di Claudio Marradi
«Il mondo è pericoloso non a causa di
quelli che fanno del male, ma di quelli che guardano e che lasciano
fare». È con le parole di Albert Einstein che Francesco
Langella, direttore della Biblioteca internazionale per la gioventù
"E. De Amicis" di Genova, ha aperto l'incontro con Telefono
azzurro che si è tenuto giovedì 14 novembre 1996.
L'occasione, che ha visto riuniti nei locali della
biblioteca Luciana Porzio, coordinatrice degli operatori di Telefono
azzurro, Giovanni Meriana assessore alla cultura del Comune di
Genova, Giorgio Bini, pedagogista e Maria Pia Alignani, promotrice
dell'incontro, costituiva un doppio debutto. Era la prima "uscita"
nel capoluogo ligure nella storia ormai decennale di una realtà
come Telefono azzurro ed era la prima volta che una biblioteca
per ragazzi ospitava un'iniziativa di questo genere. Nata nel
1971 e operante da venticinque anni nel settore della letteratura
per ragazzi e per l'infanzia, la "De Amicis", che ha
recentemente allargato il suo raggio d'interesse a tutti quegli
aspetti - dal fumetto al cinema, dalla televisione all'illustrazione
- che concorrono alla formazione del variegato mosaico dell'immaginario
infantile contemporaneo, si apriva così per la prima volta
al lato più oscuro e problematico, spesso il più
rimosso, della condizione dell'infanzia nella società contemporanea.
E per una sera un universo di sofferenze silenziose e di sopraffazioni
nascoste che periodicamente si guadagnano l'attenzione delle cronache
con episodi che hanno visto probabilmente il culmine nell'agghiacciante
vicenda di Marcinelle in Belgio, ha allungato la sua ombra sugli
scaffali che ospitano le storie di orchi, lupi cattivi e tutti
gli innocui spauracchi della letteratura per l'infanzia di tutti
i tempi.
«Sebbene tutti conoscano Telefono azzurro - ha
esordito Luciana Porzio - non sempre si ha una percezione completa
dei nostri interventi. Due sono le linee telefoniche: una gratuita
dedicata ai bambini e l'altra, "istituzionale", riservata
agli adulti che si trovano in particolare difficoltà nel
loro rapporto coi minori. Col numero 19696 - ha proseguito la
Porzio - i bambini possono mettersi in contatto con un nostro
operatore, che sarà il solo a seguire il caso in questione,
cercando di istituire quel clima di fiducia che è indispensabile
per vincere il senso di vergogna che la piccola vittima si porta
dentro, particolarmente nei casi di abusi sessuali. Nelle situazioni
di emergenza viene poi avvisato l'ufficio minori della questura
e il contatto telefonico col bambino è mantenuto fino all'arrivo
degli agenti, che lo prendono sotto la loro tutela». Alcuni
dati possono aiutare a comprendere l'entità del fenomeno:
sono circa duemila le telefonate ricevute quotidianamente da Telefono
azzurro, ma dai tabulati della Telecom risultano ben altre seimila
chiamate che non riescono a prendere la linea. Il maggior numero
delle telefonate arriva dal nord, in particolare dalla Lombardia,
dal Veneto e dall'Emilia Romagna. Sono le bambine, infine, a chiamare
più dei maschi.
È un intero mondo che chiede aiuto e protezione
nei confronti di adulti che, spesso, sovrappongono l'immagine
del molestatore a quella del familiare o del parente, in un corto
circuito tra affetto e sopraffazione che le piccole vittime subiscono
con effetti psicologici devastanti.
Subito dopo è toccato a Giorgio Bini inquadrare
il fenomeno in una visione più ampia, che vede l'infanzia
come il soggetto naturalmente più debole in società
che, alla vigilia del nuovo secolo, riconoscono piena legittimità
esclusivamente all'ambito del mercato, all'impresa come unico
attore sociale e alla massimizzazione del profitto come criterio
di valutazione della bontà di ogni cosa.
Ne consegue il rischio di una strana pedagogia, una
filosofia dell'educazione del futuro adulto tutta incentrata su
una visione quasi "darwinistica", di competizione per
la sopravvivenza su un mercato mondiale dalle esigenze sempre
più aspre e mutevoli. Una visione del mondo che tace ipocritamente
a se stessa come la competizione comporti non solo vincitori ma
anche, necessariamente, sconfitti, strati sempre più ampi
di popolazione che, nei paesi industrializzati come in quelli
del Terzo mondo, non essendo in grado di tenere il passo con le
richieste di un'economia globalizzata, vengono esclusi dal circuito
di produzione e consumo di merci e quindi privati di qualsiasi
diritto di cittadinanza.
Al di là delle giustificate reazioni ai fatti
di cronaca la questione dei diritti dei minori deve essere allora
inquadrata in una riflessione più ampia sull'identità
dell'infanzia in una società che attraversa profondi processi
di transizione economica, politica e culturale. Dalle insidie
delle chat-lines telefoniche agli allarmi provenienti dagli
USA per le organizzazioni di pedofili che utilizzano Internet
per cercare nuovi affiliati e nuove vittime, dalle colonne dei
quotidiani come dai telegiornali si è venuta diffondendo
un'immagine dell'infanzia come fortino assediato dall'assalto
dei media: specie biologica, anche numericamente, sempre più
esigua.
L'idea che i bambini debbano essere accuratamente
protetti da tutta una serie di informazioni e di situazioni emotive
è qualcosa che ci appare oggi ovvio e naturale. Ma non
sempre è stato così. L'infanzia è infatti
una categoria culturale, prima che biologica, che riposa su una
configurazione tutta interna alla tradizione occidentale e che
non si generalizza che abbastanza recentemente, verso la fine
del secolo scorso. Per secoli anche in Europa, una volta usciti
dalla prima infanzia i bambini erano pressoché a tutti
gli effetti dei piccoli adulti. E a partire dal loro precoce inserimento
nelle attività produttive, non erano protetti da spettacoli
e situazioni "estremi", dalla promiscuità sessuale,
ai parti e ai decessi, fino alle esecuzioni capitali.
Sarà solo il graduale e lento affermarsi di
una cultura del libro che, richiedendo una segmentazione e una
stratificazione di circuiti d'apprendimento successivi e reciprocamente
impermeabili, darà origine all'infanzia come categoria
antropologica ritagliata, in qualche modo, per difetto, vale a
dire a partire dalla sua separazione dal mondo adulto. Originatasi
nel '500, l'idea dell'infanzia si afferma solo lentamente e in
concomitanza con la diffusione, dai ceti superiori a quelli inferiori,
dell'alfabetizzazione come strumento di educazione.
Per molto tempo l'infanzia rimane quindi un lusso
delle classi alte, o comunque destinate a quelle professioni non
manuali che richiedevano di imparare "leggendo" anziché
"facendo". Ancora oggi, del resto, le sue peripezie
riguardano solo il nord del mondo e precise condizioni in mancanza
delle quali l'infanzia, come cornice antropologica, viene tranquillamente
revocata. È sufficiente uno sguardo al largo ricorso alla
manodopera infantile nel resto del pianeta o, nel cuore della
stessa Europa, la guerra civile nella ex Jugoslavia, dove i bambini,
spesso presi a cannonate all'uscita dalla scuola, sono stati le
prime vittime di violenze che sembravano accanirsi verso lo stesso
"genoma" del nemico, per rendersi conto del carattere
"lussuoso" ed estremamente fragile dell'infanzia, del
suo dipendere da condizioni di pace e di relativo benessere, indispensabili
al suo affermarsi come alla sua sopravvivenza.
Una volta inquadrato il carattere "moderno"
dell'infanzia, che come categoria culturale nasce nel '500 e accompagna
la piena diffusione dell'alfabetizzazione fino ai primi decenni
del XX secolo, può diventare comprensibile la particolarità
di una fase storica in cui la costellazione simbolica della lettura
e del libro viene affiancata, insidiata ed erosa quotidianamente
dai media audiovisivi, televisione in primis.
È infatti alla televisione che sembra essere
toccato il compito di una sorta di azzeramento delle condizioni
di separatezza dal mondo adulto che hanno dato origine all'infanzia
in Europa, facendo collassare nell'arco di due generazioni un'idea
dell'infanzia consolidatasi nell'arco di secoli e formalizzata
teoricamente negli studi degli psicologi dell'età evolutiva.
Esposti direttamente nelle loro case, seppure in forma mediata,
a situazioni e informazioni che da tempo si era ritenuto opportuno
celare loro, i bambini sembrano accedere a una figura "mutante",
inedita - o piuttosto, per certi versi molto arcaica e della quale
si era persa la memoria - dell'infanzia che rende praticamente
impossibile agli adulti quel mantenimento di microcosmi comportamentali
diversi a seconda dell'età, sul quale anche il sistema
educativo così come lo conosciamo era venuto a strutturarsi.
Diviene così pienamente comprensibile il disagio
del mondo della scuola, nel suo avere a che fare con bambini e
adolescenti sempre meno "riconoscibili", come sperimentano
quotidianamente gli insegnanti, ma diviene comprensibile anche
la grande opportunità che si apre per tutte le istituzioni
e le figure professionali del libro, nel loro trovarsi a uno snodo
strategico della mutazione in corso, se solo sapranno evitare
il rischio di arroccarsi in posizioni "apocalittiche"
o protezionistiche di un'identità tradizionale messa in
discussione. «È dalla consapevolezza del momento cruciale
che i mondi gemelli dell'infanzia e quello del libro stanno vivendo
che prende corpo il progetto della nuova De Amicis nella sede
del Porto antico di Genova» ha spiegato Francesco Langella
in conclusione dell'incontro con Telefono azzurro. «La vocazione
originariamente internazionale della "De Amicis" ne
uscirà rafforzata nel senso di un'attenzione all'interculturalità
che andrà ad affiancarsi a un sempre maggior impegno verso
i nuovi linguaggi mediali, con laboratori e iniziative in collaborazione
con La città dei bambini» ha proseguito il
direttore, chiudendo con l'augurio di poter ospitare proprio nella
nuova sede uno sportello permanente di Telefono azzurro ed estendendo
così il ruolo della Biblioteca a quello di presidio e punto
d'osservazione a 360 gradi sulla condizione dell'infanzia. La
convinzione che ad ognuno debba essere concesso un tempo "improduttivo"
(almeno dal punto di vista economico), un'età per crescere
ma anche per giocare, per imparare a guardarsi intorno ma anche
per abbandonarsi alle proprie fantasie, per capire il mondo ma
anche per immaginarne di nuovi e di diversi rimane, in fondo,
una delle idee più originali e feconde della cultura europea,
la cui scomparsa sarebbe probabilmente una catastrofe antropologica
per tutti. Ne va della civiltà così come la si è
intesa finora.