mi metto a calcolare... be', non voglio annoiarti, ma al Ministero ho rifatto il conto con carta e matita: diecimila anni mi ci vorrebbero per venirne a capo! (cap. 100).

Già bibliotecario al Politecnico di Vienna dal 1911 al '14, Musil descrive lo smarrimento dinanzi all'iperbolica babele libraria, senso tormentoso di spaesamento connesso alla coscienza di un sapere illimitato che sfugge a ogni tentativo di classificazione. Ed ecco che la biblioteca, grande metafora dell'universo, rivela all'improvviso la propria verità: "In quel momento mi son fermato su due piedi e tutto l'universo mi è sembrato un grande imbroglio. Anche adesso che mi sono calmato, ti dico e ti ripeto: qui c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato!". Così il generale Stumm scopre l'assurdità di un universo dominato da leggi oscure e inafferrabili, dove non è concesso trovare "l'idea più bella del mondo", né tantomeno il libro sull'"Avveramento dell'essenziale". Per di più l'ordine apparentemente perfetto della "stanza del catalogo" è soltanto un gioco infinito di specchi che vanifica lo sforzo conoscitivo, "manicomio", dimensione del caos e dell'irrazionale, dove l'eccesso di logica si rovescia nella follia:

Dunque eccomi proprio nel sancta sanctorum della biblioteca. Posso dirti che mi pareva di essere entrato nell'interno di un cervello; tutt'intorno nient'altro che scaffali con le loro celle di libri, e dappertutto scalette per arrampicarsi, e sui leggii e sulle tavole mucchi di cataloghi e di bibliografie, insomma tutto il succo della scienza e nemmeno un vero libro da leggere, ma soltanto libri sui libri; c'era per davvero odore di fosforo cerebrale, e non credo di illudermi se dico che avevo l'impressione di essere arrivato a qualcosa! Ma naturalmente, quando l'uomo fa per lasciarmi solo, mi sento un non so che di strano, una specie di angoscia; sì, rispetto e angoscia!

Suddivisa in loci secondo i principî dell'antica arte di memoria, la biblioteca di Musil sembra visualizzare un sistema mnemonico che colpisce soprattutto per l'accostamento tra libri e cervello, per il quale si può ricordare una pagina del Traité de l'existence de Dieu dove Fénelon illustrava i meccanismi del ricordo proprio attraverso l'idea della riserva cerebrale di pensieri e immagini. Ma nel magazzino novecentesco della memoria svanisce l'illusione di attingere la verità, mentre prevale l'angoscia dell'infinito, nella consapevolezza che l'uomo "non potrà mai vedere tutto l'insieme". A ciò si aggiunge il paradosso di un bibliotecario che conosce tutti i libri perché non li ha mai letti e l'ossessione di una classificazione totale, che è poi l'utopia della conoscenza assoluta. In questo modo si sviluppa tra gli scaffali la meditazione filosofica sul segreto indecifrabile dell'ordine universale: "Noi tutti siamo persuasi, vero, che il nostro secolo è pressapoco il più ordinato che si sia mai visto. [...] ma alla fine prova a immaginarti soltanto un ordine completo, universale, un ordine di tutta l'umanità, in una parola un ordine civile perfetto; ebbene, io sostengo che questa è la morte di freddo, la rigidità cadaverica, un paesaggio lunare, una epidemia geometrica". L'indagine gnoseologica si scontra con l'algida perfezione del sistema ordinato, riflesso dell'universo indifferente all'uomo e ai suoi bisogni, quasi rigidezza mortuaria. E nell'ordine che "si trasforma in un bisogno di morte" Musil rappresenta lo scacco conoscitivo ed esistenziale di fronte all'inconoscibile, ma anche la condanna di istituzioni disumane che annientano l'individuo.

La ricerca del senso e dell'autenticità del reale si unisce poi al tema della biblioteca nella Nausea di Sartre (1938), dove Antoine Roquentin tenta di sfuggire il vuoto doloroso della coscienza nel rifugio dei libri, il quale però si svela all'improvviso come dominio dell'inconsistenza. Ed ecco l'epifania della "nausea", vertigine di inesistenza, percezione dell'assurdità del mondo come puro apparire che nemmeno la letteratura può redimere, "scenario di cartone" incapace di "fissare i limiti del verosimile" per vincere l'angoscia esistenziale: "La nebbia aveva invaso la stanza: non la nebbia vera, che si era dissipata da tempo: l'altra, quella che riempiva ancora le strade, e che usciva dai muri, dal selciato. Una specie d'inconsistenza delle cose. I libri erano sempre là, naturalmente, disposti in ordine alfabetico negli scaffali, coi loro dorsi neri o bruni e le etichette [...] Così questi oggetti servono almeno a fissare i limiti del verosimile". Al contrario l'ordine sistematico dei volumi non è più garanzia di stabilità, e quando i "libri pieni di scienza" diventano "esseri instabili", "deboli barriere", anche il soggetto scopre tragicamente il proprio "essere nel nulla".

Progressivamente il libro perde l'antico valore di strumento benefico e all'idea della biblioteca farmacia, nella quale confidava ancora Hermann Hesse all'inizio del secolo, subentra l'ostilità della biblioteca cauchemar, peraltro presagita da Edmond Rostand in Les Musardises del 1891, dove gli uomini, "prisonniers entre les quatre murs | D'une bibliothèque aux fenêtres grillées" comprendono l'inautenticità del mondo di carta -- "Car nous n'avions rien vu, rien connu, rien aimé | Que l'image du monde et le portrait des choses!" -- prima di soccombere all'assalto dei libri in rivolta: "Et plus on écrivait, et plus on imprimait, | Plus les quatre parois s'épaississant de livres, | Automatiquement sur nous se renfermait | La chambre où des mots creux nous tenaient lieu de vivres" (XIII). Si annuncia qui la negatività della biblioteca novecentesca chiaramente intuita da Ortega y Gasset, il quale in Missione del bibliotecario (1935) prevedeva che la proliferazione vertiginosa e inarrestabile dei libri avrebbe soffocato l'uomo contemporaneo come una vegetazione tropicale.

Invero la profezia del conflitto con il libro come preludio di frantumazione entropica sembra realizzarsi in Auto da fé di Canetti, il quale rappresenta il crollo inevitabile della fortezza di carta, torre d'avorio murata per escludere il mondo esterno: "Tutte le pareti erano tappezzate di libri fino al soffitto. Vi fece scorrere sopra lo sguardo lentamente. Nel soffitto si aprivano dei lucernari. Era orgoglioso di quella sua luce che pioveva dall'alto. Le finestre erano state murate parecchi anni prima, dopo una dura battaglia con il padrone di casa. In tal modo egli aveva guadagnato in ogni stanza una quarta parete, il che significava più posto per i libri" (Una testa senza mondo). Tuttavia la "biblioteca ricca, ben ordinata e chiusa da tutti i lati, nella quale nessun mobile superfluo, nessuna persona superflua lo distogliesse dai suoi gravi pensieri" appare destinata a trasformarsi nella stanza dell'incubo, estensione simbolica del corpo di Peter Kien, il quale per il suo singolare cervello può essere considerato l'incarnazione novecentesca del motivo topico dell'uomo biblioteca, particolarmente vivo nella cultura rinascimentale con Pico della Mirandola e in opere come la Plutosofia (1592) di Filippo Gesualdo, che contemplava una Libreria della memoria. Infine l'assillo librario degenera in allucinata follia e si compie il destino scritto nei nomi originari del protagonista -- "Büchermensch" l'uomo dei libri, o "Brand" incendio -- colpevole di un peccato di superbia intellettuale che sarà punito con un accecamento da tragedia greca, inesorabilmente votato all'autodistruzione nel fuoco purificatore che ricorda il rogo dei libri di Cervantes: "Libri e libri si rovesciano dagli scaffali sul pavimento. [...] Gli scaffali gli spalancano in faccia occhiaie vuote. [...] Quando finalmente le fiamme lo raggiungono ride forte, come non ha mai riso in tutta la sua vita".

Simile alla barbara allegrezza leopardiana, la risata dell'incendiario sull'orlo del nulla conclude Auto da fé suggellando l'apocalisse della biblioteca novecentesca, in cui si rappresenta la fine dell'universo ordinato e della conoscenza sistematica, con la deflagrazione dell'unità in una pluralità caotica di frammenti, come nel Nome della rosa di Umberto Eco, dove la biblioteca dell'Abbazia "era stata condannata dalla sua stessa impenetrabilità, dal mistero che la proteggeva, dall'avarizia dei suoi accessi". Dopo l'ecpirosi finale, conflagrazione universale che secondo la dottrina stoica avrebbe condotto alla rinascita, sopravvivono solamente "larve di libri", "brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri" di una "biblioteca minore", la quale può ritrovare in tale maniera il "lungo e secolare sussurro" del "dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena".

Nato da un disegno oscuro per custodire un segreto insondabile, questo labirinto terreno e spirituale costituisce la grande metafora dell'"universo mondo", raffigurazione di un ordine immanente che l'uomo non può comprendere. È l'"edificio colossale" che Victor Hugo immaginava in Notre-Dame de Paris (1831), la "seconda torre di Babele del genere umano" appoggiata sul mondo intero alla quale l'umanità lavora senza interruzione, "l'alveare in cui tutte le immaginazioni, queste api dorate, arrivano con il loro miele", edificio di mille piani con "caverne tenebrose della scienza intrecciantesi nelle sue viscere", immensa costruzione sempre incompiuta "che cresce e si ammucchia in spirali senza fine" (V, 2). E già si intravede la struttura infinita, interminabile, totale, illimitata e periodica, incorruttibile e segreta concepita da Borges nella Biblioteca di Babele (1941): "L'universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d'un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile".

Nell'incontro di caos e cosmos è racchiusa la verità che l'uomo "imperfetto bibliotecario" sogna di decifrare, sempre sospeso tra l'"illusione della compiutezza" e la "vertigine dell'inafferrabile", come annota Perec, suggerendo che "l'ordine e il disordine siano due termini che si equivalgono nel designare il caso". O forse nella torre dove il "guardiano dei libri" custodisce "le leggi eterne, | il concerto dell'orbe", si cela l'incubo del "libro di sabbia", simbolo perturbante dell'infinito: "Sono là nei loro alti palchetti, | remoti e prossimi a un tempo, | visibili e segreti come gli astri". E così, attraverso le gallerie infinite della biblioteca, la ricerca del vero insegue il miraggio dell'ordine sospeso sull'abisso, con l'illusione di afferrare l'essenza dell'universo vertiginosamente riflessa nella moltiplicazione scintillante e illimitata del libro.


Bibliografia primaria

Borges, Jorge Luis, Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori, 1984, vol. I.

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Leopardi, Giacomo, Paralipomeni della Batracomiomachia, a cura di M.A. Bazzocchi e R. Bonavita, Roma, Carocci, 2002.

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Nievo, Ippolito, Il barone di Nicastro, Milano, Serra e Riva editori, 1980.

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Rostand, Edmond, Les Musardises, Paris, Librairie Charpentier et Fasquelle, 1911.

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Sartre, Jean-Paul, La nausea, Milano, Mondadori, 1965, trad. di B. Fonzi.

Swift, Jonathan, Scritti satirici e polemici, a cura di H. Davis, Torino, Einaudi, 1988, trad. di A. Meo e A. Rossatti.


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Baldissone, Giusi (a cura di), Biblioteca: metafore e progetti, Milano, Franco Angeli, 1994.

Canfora, Luciano (a cura di), Libri e biblioteche, Palermo, Sellerio, 2002.

Canfora, Luciano, Libro e libertà, Roma-Bari, Laterza, 1994.

Castillo, Debra, The translated world: a post-modern tour of libraries in literature, Tallahassee, Florida university press, 1984.

Chaintreau, Anne-Marie; Lemaître, Renée, Drôles de bibliothèques...: le thème de la bibliothèque dans la littérature et le cinéma, Paris, Éditions du Cercle de la librairie, 1993.

Di Carlo, Carla (a cura di), La biblioteca, introduzione di A.M. Caproni, Milano, Sylvestre Bonnard, 2001.

Eco, Umberto, De bibliotheca, in Sette anni di desiderio, Milano, Bompiani, 1983.

Hamon, Philippe, "La bibliothèque dans le livre", in Interférences, 1980, n. 5.

Nisticò, Renato, La biblioteca, Roma-Bari, Laterza, 1999.

Ortega y Gasset, José, La missione del bibliotecario, Milano, SugarCo, 1994, trad. di A. Lozano Maneiro e C. Rocco.

Perec, Georges, Pensare/classificare, Milano, Rizzoli, 1989, trad. di S. Pautasso.


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