[AIB] AIB notizie 18 (2006), n. 11
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Ottanta ma non li dimostra
Intervista a Carlo Revelli

a cura di Giovanni Solimine

Ottant’anni, di cui oltre sessanta vissuti nel mondo delle biblioteche. Non è poco. Senza badare agli aspetti esteriori e andando all’essenziale, agli elementi fondanti, ritieni che sia veramente cambiato qualcosa?

È cambiato qualcosa, molto, tutto, troppo, a seconda di cosa si intende parlare, ma certamente la ragione profonda della biblioteca, che comporta un luogo fisico, un insieme organizzato di documenti e un pubblico di utenti, rimane inalterata. Cambiano le modalità organizzative, cambiano le motivazioni delle richieste, con le attività e i rapporti con l’ambiente in cui le biblioteche sono nate, cambia la stessa definizione di documento, ma la missione di base permane identica e fondamentale. Per questo non amo mettere in corsivo il termine Missione, né scriverlo in inglese, né porlo tra virgolette: saprebbe di forzato, di concetto aggiunto a posteriori.
La biblioteca è stata fin dall’inizio e sarà sempre essenzialmente un servizio, non diversamente dagli altri servizi necessari al suo pubblico, la cui estensione dipende dalla missione specifica della singola biblioteca, o se preferisci del tipo di biblioteca. La stessa finalità della conservazione era ed è subordinata a prolungare nel tempo la consultabilità dei documenti conservati, anche al costo di limitarne la consultazione immediata. Poi potremo specificare le varietà del servizio biblioteca, certo oggi meno distinte di un tempo, ma pur sempre individuabili con le loro missioni specifiche.

Provando a ripercorrere il lungo arco di tempo della tua attività, quale episodio definiresti il più importante, il più bello? … e il più brutto?

Nel ripercorrere una vita professionale, a volte confusa con quella privata, affiorano episodi che assumono valore particolare a seconda dello stato d’animo del momento. Con la mia deformazione professionale, parlerei di aboutness dei ricordi, dove un soggetto non si può considerare asetticamente rigido, ma dipendente dal momento in cui è ricordato. Non vorrei sembrare troppo patetico, sicché permettimi di non fare esempi.
Preferisco piuttosto accennare a piccolissimi episodi risultati significativi, come il gesto di disprezzo di un lettore che mi buttò sul banco un libro tecnico troppo invecchiato del quale aveva trovato l’indicazione nel catalogo per soggetti: maleducato forse, ma non privo di ragioni. Di qui la convinzione dello svecchiamento da un lato, dall’altro della segnalazione in evidenza della data nel catalogo. O quel lettore mortificato da qualcuno, che usciva tristemente dalla biblioteca convinto di non avere le qualità per frequentarla.
Mi sono domandato sovente se quei due lettori perduti siano stati ricuperati. Forse il primo, magari anche solo per necessità di lavoro; probabilmente non il secondo.

Nella professione e nell’AIB hai conosciuto tante persone: quale incontro è stato per te il più importante?

L’incontro con Francesco Barberi direi, conosciuto prima per corrispondenza e poi di persona, che ha accolto i miei primi lavori e ha saputo consigliarmi anche in momenti non facili della mia vita.
Ricordo con amicizia Diego Maltese, lucidissimo e rigoroso, forse anche troppo rispetto ai miei guizzi di bibliotecario pubblico, con il quale ho avuto utili (per lo meno a me) discussioni dirette ma soprattutto epistolari. E poi Luigi Crocetti, conosciuto più tardi. Potrei allungare l’elenco, che rischierebbe però di costituire un’ingiustizia per i non citati. Non posso però trascurare il nome di Maria Valenti, scomparsa troppo presto. Quanto a quelli conosciuti nel servizio al pubblico, sono molti ma con contatti fuggitivi per lo più. Brevi scambi di impressioni, dove scorgevo l’umanità nei confronti del giovane bibliotecario, come con Augusto Monti, Franco Venturi, Alessandro Galante Garrone. Il non frequente scambio di lettere con quest’ultimo è stato importante per me. Quando compì ottant’anni ero a un congresso e, leggendo di una sua indignazione, gli scrissi una cartolina di auguri con il mio apprezzamento per sapersi ancora indignare a quell’età.
Ora che ho raggiunto io quell’età, scopro che anch’io continuo a indigniarmi con una certa frequenza. Si parva licet

La tua militanza nell’Associazione è molto lunga e hai ricoperto vari incarichi a livello regionale e nazionale. Nel 1988 il CEN di cui facevo parte ti nominò socio d’onore e, come presidente pro tempore, ebbi il piacere di venirti a trovare nella tua vecchia casa di Via San Francesco d’Assisi per consegnarti la targa con cui l’AIB volle celebrare quella occasione. Quanta importanza ha avuto per te il far parte di una comunità professionale?

La vicinanza di altri bibliotecari è stata essenziale per lo sviluppo professionale, perché solo l’accostamento alle esperienze e alle cognizioni altrui permette di smussare le asperità e di integrare il proprio sapere. E poi aiuta a scoprire il dubbio, vicino ad altri che la pensano diversamente da te. Anche in questo caso troviamo la certezza di una convinzione di base, quella che determina la scelta della professione e che permane immutata, ma che non esclude l’eventualità di modificare non solo il proprio comportamento, ma anche le proprie opinioni. La vita nell’Associazione è stata dunque e è ancora di importanza eccezionale, nonostante la mia stabilità al nord-ovest e un carattere tendente all’isolamento.
Non è stato certo l’unico riferimento, in quanto la formazione professionale è derivata, almeno per me, soprattutto dall’esperienza del lavoro diretto e in secondo luogo dallo studio, ma senza la verifica immediata all’interno del servizio e poi con i colleghi di altre biblioteche sono convinto che le conoscenze professionali sarebbero state ben più limitate (o ancor più limitate) di quelle attuali.

Hai cominciato a lavorare in una biblioteca popolare ancora in tempo di guerra, in un periodo certo non facile. Immagino che tu avessi già fatto l’esperienza di utente del servizio bibliotecario. Cosa ti colpì maggiormente quando mettesti piede in biblioteca per la prima volta dall’altra parte?

Molto scarsa l’esperienza precedente, tanto da non potermi concedere la sensazione di un rovesciamento di posizione. Nel ricordo del servizio iniziale l’immagine è alquanto misera: tempo di guerra e di dopoguerra immediato, in una biblioteca di solo prestito con pochissimi libri, con la sensazione immediata di un pubblico troppo numeroso le cui esigenze varie non potevano venire soddisfatte. Ricordo che in certe occasioni prendevo il fascio di libri rimasti in un settore per facilitare una scelta ovviamente assai limitata. Molto più tardi, in ambiente diverso, la sensazione opposta di materiale offerto a un pubblico scarso. Di conseguenza la consapevolezza di dover migliorare l’offerta in primo luogo, e successivamente di studiare il modo di suscitare nuove richieste, in particolare nelle categorie dormienti della popolazione.

E ora, frequentandole come utente da circa vent’anni, in che modo vivi questa esperienza?

Molto vivo invece per me il rovesciamento di posizione nella situazione attuale, di frequentatore intenso timoroso di privilegi - che invece ci sono e a volte sono anche utili, come il farmi perdonare il ritardo di una restituzione o una piccola ricerca per telefono che mi eviti di andare apposta in biblioteca o il concedermi rifugio nella sala manoscritti quando non ci sono più posti liberi in sala di consultazione, per non parlare dei periodici correnti che mi porto in un’altra sala. La tentazione di intervenire con osservazioni e consigli non richiesti è forte, così come quella di correre in aiuto al lettore con la faccia incerta (il lettore) e ignaro del piacere che mi farebbe accettando il mio aiuto, ma di solito riesco a vincere la tentazione. Non sempre però: devo cercare di migliorare.

Ti sei mai pentito della scelta lavorativa che facesti nel 1944? Se oggi fossi alla ricerca di un lavoro, ti piacerebbe entrare in biblioteca?

Credo di aver trovato il lavoro più adatto al mio temperamento, benché all’inizio non si sia trattato di scelta professionale: questa è venuta, prepotente, qualche tempo dopo. Alla domanda sull’oggi, dirò che la mia professione di bibliotecario in una biblioteca pubblica mi piace talmente (e quanta nostalgia per il servizio al banco di informazioni, dove avrei voluto rifugiarmi in certi momenti quando, per la legge di Peter, avevo assunto altre mansioni) che sarei tentato di rispondere di sì.
Però oggi la situazione è molto diversa e soprattutto non so quale sarebbe la mia personalità se fossi nato, che so, sessant’anni più tardi. Sarebbe come immaginare il futuro con la mentalità e le conoscenze di oggi: per questo motivo la fantabiblioteconomia rimane al livello di narrativa.
Eppure, quanta proiezione verso un futuro lontano si fa con la mentalità e con le conoscenze attuali! Al futuro immediato, certo, dobbiamo pensare, ma deve essere proprio immediato. Con una certa flessibilità che non riguardi solo gli ambienti e l’organizzazione, ma anche la nostra mentalità.

Hai al tuo attivo una lunga attività didattica, svolta sia in ambito universitario sia all’interno di corsi di formazione e di aggiornamento professionale. Come sono cambiati i giovani che si accostano al mondo delle biblioteche? Hai notato qualche differenza nelle motivazioni che li animavano in passato e quelle che oggi li spingono a fare il bibliotecario?

I giovani, come le biblioteche, la società, il linguaggio ecc. sono cambiati parecchio. E perché proprio loro non sarebbero dovuti cambiare, quando la ruota eterna del cambiamento sembra accelerare sempre più il proprio movimento? Nei primi tempi i giovani sembravano più timidi e con meno preoccupazioni per il loro futuro; oggi sembrano più aggressivi, desiderosi di apparire sicuri, in realtà molto più incerti per il loro avvenire. Il clima di cambiamento nelle biblioteche non è certo favorevole a una professione le cui stesse basi di formazione sono in discussione profonda. Forse è più forte l’interesse verso un’attività maggiormente sfumata nelle sue possibilità, verso il mondo dell’informazione, in cui rientrano le biblioteche insieme con altre cose.

Si parla tanto di flessibilità. Tu hai lavorato sempre nella stessa tipologia di biblioteca e alle dipendenze della stessa amministrazione: ritieni che questo sia un limite della tua esperienza?

È stato certamente un limite, e fortissimo, perché non mi ha concesso la conoscenza approfondita di altre attività parallele, riguardanti tanto altre biblioteche pubbliche quanto biblioteche di altra tipologia.
In compenso l’effetto della progressione attraverso quasi tutte le mansioni è stato inestimabile, poiché mi ha permesso di conoscere a fondo e per esperienza diretta tutti i lavori della biblioteca, esperienza che mi è stata preziosa nella seconda parte della mia attività, in quanto conoscendo bene il lavoro di tutto il personale potevo meglio discuterne con i diretti interessati per modificarlo all’occorrenza, con l’ideale dell’intero personale inteso come gruppo, o meglio gruppi di lavoro, dove ciascuno possa suggerire e proporre. Non ho la presunzione di esserci riuscito, anche perché la disponibilità deve essere reciproca, ma per lo meno ho tentato, a volte con successo e a volte senza.

Tra i temi più forti del dibattito di questi ultimi mesi c’è quello del lavoro precario, o discontinuo. Non è, ovviamente, un problema che riguarda solo le biblioteche. Qual è la tua opinione in proposito? A te, che hai iniziato a lavorare in biblioteca molto giovane e in una posizione che oggi si definirebbe "da sottoccupato", credo che si possa chiedere come affronteresti la questione delle garanzie?

Il lavoro precario può essere accettato in una società caratterizzata dal frequente cambiamento di attività e di posto di lavoro e probabilmente perderebbe la ragione di questo nome. Dove la struttura, in particolare ma non solo nell’amministrazione pubblica, è ben più rigida e la ricerca del posto fisso è condizione normale, il lavoro precario appare una contraddizione.
La mia posizione iniziale era estremamente modesta, è durata a lungo ed è anche stata fonte di frustrazione, ma il posto era sicuro e non presentava analogie con la gravissima situazione attuale. In linea teorica occorrerebbe puntare verso una struttura diversa del mondo del lavoro, dove la non garanzia del posto (per la maggioranza) fosse compensata da un’offerta conveniente di alternative, ma le resistenze a questa soluzione sarebbero ovviamente tanto forti da lasciarla al mondo della teoria.
Confesso di non avere in mente una soluzione che non sia quella delle soluzioni tampone, momentanee, che non risolvono il problema in modo definitivo. Si va diffondendo l’idea che il lavoro precario, proprio per la sua incertezza, dovrebbe essere pagato più di quello fisso, ma temo che anche questa soluzione sia riservata al mondo delle idee.

Durante la tua lunga esperienza professionale ti sei occupato di tanti aspetti del servizio di biblioteca. A te si deve in particolare lo sviluppo del sistema bibliotecario cittadino di Torino, nelle sue diverse articolazioni. Quali sono i pilastri su cui si regge il rapporto fra una città e la sua biblioteca?

Si regge o si dovrebbe reggere? Il rapporto tra l’essere e il dover essere non è esattamente di uno a uno. In parole povere, la biblioteca pubblica è un servizio come altri, che dovrebbe essere inteso necessario analogamente al servizio dei trasporti, al servizio sanitario, e così via. Per questa ragione occorre conoscere la popolazione nei suoi vari strati sociali e nelle necessità culturali riconosciute e latenti di ciascuno di essi, al fine di poter rispondere alle richieste reali e di suscitare quelle potenziali. Intendo necessità culturali quasi in senso antropologico, che comprende l’integrazione nella vita sociale tanto quanto l’informazione professionale, oltre all’offerta di attività intese a favorire la lettura.
È molto facile cadere nei discorsi sentimentaldemagogici, ai quali tendo nei momenti di debolezza, sicché mi fermo qui. Non senza avvertire come il riconoscimento di queste necessità da parte degli amministratori dipenda fortemente dalle pressioni del pubblico, sicché tra i compiti dei bibliotecari appare importantissimo quello di saper suscitare queste pressioni, modificando e migliorando i servizi offerti, anche in collaborazione con gli altri servizi sociali, dei quali la biblioteca è parte integrante conservando tuttavia la propria missione specifica. Anche in questo caso troviamo la contraddizione, solo apparente, tra l’individualità di un servizio e il suo disperdersi in una globalità che è favorita in effetti dallo sviluppo tecnologico.
Ed è proprio grazie alla cooperazione che si attenuano, quando non scompaiono, tante particolarità individuali che non risultano più necessarie, mentre si evidenziano le ragioni reali del singolo servizio. Una biblioteca pubblica efficace deve essere un punto di riferimento per l’intera popolazione, un luogo di passaggio e di ritrovo. Parlo in particolare della biblioteca pubblica, dal momento che qui si parla tanto di me, come avrebbe detto Zavattini, ma il discorso va ovviamente esteso alle missioni di altre biblioteche e ai loro pubblici più circoscritti.

Cosa pensi del progetto della nuova Biblioteca civica torinese?

Il progetto è molto bello, ma la sua realizzazione stenta a decollare. Occorre che i tempi necessari alla realizzazione aiutino a creare nella popolazione una consapevolezza più estesa dell’attuale sulle possibilità offerte dal servizio bibliotecario, naturalmente senza creare aspettative destinate a essere deluse dalla realtà. Insomma, penso che anche in questo caso non convenga porsi una finalità rigida da raggiungere, ma un programma flessibile, in un’organizzazione che consenta modificazioni e miglioramenti anche dipendenti dalle disponibilità finanziarie. Le premesse attuali lasciano credere che le attese per un ottimo servizio bibliotecario verranno premiate.

Al centro dei tuoi interessi ci sono sempre stati i temi della catalogazione, cui hai dedicato tra l’altro anche due importanti volumi: Il catalogo per soggetti, nel 1970, e Il catalogo nel 1996, poi riedito nel 2004. Ricordo anche la tua partecipazione ai lavori della Commissione RICA. Cosa pensi degli annunciati cambiamenti alle regole italiane e, più in generale, del ripensamento in atto a livello internazionale in materia di principi di catalogazione?

Come il servizio bibliotecario è in evoluzione continua, pena un distacco crescente da una società in mutamento continuo, così gli strumenti che permettono di informare sull’esistenza e sul contenuto degli oggetti conservati in biblioteca e anche fuori di essa sono in evoluzione costante. La rigidità della norma è destinata ad accentuare il divario della biblioteca dalla vita sociale, diminuendo le ragioni della sua esistenza.
La constatazione più ovvia riguarda il passaggio dal catalogo cartaceo al digitale, ma occorre anche considerare le alterazioni del linguaggio e delle conoscenze, con definizioni mutevoli, nuove realtà e nuovi rapporti tra le cognizioni preesistenti, oltre all’aumento dell’interdisciplinarità in misura tale da mettere in dubbio in certi casi gli stessi principi della classificazione (a parte l’invecchiamento biologico della CDD). Basti considerare una vecchia normativa per rendersi conto della sua insufficienza: si provi a organizzare informazioni con il Soggettario di Firenze senza aggiornamenti o con la sua contemporanea quindicesima edizione della CDD. Senza contare che la facilità delle comunicazioni, l’aumento della produzione documentaria, l’accrescersi continuo dei formati accentuano la necessità della cooperazione, in passato a volte trascurata a torto, anche nel campo catalografico.
Anche a livello internazionale la cooperazione, tutt’altro che inesistente in precedenza, è intensificata.
Temo che le differenze linguistiche e culturali non consentano una norma rigorosamente unitaria che preveda punti di accesso uguali per tutti, ma se si saprà rinunciare alle diversità eliminabili potrà essere accolta una normativa flessibile con la base comune a tutti. Non si tratta dunque semplicemente di aggiornare le norme vecchie, ma di prevedere un insieme di strumenti informativi destinati a una molteplicità anche tipologica di documenti e a tutte le categorie della popolazione.

Da oltre un decennio curi per "Biblioteche oggi" la rubrica Osservatorio internazionale. Quali sono a tuo avviso le principali differenze tra le biblioteche italiane e quelle degli altri paesi? Come è cambiato in questi ultimi anni, se è cambiato, il rapporto tra le nostre biblioteche e quelle straniere?

La conoscenza di quanto avviene in altri paesi è migliorata notevolmente, così come sono aumentati i rapporti internazionali. Direi, senza ironia, che è aumentata a dismisura la consapevolezza della differenza rispetto ai paesi più avanzati, che ormai non sono solo più quelli tradizionali (angloamericani e scandinavi).
Sentiamo sovente frasi come "È un altro pianeta", da chi è stato all’estero. La convinzione che le novità tecnologiche insieme con motivazioni sociali o economiche toll the knell per le biblioteche è facilmente rovesciabile dove quegli stessi fenomeni costituiscono un trampolino per un servizio bibliotecario in rinnovamento continuo. Perché ventimila al giorno a Seattle e un ventesimo a…, nei giorni più fortunati?
Non vorrei sembrare più pessimista del dovuto. Esistono casi non rari di servizi bibliotecari moderni che rispondono alle esigenze della popolazione, ma è la situazione generale nel suo complesso ad apparire deprimente.

Quali sono le questioni che, in tema di politica bibliotecaria nazionale, ritieni dovrebbero essere affrontate con maggiore urgenza? E quale ruolo dovrebbe avere l'AIB?

L’AIB, per riprendere una domanda precedente, ha un ruolo essenziale di aggregazione e informazione professionale, ma dovrebbe migliorare: troppo pochi gli iscritti e insufficiente il grado di penetrazione nel tessuto professionale. Il primo avvio di una politica bibliotecaria, a ogni livello, nasce proprio da noi. Dobbiamo smettere di piangerci addosso e di ricordarci a vicenda quanto siamo bravi, che cosa potremmo fare se solo… È l’antico sport nazionale quello di attendere un amico stendardo che venga a liberarci: già Gramsci avvertiva come la gente si aspetti che i mali "vengano ogni volta sanati da benevolenti tutori-genitori".
Se, a partire dalle cose minime, facessimo tutti il nostro lavoro con serietà e con convinzione maggiori, se offrissimo con più evidenza i nostri servizi ai frequentatori, riusciremmo a creare in un pubblico sempre più ampio la consapevolezza di un servizio a disposizione, e la necessità di migliorarlo giungerebbe ai politici, la cui troppo frequente indifferenza non fa che rispecchiare un’indifferenza diffusa nell’opinione pubblica.
Ma la trasformazione deve nascere da noi. E smettiamo di lamentarci per le difficoltà finanziarie, che esistono, certo, e sono gravissime, ma non giustificano appieno la ragione profonda della situazione bibliotecaria attuale. Gli anni delle vacche grasse non sono mancati, ma anche per le biblioteche le occasioni sono andate perdute.
E allora tiriamoci su le maniche, inventiamo, persuadiamo. Incominciamo con il trasformarci in utenti della nostra biblioteca, per trovare gli inconvenienti del servizio, quelli che fanno perder tempo ai lettori e quelli che li allontanano e cerchiamo di scoprire come potremmo migliorare il servizio anche in mancanza di finanziamenti. La ricaduta positiva del servizio bibliotecario non è quantificabile ed è a lunga scadenza. Migliorando il servizio potremo contribuire a trasformare il raggio visivo dei politici, a volte alquanto miope.

Non so quale tua foto verrà utilizzata da "AIB notizie" per illustrare questa intervista. Debbo dire che il compito sarà facile, perché qualsiasi foto sceglieranno andrà bene, visto che - almeno fisicamente - non sei cambiato affatto. Andrebbe bene anche una foto degli anni Sessanta o Settanta. Ma abbandoniamoci a qualche considerazione da vecchi e proviamo a fare un giochino. Completa la frase: "non ci sono più i …. di una volta".

Sì, è proprio una frase da vecchi. Direi che non ci sono più le illusioni di una volta. Se però con l’esperienza di poi potessimo riprenderle e cercare di trasformarle in realtà… Che colpo, signori! Senza dimenticare tuttavia che le finalità antiche si sono nel frattempo spostate e che, quand’anche le raggiungessimo, ci accorgeremmo di non trovarci in cima a una montagna, ma al massimo su un altopiano, contornato da altre montagne.

Per finire: hai qualche rimpianto? C’è qualcosa che avresti voluto fare e non hai fatto?

Troppe cose non ho fatto. Ho sempre sentito un certo distacco della biblioteca dalla realtà sociale, anche se esso si è alquanto attenuato, in particolare nelle biblioteche decentrate. Il contrasto tra l’ideale direi velleitario di un servizio per l’intera popolazione e la realtà delle fasce sociali in effetti servite è incolmabile, ma è possibile attenuarlo in varia misura. Riconosco la costruzione non coordinata di un sistema urbano, che avrebbe richiesto invece una programmazione a lunga scadenza. Riconosco di non essere sempre riuscito a trasmettere ai compagni di lavoro l’importanza primaria del servizio. E tante altre cose.

Se dipendesse da te, cosa faresti domani per le biblioteche italiane?

Se fossi un ministro farei…
Se fossi un assessore farei…
Se fossi un bibliotecario farei…
Se fossi un pensionato farei…
All’alta fantasia qui mancò possa.

Il tempo non ti mancherà per farti venire in mente le risposte, e per provare a metterle in pratica. Ti lascio con questo augurio, che credo di poterti fare a nome di tutti i soci dell’AIB.


Ottanta ma non li dimostra. Intervista a Carlo Revelli, a cura di Giovanni Solimine. «AIB notizie», 18 (2006), n. 11, p. 10-14.

Copyright AIB 2007-01, ultimo aggiornamento 2007-01-26 a cura di Zaira Maroccia
URL: https://www.aib.it/aib/editoria/n18/1110.htm3

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