[AIB]AIB Notizie 3/2003
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Dibattito sulla formazione: incontro con Alberto Petrucciani

a cura di Vittorio Ponzani

In AIB-CUR si è sviluppato un interessante dibattito sulla formazione, e una delle esigenze che si è manifestata è stata quella di potenziare, a fianco delle materie più tradizionalmente legate alla professione bibliotecaria (biblioteconomia, bibliologia, bibliografia ecc.) anche quelle materie più legate alla documentazione (reference, management dei flussi informativi, knowledge management, business information ecc.). A questo proposito, nella tua postfazione all'edizione italiana dell'ultimo libro di Michael Gorman hai scritto, con una vena lievemente polemica, che sulle parole "biblioteca" e "bibliotecario" è caduta una sorta di tabù, come se si trattasse di termini desueti, mentre troppo spesso si indulge ad assorbirli nel più indistinto mondo dell'informazione. Ma quali sono secondo te le analogie e quali le differenze tra i curricula formativi dei bibliotecari e quelli dei documentalisti e professionisti dell'informazione?

Devo dire subito che "mondo dell'informazione" o "professionisti dell'informazione" mi sembrano espressioni equivoche e fuorvianti, che probabilmente sarebbe meglio evitare. Non credo che documentalisti, giornalisti e informatici o ingegneri dell'informazione sarebbe concordi nel significato da dare a "professionista dell'informazione" né che questi campi, nonostante qualche reale sovrapposizione, si possano considerare tutt'uno. Non mi sembra nemmeno che la professione bibliotecaria possa essere semplicisticamente riportata sotto (o dentro) questa etichetta: la parola "informazione" sicuramente si attaglia bene ai listini di borsa, ai giornali e a diverse altre cose, ma non mi pare adeguata a coprire e rappresentare Moby Dick e i Principia mathematica, Destra e sinistra di Bobbio e le Annales, Nature e Mind, Il signore degli anelli e Wittgenstein, Roma città aperta e Blade runner, Il flauto magico e Blowin' in the wind, Albrecht Dürer e Andy Warhol, eccetera eccetera. Le biblioteche si occupano di cultura e di conoscenza, più che di informazione. E dire che si occupano di informazioni sulla cultura e la conoscenza non ci porterebbe più vicino al bersaglio. L'informazione è certamente una delle cose di cui si occupano le biblioteche, ma non l'unica e non la più importante.
La formazione iniziale del bibliotecario, perciò, deve essere formazione per una professione culturale, che è stata e rimane unitaria anche se declinata, a seconda dei casi e dei contesti, più verso lo sviluppo del sapere o piuttosto verso la sua diffusione e l'arricchimento culturale delle persone. Con l'impiego, naturalmente, di tutti gli strumenti che via via si rendono disponibili, siano essi tecnologici o concettuali (teorie psicologiche, tecniche manageriali, forme giuridiche ecc.). Si tratta, comunque, di formare - di dare forma - a un professionista completo, che sappia il perché oltre che il come, e sappia il perché della sua professione meglio, e prima, del perché dei singoli metodi e delle singole tecniche che ha appreso.

Come risponde l'università italiana a queste esigenze formative?

Se chiedessimo a un bibliotecario come rispondono le biblioteche italiane, compresa la sua, alle esigenze, consapevoli e non, per le quali le biblioteche esistono, cosa direbbe? Forse la risposta potrebbe essere la stessa. Non sempre si risponde bene (intendo alle esigenze, non alle interviste), non sempre si risponde come si vorrebbe, e naturalmente non si risponde ovunque allo stesso modo. Ma ogni docente (come ogni bibliotecario, credo) coltiva la speranza che, nonostante tutto, questa risposta ci sia: che da quell'università, per esempio, escano dei buoni bibliotecari. Forse bisognerebbe chiederlo a loro. Idealmente, ai loro futuri utenti.

Puoi dare un primo giudizio sulla riforma universitaria dopo questo primo periodo di sperimentazione?

Parlar male delle riforme, prima e dopo, è una specie di sport nazionale. Non si fanno per cinquanta o cent'anni, o si vuole cambiarle ogni settimana (così da evitare il rischio di farle funzionare, e perfino di sperimentarle e valutarle seriamente).
In poche parole, una riforma di questa portata - messa in pratica senza fermarsi un giorno e anzi tenendo in piedi per qualche anno due sistemi (gli studenti hanno il diritto di continuare gli studi secondo l'ordinamento con cui li hanno iniziati) - è un processo complicato e faticoso, con qualche inevitabile inconveniente. Un po' come traslocare e riorganizzare una biblioteca senza interrompere mai i servizi. Ma il nuovo sistema ha almeno un grande vantaggio sul vecchio: un percorso più modulare, con traguardi più vicini e già spendibili, che sicuramente ridurrà gli abbandoni, l'abnorme prolungamento della durata degli studi, i tanti casi di studi portati molto avanti ma non conclusi. Vantaggi indubbi sono anche la maggiore omogeneità e chiarezza dei nuovi titoli rispetto a quelli degli altri grandi paesi d'Europa e la maggiore flessibilità data dall'articolazione in due cicli, che non sono necessariamente in continuità temporale né disciplinare.

In questi anni sono stati istituiti molti master in ambito biblioteconomico. Pensi che questa possa essere una soluzione? Esiste un problema di riconoscimento giuridico per i master?

I master sono di gran moda, ma proprio per questo c'è il rischio di prenderli per quello che non sono e non possono essere. Non sono, a rigore, dei titoli di studio, ma soltanto dei corsi di perfezionamento, a seguito di una laurea di primo o di secondo livello, e non hanno quasi nulla in comune con gli omonimi titoli di studio anglosassoni, che sono una laurea di secondo ciclo (ossia, nei nostri termini, una laurea specialistica). Più che una sede di formazione vera e propria, insomma, sono corsi mirati ad approfondire tematiche particolari, con una proiezione operativa, e possono essere molto efficaci da questo punto di vista, se si innestano su una buona base e non si illudono di sostituirla o di farne a meno.

Esistono esperienze europee particolarmente interessanti?

A costo di andare controcorrente, confesso che non vedo in giro esempi veramente convincenti. Intendo come impostazione complessiva, non per singoli suggerimenti e spunti, che non mancano. Ci sono aree, come quella tedesca, in cui c'è una rigida divisione fra percorsi "di serie A" e percorsi "di serie B", dove un po' curiosamente chi opta per i secondi ha una preparazione specifica più approfondita e completa, ma una carriera bloccata. Nell'area britannica, invece, lo spostamento degli interessi in una direzione prevalentemente tecnologica (informatica) mi sembra aver indebolito la formazione biblioteconomica: non è un mistero che le biblioteche pubbliche inglesi hanno subito nell'ultimo decennio bruschi arretramenti e le tendenze della formazione rischiano di seguire questa deriva invece di contrastarla.
Del resto, leggere le tendenze in un'ottica di lungo periodo, come si deve fare quando ci si occupa di formazione, è difficile e incerto: per esempio, tornando all'Italia, è a prima vista sorprendente che calino i giovani che si iscrivono ai corsi di laurea in informatica, mentre aumentano quelli che si iscrivono ai corsi di laurea in beni culturali. Non saprei dire se si tratti di un fenomeno solo italiano o momentaneo, ma sono convinto che molto spesso sottovalutiamo le profonde specificità storiche e culturali che caratterizzano ciascun paese della vecchia Europa.

Qual è il rapporto tra formazione universitaria di base e aggiornamento delle conoscenze attraverso la formazione permanente?

In Italia, purtroppo, c'è ancora poca chiarezza su questa distinzione, perché nella maggior parte dei casi, in passato, si entrava in biblioteca senza una formazione specifica, cercando di costruirsela dopo, in maniera inevitabilmente disorganica. Ormai, nella maggior parte dei casi, non è più così, e questo è un cambiamento epocale di cui siamo spesso inconsapevoli.
Da un sistema basato sulla quasi completa assenza di formazione iniziale e sulla proliferazione e superfetazione dell'"aggiornamento" professionale (tra virgolette, perché in effetti spesso è piuttosto la prima vera formazione) dovremmo passare, a mio parere, a un equilibrio molto diverso fra una formazione iniziale molto strutturata e consistente e un aggiornamento molto più "leggero". Dirò un'altra eresia: di fronte al proliferare di "corsi", offerti e domandati, mi verrebbe da dire che a un professionista con una buona formazione iniziale dovrebbe bastare, quasi sempre, leggere, tenersi informato, confrontare la sua esperienza con quella dei colleghi, partecipare a qualche incontro o a qualche convegno. Insomma la parola scritta - our business - e il confronto informale, piuttosto che aule, lavagne e attestati.
Capisco la "fame" di occasioni di aggiornamento o di formazione anche estemporanee o minute, ma francamente mi sembra una delle testimonianze di una contraddizione non sciolta, anzi spesso inconsapevole. Vogliamo che quella del bibliotecario si affermi come una professione seria? Ci vorrà una formazione seria, non a pezzi e bocconi, non di fortuna. Se invece il bibliotecario è uno che in biblioteca ci finisce per caso e poi si arrangia in qualche modo a farsi dire che deve fare, con che faccia troviamo da ridire sul reclutamento e la mobilità, l'inquadramento e le retribuzioni, e parliamo di professione?
L'aggiornamento naturalmente ci vuole, è indispensabile, ma in pratica quando ci sono carenze di formazione anche le attività di aggiornamento danno risultati insoddisfacenti. Oggi la stampa, l'editoria e l'informazione in rete mettono a disposizione di tutti i mezzi per aggiornarsi: non sempre però si è consapevoli che un professionista deve riservare del tempo a queste attività, e ciò è particolarmente difficile ai due estremi della professione, quando si hanno grosse responsabilità e quando si è ancora in condizioni di lavoro precario.

Quanto conta avere la laurea ai fini dell'inserimento professionale nel mondo delle biblioteche?

Avere una laurea, o avere una formazione riconosciuta, o una buona formazione iniziale? Se si parla di un titolo purchessia, certo non è indispensabile, ma la sua mancanza comunque prima o poi si sconta, sul piano formale - per esempio per l'impossibilità di accedere a concorsi o a particolari qualifiche - e anche su quello informale.
Non dimentichiamo poi quanto sia importante, per una professione intellettuale (più che per i singoli), il legame organico con un titolo e un corso di studio universitario. Può non piacere, ma è così. Per esempio, l'ultima versione del disegno di legge governativo di riforma delle professioni, licenziato in bozza pochi giorni fa, definisce il suo oggetto come «le professioni intellettuali» e queste ultime come «attività [...] per le quali è richiesto un titolo di studio universitario». Naturalmente la laurea non è indispensabile per fare il regista cinematografico o il creatore di moda, nemmeno per fare il giornalista o l'editore, ma questi non sono esempi che si adattino al nostro caso.
Se si parla, invece, di una formazione iniziale completa e riconosciuta, a mio parere conta molto, solo che questi conti bisogna decidere quando e come si vuol farli. I conti di una formazione universitaria per una professione intellettuale, secondo me, vanno fatti con ampio respiro, dando il dovuto peso, accanto alle prime esperienze, al raggiungimento di una piena posizione professionale e alla carriera successiva. Basta guardarsi intorno, del resto, per vedere come già stiano emergendo nella professione, fra i giovani, molti dei migliori allievi dei corsi universitari più consolidati.

Qual è il rapporto tra formazione e mercato del lavoro? Esiste un'effettiva richiesta di tutti questi bibliotecari preparatissimi o rischiano di andare a fare altro, magari di essere sottoccupati nelle cooperative di catalogatori?

Un rapporto non banale e non lineare, come mostra proprio il tuo esempio. Personalmente seguo attentamente l'inserimento nel lavoro delle persone che hanno studiato nella mia università, cerco di non perdere i contatti, di avere del feedback, sia dai giovani stessi che dai loro "datori di lavoro" (tra virgolette, perché di rado il rapporto è esattamente questo e perché si tratta spesso di colleghi e amici, insomma di chiacchierate informali, in cui quello che conta è la stima reciproca). Una delle ragioni per cui lo faccio è che credo alla "prova dei fatti" ma non voglio rinunciare, appunto fino a prova contraria, a insegnare quello che per me è importante, anche se può non essere quello che viene richiesto o quello che va per la maggiore in quel momento.
Dietro un corso di laurea per bibliotecari (e anche, secondo me, dietro il servizio di una biblioteca) c'è un'ipotesi culturale, ci sono delle convinzioni, che non devono essere irresponsabili, ma nemmeno possono essere supine. Comunque, è inutile illudersi di produrre precisamente quello che viene richiesto, se non altro per l'inevitabile décalage di qualche anno tra inizio della formazione e lavoro. E poi, conoscete un bravo bibliotecario che non si sia trovato mai in conflitto, chiamiamolo pure di coscienza (professionale), fra le sue convinzioni e l'amministrazione in cui ha lavorato? Che non abbia mai pensato che qualcosa nella sua biblioteca sarebbe dovuta andare diversamente da come andava?
Non ci sono, secondo me, ricette preconfezionate per trovare un equilibrio fra formare i bibliotecari che vorremmo (e che difficilmente si troverebbero tanto bene nelle biblioteche come sono) e formare persone con una vita professionale liscia e senza scosse, pienamente integrata e soddisfatta del mondo com'è. Forse, anche in questo caso, bisognerebbe sentire le altre parti. E cominciare a fare un po' di ricerca empirica, sia sulle opportunità di lavoro (sulle quali ho provato a fornire qualche dato, per esempio, nel Rapporto sulle biblioteche italiane 2001) sia come follow-up dei laureati, con adeguati intervalli temporali.

Nel dibattito in AIB-CUR emerge che spesso i giovani laureati in materie biblioteconomiche soffrono di un senso di spaesamento perché, a fronte di una competenza teorica piuttosto solida, mancano di esperienza pratica della professione. Le attività di tirocinio possono essere considerate una risposta a questa difficoltà? Esistono esperienze di tirocinio di particolare rilievo? &Ègrave; possibile o è necessario elaborare e diffondere qualche standard di qualità rispetto ai tirocini, per evitare che invece di essere una importante possibilità di formazione sul campo non si trasformino invece in semplice sfruttamento del lavoro dei giovani in cerca di occupazione?

Credo molto al tirocinio, secondo me è un'attività fondamentale, di solito insostituibile, altrettanto importante per tutti, per il giovane più brillante che deve fare i conti con la difficoltà di inserirsi nella realtà senza perdere le sue illusioni e per quello più incerto che deve acquistare la sicurezza di una persona che lavora. Ci credo così tanto che penso sia bene distinguerlo con molta cura sia dalla formazione, che si deve fare prima, sia dal lavoro vero e proprio, che non deve essere camuffato. Nel tirocinio ci sono anche tutte e due queste cose, la formazione e il lavoro, ma quel che conta è proprio il passaggio, a volte impalpabile, fra l'una e l'altro: un passaggio così importante che è lì che va concentrata l'attenzione.
Per la mia esperienza, sia nel caso dei tirocini organizzati presso la Biblioteca dell'AIB che per quelli dei laureati e laureandi della mia università, mi verrebbe da dire che è una strada praticamente infallibile, di contro all'estrema aleatorietà dell'inserimento nel lavoro di una persona che esce dall'università e si trova, di colpo, isolata, tagliata fuori persino da molti canali informativi. Si tratta, molto spesso, proprio dell'investimento giusto al momento giusto. Per questo, fra l'altro, spero che si estenda l'ottima iniziativa della Regione Toscana di offrire ogni anno, ai laureati o laureandi nel nostro campo, un tirocinio in biblioteche pubbliche selezionate della regione, adeguatamente seguito e accompagnato anche da un compenso che, senza surrogare un rapporto di lavoro, costituisce un elemento di responsabilizzazione dei giovani e di riconoscimento che la loro attività ha anche un valore produttivo. Sono convinto che offrire questa opportunità a tutti i giovani li aiuterebbe in maniera decisiva a inserirsi nel lavoro e, a conti fatti, si tratta di un investimento modesto che renderebbe sicuramente di più di tanti altri.

Quale ruolo hanno oggi e quale potranno avere in futuro la formazione a distanza e l'e-learning? Quali sono i loro vantaggi e quali i loro limiti?

La formazione a distanza va per la maggiore soprattutto per una ragione molto semplice: permette a chi studia di ridurre i costi e il tempo e all'istituzione di ridurre le strutture e le risorse, logistiche e soprattutto umane. Per questo oggi si sentono voci critiche proprio nei paesi, come la Gran Bretagna, che l'hanno maggiormente sviluppata e ne cominciano a vedere gli inconvenienti.
La comunicazione a distanza, soprattutto con la posta elettronica, è diventata una comoda abitudine anche dove non si fa "formazione a distanza": gli studenti per esempio scrivono per chiarimenti sui programmi o per prendere appuntamenti, si prenotano agli esami per e-mail, mandano così i loro elaborati ecc. Nell'università lo studio individuale ha sempre avuto, e secondo me deve continuare ad avere, un grosso peso rispetto al lavoro d'aula. Non credo, però, che senza una parte di attività in presenza si ottengano buoni risultati, soprattutto nella formazione iniziale. Del resto, lo stesso discorso vale, in maniera abbastanza ovvia, per le teleconferenze rispetto ai convegni.

Tu sei vicepresidente dell'AIB: in che modo la nostra Associazione, da sempre attenta alle problematiche della formazione dei bibliotecari, sta rispondendo a queste richieste di formazione?
L'AIB svolge direttamente attività di formazione sia con i propri corsi nazionali, su temi che via via sembrano particolarmente importanti o attuali, sia sul territorio, attraverso l'attività delle Sezioni, che dovrebbero raccogliere le esigenze di formazione che esistono a livello locale.
In prospettiva, però, mi sembra che il ruolo più significativo per l'Associazione sia da cercare in direzioni diverse, già praticate ma da sviluppare ancora: da un lato l'impegno politico e di pressione sui temi della formazione e della certificazione professionale, interloquendo efficacemente con Parlamento e Governo, con le Università, le Regioni, le diverse amministrazioni; dall'altro l'elaborazione di strumenti professionali e linee guida, l'attività editoriale e informativa, il programma di convegni e soprattutto di incontri sul territorio, insomma tutto ciò che serve per la cultura e l'informazione professionale, anche se non è un "corso". Ben vengano anche questi, naturalmente. Ma non dimentichiamoci la differenza fra un buon bagaglio professionale, fatto soprattutto di studio, di letture, di riflessioni e di scambi di idee, e una cartellina zeppa di attestati.

Se dovessi dare un consiglio a un giovane che vuole intraprendere la professione di bibliotecario, quali suggerimenti gli daresti rispetto alla formazione e all'inserimento nel mondo del lavoro?

Una buona formazione iniziale, con tutto l'investimento di tempo e di energie che richiede, e un buon tirocinio, nel posto giusto per le sue esigenze e i suoi interessi. Non accontentarsi di niente di meno, perché quello che si risparmia al principio si pagherà doppio più avanti.

petrucciani@aib.it

Dibattito sulla formazione: incontro con Alberto Petrucciani, a cura di Vittorio Ponzani. «AIB Notizie», 15 (2003), n. 3, p. 8-11.
Copyright AIB, ultimo aggiornamento 2003-04-11 a cura di Franco Nasella
URL: https://www.aib.it/aib/editoria/n15/03-03petrucciani.htm

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