«Bibliotime», anno I, numero 1 (marzo 1998)


Precedente Home Successiva



Maurizio Festanti

Per un nuovo modello di biblioteca pubblica


Leggi in biblioteca
Biblioteche ed oltre: per una nuova Legge della Regione Emilia–Romagna
Reggio Emilia, 7 novembre 997



Con l'incontro di oggi si intraprende un percorso per dotare di una nuova normativa l'organizzazione bibliotecaria regionale. A mio parere, per iniziare questo percorso può risultare utile prendere le mosse da un presupposto e da una domanda.

Il presupposto è un giudizio positivo sulla Legge 42 che secondo me è stata, al di là dei limiti inevitabili, una legge efficace, se è vero che in quindici anni le strutture bibliotecarie regionali hanno conosciuto uno sviluppo innegabile, sia a livello di strutture singole sia a livello di servizi centralizzati e cooperativi.

La domanda invece è: perché la Legge 42 ha funzionato? Credo che rispondere a questa domanda possa far emergere indicazioni utili per il dibattito che stiamo avviando e per fare appunto un'altra buona legge.

La mia risposta a questa domanda è la seguente: la Legge 42 ha funzionato perché, in ultima analisi, ha precisato con chiarezza due cose essenziali: cosa dev'essere una biblioteca e chi deve fare cosa per sviluppare un servizio bibliotecario. Sto naturalmente semplificando all'eccesso, correndo volutamente il rischio della banalizzazione, ma spero che questa semplificazione possa portarci al cuore del problema.

Per quanto riguarda il primo aspetto, cosa dev'essere una biblioteca, la Legge 42 indicava, come tutti sappiamo, un modello che allora era una riduzione ai minimi termini del concetto di servizio bibliotecario, ne era quasi una definizione etimologica: una biblioteca è fatta di libri, un catalogo, uno spazio specifico, un addetto professionale. Non si andava tanto oltre, ma era già molto, anzi segnava una svolta concettuale senza ritorno rispetto all'ambiguità e all'indeterminatezza dei famigerati centri polivalenti. Per fortuna non ci si inventava modelli astratti, ma molto più prosaicamente si iniziava, com'era giusto, dall'abc.

Sul secondo problema, chi deve fare cosa, la legge stabiliva ruoli e individuava strumenti, e in questo forse consisteva la sua parte più innovativa. Perché ad esempio può apparire naturale oggi il ruolo di pianificazione e di coordinamento svolto sul territorio dalle Province, ma all'epoca non era affatto scontato; anzi le Province allora rischiavano un progressivo appannamento della loro funzione, tanto che si era aperto un dibattito sul senso stesso della loro esistenza come enti intermedi. Sotto questo profilo la Legge 42, attribuendo loro funzioni decisive nell'elaborazione delle politiche bibliotecarie, ha contribuito a rilanciarne un ruolo forte di programmazione e di riequilibrio territoriale.

Così, a livello di strumenti, si sono rivelati fondamentali i requisiti minimi (non a caso ripresi in seguito dalle leggi di altre regioni) che, come dicevamo, hanno consentito di effettuare una netta inversione di tendenza da una proliferazione quantitativa di strutture inadeguate ad una crescita qualitativa di servizi bibliotecari effettivi ed hanno avuto il merito storico di aver fatto superare a molte strutture il guado della precarietà e della stessa sopravvivenza per raggiungere la sponda di un consolidamento dei servizi a livelli accettabili. Efficace si è rivelato anche un altro strumento introdotto dalla Legge 42, quello delle convenzioni, tramite le quali è stato possibile immettere elementi di flessibilità in un sistema ingessato dalle diverse appartenenze amministrative e coinvolgere così in un contesto di cooperazione realtà bibliotecarie significative, a cui è stata offerta un'occasione preziosa per uscire da un isolamento spesso non voluto, ma imposto da rigidità di natura burocratica.

E a proposito di cooperazione, non va certo dimenticato, tra gli strumenti messi in campo dalla Legge 42, quello dei sistemi che, anche se non hanno avuto quella diffusione che il legislatore probabilmente prefigurava, hanno comunque contribuito ad imporre una visione della biblioteca come struttura di rete, non più servizio isolato e autosufficiente, ma snodo di un'articolazione più vasta che ne moltiplica le potenzialità realizzando al tempo stesso un'economia di scala.

Bene, se tutto questo è vero, allora per impostare una nuova legge che abbia le stesse possibilità di essere efficace come la 42, è necessario rifare lo stesso percorso e dare risposte nuove alle stesse domande: cosa dev'essere oggi, anzi domani, una biblioteca; chi la deve fare, cioè quali nuove funzioni devono essere affidate alla Regione, alle Province e ai Comuni, in un quadro istituzionale tra l'altro in forte movimento; quali strategie e strumenti operativi occorre mettere in campo per definire e realizzare un nuovo modello di biblioteca adeguato ad una realtà sociale le cui trasformazioni, in particolare nel campo della comunicazione, conoscono straordinarie accelerazioni.

Se riusciremo a dare risposte soddisfacenti e lungimiranti a queste domande, come riuscì a fare a suo tempo la Legge 42, anche la nuova legge sarà una buona legge.

Per individuare questo nuovo modello, occorre in via preliminare chiedersi quali obiettivi strategici deve porsi oggi nel nostro Paese la biblioteca pubblica per corrispondere alle esigenze della comunità e quindi in quale scenario collocare una nuova e più avanzata concezione dei servizi bibliotecari.

Sono convinto, come già in altre occasioni ho avuto modo di ribadire, che nella fase attuale uno degli obiettivi prioritari rimanga ancora la conquista di una "visibilità sociale" della biblioteca che non è ancora un dato acquisito e che a mio avviso rappresenta il vero divario rispetto alla situazione dei paesi più evoluti dal punto di vista dell'organizzazione bibliotecaria. Conquistare la "visibilità" significa potenziare la capacità di penetrazione della biblioteca nella collettività, aumentare il suo radicamento sociale fino al punto di diventare, come succede appunto in altri Paesi, un servizio indispensabile ed insostituibile. Significa che la biblioteca pubblica deve fare sotto questo profilo un salto di qualità, perché non basta semplicemente esserci, non basta nemmeno funzionare bene. Bisogna invece radicare e affermare la propria presenza nella comunità, fino al punto da diventare uno strumento che la stessa comunità riconosce come vitale per le proprie necessità, tanto da non poterne assolutamente fare a meno.

E' proprio questa centralità come servizio che a me pare ancora lontana dall'essere raggiunta da parte delle nostre biblioteche pubbliche. Anzi si intravedono rischi di progressiva marginalizzazione, nel momento in cui si diffonde la ricerca di nuove agenzie informative sul territorio, quasi che la biblioteca, nell'era digitale, avesse esaurito il proprio compito storico. Si sta assistendo ad un fenomeno frequente nel nostro Paese, quello per cui, invece di valorizzare e potenziare l'esistente, si cercano scorciatoie, inseguendo nuove formule, spesso astratte, come se l'esperienza dei già richiamati centri polivalenti non insegnasse nulla in proposito. Oggi la formula in voga è quella delle mediateche: una nuova fuga in avanti per aggirare l'ostacolo di una seria politica della lettura e dell'informazione. Non che le nuove tecnologie, la telematica, la multimedialità, Internet siano fughe in avanti: tutt'altro, sono oggi strumenti imprescindibili per dare risposte rapide ed efficienti alle esigenze informative della collettività. Diventano però fughe in avanti quando sono avulse da un contesto strutturato ed organizzato di servizio informativo come deve essere, appunto, una biblioteca pubblica. Se non sono inserite in questo contesto, le future mediateche corrono il rischio di perseguire scopi puramente ricreativi e di trasformarsi inevitabilmente in sale per videogiochi.

Per questo credo che la nuova legge regionale debba affermare esplicitamente questa centralità della biblioteca pubblica come agenzia informativa di base della collettività, ribadendo con forza la sua funzione di braccio operativo dell'ente locale per tutto quanto riguarda le politiche legate all'informazione dei cittadini.

Se è vero che informazione, partecipazione, libero accesso e trasparenza sono, come vuole la legge di riordinamento delle autonomie locali, gli obiettivi prioritari che le amministrazioni debbono perseguire nel rapporto con i cittadini, allora la nuova legge regionale deve chiarire che è la biblioteca di base il tramite più diretto e lo strumento più efficace per raggiungere questi obiettivi. Non deve trovare spazio una concezione della biblioteca come servizio residuale, lasciato un po' ai margini rispetto ad altri servizi pubblici locali, che si mantiene perché c'è, e giusto perché sarebbe impopolare chiuderlo, ma al contrario la legge deve far passare, tra gli amministratori e tra gli stessi utenti, la consapevolezza che la biblioteca di base è un servizio strategico su cui investire per il futuro, una risorsa vitale per lo sviluppo della stessa comunità, un elemento attivo nel più generale processo di rilancio e di rinnovamento dell'ente locale, uno spazio cruciale dove si gioca la qualità dei rapporti tra amministratori e amministrati.

Se non fosse un termine troppo abusato, direi che uno dei compiti fondamentali della futura legge regionale è quello di diffondere una nuova cultura della biblioteca, intesa appunto come strumento essenziale per la crescita complessiva della collettività.

Anche per questo c'è appunto bisogno di una nuova legge, perché, tanto per citare solo l'esempio più clamoroso, è del tutto evidente che oggi i "requisiti minimi" della legge attuale non sono più uno strumento all'altezza della sfida che la conquista di un ruolo socialmente più incisivo impone alle biblioteche pubbliche. Sotto questo profilo hanno del tutto esaurito la loro funzione, che pure è stata fondamentale per lo sviluppo di una più avanzata organizzazione bibliotecaria nella nostra Regione. Se infatti uno dei compiti essenziali della legislazione regionale è quello di individuare modelli di riferimento e fornire gli strumenti per raggiungerli, non c'è dubbio che non può più essere considerato attuale un modello di biblioteca attestato su livelli minimali di funzionamento. La centralità della biblioteca come servizio richiede di alzare il tiro e puntare a obiettivi più ambiziosi, a un modello di biblioteca pubblica concepita come una struttura complessa, articolata, efficiente, ricca di servizi e di potenzialità, attestata su standard qualitativi elevati.

Spero che il titolo del mio intervento non abbia suscitato aspettative più alte di quanto possa mantenere un ragionamento che invece vuole essere molto pragmatico. La situazione delle nostre biblioteche è a mio avviso tale da non richiedere ardite costruzioni teoriche. Sono dell'opinione che, come già a suo tempo per la Legge 42, non ci sia da inventare nulla e che il nuovo modello di biblioteca pubblica al quale ispirare la nuova normativa regionale esista già da anni e che sia rappresentato molto semplicemente dalle biblioteche pubbliche esistenti nei Paesi europei in cui la realtà bibliotecaria è più avanzata.

Sono cioè convinto che, oltre all'Europa dell'economia, esista anche un'Europa delle biblioteche in cui l'Italia e la nostra Regione devono entrare e dalla quale invece siamo ancora molto lontani. E che per entrarci, proprio come in campo economico, sia necessario cominciare a parlare di parametri.

Diamo in questa sede per acquisito tutto l'ampio dibattito professionale sugli standard, sulla loro rigidità e inadeguatezza, sulla loro inapplicabilità a situazioni sociali e culturali molto diverse, sull'opportunità di preferire all'applicazione di regole quantitative raccomandazioni e suggerimenti più flessibili. Detto però tutto il male possibile degli standard, occorrerà pure darsi qualche indicatore, qualche riferimento anche quantitativo che orienti un amministratore nel programmare un nuovo servizio o nel capire se un servizio possa effettivamente dirsi adeguato. Perché altrimenti continueremo a far sì che per le biblioteche non valga quello che vale per una scuola o uno stadio e cioè la regola, dettata dal semplice buon senso, per cui nella progettazione ad esempio di un servizio scolastico, sportivo o sanitario, la prima cosa che si fa è appunto quella di valutare l'ampiezza del bacino d'utenza da servire, per adeguarvi le dimensioni delle strutture e dei servizi.

Il problema vero, quando si comincia a parlare di parametri, è che allora si evidenzia clamorosamente l'inadeguatezza reale delle nostre biblioteche pubbliche. Parlo di inadeguatezza reale non a caso, perché si è diffuso un fenomeno tutto italiano che è stato appunto definito della "adeguatezza apparente". Il riferimento è all'indagine condotta dalla Commissione Nazionale "Biblioteche Pubbliche" dell'Associazione Italiana Biblioteche, pubblicata nel 1994 in un rapporto dal titolo: "Quanto valgono le biblioteche pubbliche? Analisi della struttura e dei servizi delle biblioteche di base in Italia".

Il fenomeno consiste in questo: "una biblioteca, che ha di gran lunga superato i requisiti minimi di funzionamento perché è dotata di una bella sede, di personale qualificato, di una collezione libraria ben costruita, ecc., è ritenuta in grado di erogare un'ampia gamma di servizi di informazione e lettura e di essere punto di riferimento nell'area geografica in cui opera. Come tale è recepita non solo dai cittadini e dai pubblici amministratori, ma anche dai bibliotecari". In sostanza è una biblioteca che funziona bene. Quello che non ci si chiede è: bene rispetto a cosa?

Certo, bene rispetto magari a prima, quando la biblioteca non c'era, o mancava il personale professionalizzato, o non si disponeva di una sede decorosa, o il patrimonio non era minimamente adeguato e senza dubbio i risultati ottenuti grazie all'impegno profuso da amministratori e bibliotecari nel miglioramento del servizio sono comunque sempre da apprezzare e non vanno mai sottovalutati.

Quando però ci si chiede se la biblioteca funziona bene rispetto al bacino di utenza, rispetto al numero di abitanti della comunità servita, ecco che quello che appare come un buon servizio cessa immediatamente di essere tale e mostra una inadeguatezza sconfortante.

Qualche esempio, ripreso dall'indagine sopra ricordata e riferito alla nostra realtà regionale, può offrirci a questo proposito qualche utile elemento di riflessione.

Come si sa, l'indagine aveva per oggetto una particolare tipologia di biblioteca di ente locale: quella definita di base. Dalla ricerca sono state perciò escluse le biblioteche di capoluogo di provincia, le biblioteche centro sistema e le biblioteche di comunità con una popolazione superiore ai 70.000 abitanti. Si è considerato rappresentativo un campione di 200 biblioteche scelte in modo da rispecchiare il rapporto tra le diverse aree geografiche del nostro Paese e, quel che è importante, sono state selezionate strutture che, in base a una serie di requisiti, si collocassero in una fascia qualitativa medio-alta di servizi. Le biblioteche scelte nella nostra Regione sono state sedici, tra cui, ad esempio, Cattolica, Cavriago, Formigine, Castel Bolognese e Langhirano. Di queste biblioteche sono stati analizzati i dati relativi agli spazi, al personale, ai bilanci, agli orari di apertura, alla dotazione documentaria, alle nuove accessioni, all'utenza e ai prestiti, che poi sono stati elaborati per ricavarne degli indicatori di qualità attraverso i quali fosse possibile comparare i servizi e ricavare valutazioni a livello generale.

Dalla combinazione di vari indicatori si è poi ottenuto un macroindicatore sintetico di qualità, un valore unitario in base al quale è stata stilata una graduatoria delle diverse situazioni a livello regionale. Diciamo subito che la nostra Regione non si colloca ai primi posti, ma piuttosto a metà di questa classifica, e cioè al nono posto dopo Valle d'Aosta, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Piemonte e Basilicata. E' un dato, questo, che rischia forse di appannare la fama di punta avanzata dell'organizzazione bibliotecaria nazionale che la nostra Regione si è conquistata, forse millantando un po' credito. Ma sappiamo tutti quanto siano arbitrarie graduatorie di questo genere e comunque non è tanto questo che ci interessa, quanto piuttosto osservare più in dettaglio alcuni dati relativi alle caratteristiche essenziali delle biblioteche di base della nostra Regione, a cominciare appunto dai "requisiti minimi": sede, personale e patrimonio.

Non c'è bisogno qui di sottolineare quanto una sede idonea e spazi adeguati siano decisivi per l'efficacia dei servizi e per l'immagine e la considerazione della stessa biblioteca nella collettività. Così come è esperienza comune di quanto invece questo aspetto sia in genere sottovalutato e di come sia evidente l'arretratezza, anche sotto questo profilo, delle nostre strutture bibliotecarie rispetto ad altri Paesi europei. Il dato fornito dall'indagine consente di valutare l'entità di questa arretratezza: se infatti si assume come riferimento lo standard del 1976 dell'IFLA che stima come ottimale nel dimensionare una biblioteca il rapporto di 1 metro quadro per ogni 10 abitanti, risulta che in media il livello delle biblioteche pubbliche italiane è di quattro volte inferiore, cioè di 0,25 metri quadri ogni 10 abitanti. Per la nostra Regione i dati non sono molto migliori: 0,35 metri quadri ogni 10 abitanti. Il che denuncia un sottodimensionamento allarmante delle strutture, che preoccupa non solo per i vincoli che l'inadeguatezza degli spazi impone allo sviluppo dei servizi, ma anche perché dimostra indirettamente come tra gli amministratori non ci sia una percezione realistica dell'importanza del servizio bibliotecario e della necessità di investimenti dimensionati all'entità delle popolazione servita.

Discorso analogo per il personale: il numero degli addetti di ruolo e a tempo pieno delle nostre biblioteche di base raggiungono poco più di un terzo dello standard ritenuto soddisfacente dall'IFLA, quello cioè di 1 addetto per ogni 2.000 abitanti. In Emilia Romagna l'indice è di 0,37.

Né le cose migliorano, come è prevedibile, sul versante del patrimonio o meglio dell'acquisizione dei volumi, un valore che rispetto alla consistenza risulta molto più significativo per verificare la vitalità e il grado di funzionamento di una biblioteca pubblica. Lo standard IFLA definisce come ottimale un livello di incremento annuale di 250 libri ogni 1.000 abitanti, mentre le biblioteche della nostra Regione, negli anni 1987 – 1991, ne hanno acquistati in media 71 ogni 1.000 abitanti, meno di un terzo dunque.

In estrema sintesi, si può quindi concludere che le nostre migliori biblioteche di base hanno spazi, personale e risorse pari a circa un terzo del livello che vent'anni fa era considerato soddisfacente in ambito internazionale. E i risultati del resto si vedono. Il dato considerato più significativo dall'indagine sulle biblioteche pubbliche italiane, quello che più di ogni altro sintetizza in un solo indicatore i molteplici aspetti legati alla qualità del servizio, è il rapporto prestiti/abitanti. Tra l'87 e il '91 si oscilla tra lo 0,48 e lo 0,62 prestiti per ogni abitante a livello nazionale, mentre in Emilia Romagna l'oscillazione è tra lo 0,56 e lo 0,68. Sempre di zero comunque si tratta, cioè non si raggiunge la media di un prestito per abitante. In sostanza mille cittadini dell'Emilia Romagna producono tra i 500 e i 600 prestiti, contro i 3 - 4.000 dell'Ungheria, i 5.000 della Germania, i 10 - 14.000 dell'Inghilterra, per non parlare dei 17 - 20.000 della mitica Danimarca. E se si considera che questi ultimi sono dati del 1983, cioè di 15 anni fa, si misura in varie decine d'anni il ritardo accumulato dalle biblioteche pubbliche italiane rispetto alle biblioteche europee.

E' qui dunque che si apre il campo d'azione della nuova legge regionale, il cui compito prioritario diventa perciò quello di ridurre la distanza che ci separa dall'Europa, di recuperare questo grande ritardo, puntando ancora, come mi sembra sia chiaro dall'analisi che ho cercato di delineare, sui fondamentali, cioè sugli elementi costitutivi e basilari del servizio bibliotecario, senza farsi abbagliare da soluzioni futuristiche.

Dico questo perché intravedo un rischio: che cioè le nuove tecnologie tendano paradossalmente ad occultare, piuttosto che ad evidenziare, questo ritardo. Oggi che anche la più piccola biblioteca può fornire ai propri utenti un accesso ad Internet, ci si può agevolmente convincere di essere al passo con le realtà più evolute. Ma questo è un pericoloso errore di prospettiva: quello che ci divide dall'Europa non sono le nuove tecnologie. Oggi nella nostra Regione, la navigazione in Internet o una postazione multimediale non si nega più a nessuno. Dobbiamo evitare quello che io definisco l'"effetto bookshop", quello che a volte coglie i nostri politici o i nostri amministratori che vanno a Londra o a Parigi e, una volta tornati in Italia, pensano di risolvere i problemi dei nostri musei con la creazione di una caffetteria e, appunto, di un bookshop, saltando tutto quello che ci sta in mezzo, come chi volesse la ciliegina senza essersi prima preoccupato di fare la torta.

Così per le biblioteche, non è Internet che ci spalanca magicamente le porte dell'Europa, perché ciò che ci separa dalle più avanzate realtà europee è appunto quello che sta in mezzo tra i "requisiti minimi" e Internet, è qui dove le nostre biblioteche sono carenti o inadeguate ed è qui soprattutto che la nuova legge deve riuscire a produrre un salto di qualità. E quello che sta in mezzo sono appunto spazi idonei e confortevoli, personale qualificato e in numero sufficiente, risorse adeguate al bacino d'utenza, ampi orari di apertura, freschezza del patrimonio, molteplicità dei servizi, ricchezza dell'offerta, sviluppo della cooperazione, potenziamento del prestito interbibliotecario, oltre che naturalmente automazione e nuove tecnologie.

Non è un caso, io credo, che un Paese che sta producendo un notevole impegno per recuperare il grave ritardo accumulato rispetto agli altri Paesi europei e che sta ottenendo risultati di grande rilievo, mi riferisco al Portogallo, abbia incentrato la sua azione su una serie di programmi che si fondano appunto sul rispetto di parametri, proposti come orientamenti operativi dalle autorità centrali ai municipi attraverso la stipula di accordi di programma della durata di quattro anni. Tali parametri sono articolati per fasce, a seconda del numero di abitanti e, per fare un solo esempio, prevedono nella prima fascia, relativa a comunità con meno di 20.000 abitanti, una biblioteca con una superficie di almeno 578 metri quadri, 120 posti a sedere, un patrimonio iniziale di 10.000 volumi per adulti e 4.000 per ragazzi, 1.250 audiovisivi, un livello di incremento annuale di 1.500 volumi e 150 audiovisivi, una dotazione di personale composta da un bibliotecario e tre ausiliari.

E se proprio non vogliamo parlare di standard e di parametri, parliamo almeno di obiettivi, di finalità che la legge potrà indicare come traguardi e mete da perseguire, per innescare processi di potenziamento e riqualificazione dei servizi.

Ma naturalmente la nuova legge dovrà anche fornire altre indicazioni, non solo quantitative, recependo i risultati di un dibattito che è già in corso e che dovrà trovare sedi e possibilità per svilupparsi ulteriormente.

Avanzo a questo riguardo una proposta che potrà forse trovare spazio nella nuova legge, ma che nessuno vieta di accogliere fin da ora, e cioè la costituzione di una Consulta delle Biblioteche, intesa come un organismo tecnico in cui siano rappresentate le principali realtà bibliotecarie della nostra Regione e che si ponga come spazio di riflessione sugli indirizzi programmatici in tema di biblioteche e come elemento di raccordo per le politiche bibliotecarie sul territorio. Questa commissione tecnica, che potrebbe essere un utile strumento di consultazione e di verifica a disposizione della Soprintendenza ai Beni Librari, potrebbe appunto avere come primo obiettivo quello di formulare proposte e orientamenti per la stesura della nuova normativa e costituire la sede privilegiata del dibattito che ne dovrà accompagnare il percorso fino all'approvazione.

In questo dibattito da sviluppare, dovranno trovare ampio spazio alcuni temi centrali che mi limito semplicemente a enumerare, dal momento che ciascuno di essi richiederebbe un discorso a sé.

Innanzitutto il tema della "missione" della biblioteca pubblica nella nostra realtà, cioè in sostanza quale ruolo le biblioteche pubbliche della nostra Regione sono chiamate ad assolvere nel prossimo futuro per esercitare una funzione determinante nella nostra società.

Tema vasto e complesso, in cui si dovrà cercare di riempire di contenuti la definizione della biblioteca pubblica proposta dall'UNESCO come "chiave di accesso locale al sapere universale" e in cui ad esempio dovranno essere affrontate le problematiche legate all'informazione di comunità, un argomento questo che ha vissuto una breve stagione di attualità, per essere poi ingiustificatamente accantonato. Io credo invece che, come dicevo all'inizio, temi di grande rilievo sociale come i diritti del cittadino ad un accesso libero e pienamente autonomo alla conoscenza ed all'informazione rimettano pienamente in gioco il ruolo della biblioteca pubblica come presidio per l'esercizio di questi diritti garantiti costituzionalmente. L'informazione di comunità rimane in questo contesto una funzione essenziale, anche se sono cambiati col tempo gli strumenti: oggi ad esempio le biblioteche pubbliche devono diventare il fulcro attorno al quale organizzare e promuovere le reti civiche e candidarsi ad un ruolo da protagoniste nel processo di alfabetizzazione all'uso delle tecnologie dell'informazione.

E certo nel tema della "missione" dovranno entrare anche altre responsabilità primarie della biblioteca pubblica, come quella di garantire la raccolta e la tutela della documentazione di interesse locale, per assolvere al compito di diventare un vero e proprio "contenitore" della memoria collettiva della comunità. Ma oggi alla salvaguardia dell'identità collettiva deve affiancarsi anche un altro compito fondamentale: quello dell'integrazione culturale. Se non si vuole correre il rischio, oggi sempre più incombente, che la valorizzazione delle proprie radici e delle fonti della propria identità degradi nel campanilismo e nella chiusura localistica, occorre che la biblioteca in primo luogo appronti nuovi strumenti che aprano invece la comunità al confronto con le altre culture, attrezzandola ad affrontare quella che rappresenta una delle più impegnative sfide del nuovo secolo.

Altro tema centrale: quello dell'autonomia. La nuova legge dovrà infatti tener conto delle novità che, rispetto alla Legge 42, sono state introdotte dalla legislazione nazionale sul versante della gestione dei servizi pubblici. L'impatto che la Legge 142 ha avuto sulla conduzione gestionale delle biblioteche è stato di modesta portata rispetto alle aspettative iniziali, quando pareva che con l'ipotesi di istituzione si fosse finalmente trovata la chiave per aprire alle nostre biblioteche le porte della flessibilità, della maggiore efficienza, dell'emancipazione dalla burocrazia e della piena autonomia appunto. Evidentemente tra la teoria e la pratica qualcosa si è inceppato e a distanza di ormai sette anni dalla 142 nella nostra Regione sono solo due, per quello che è a mia conoscenza, le esperienze di trasformazione in istituzione di servizi bibliotecari. Oggi credo dobbiamo avviare una riflessione su queste aspettative disattese, per comprenderne la cause, per capire se dietro questo scarso entusiasmo per le nuove possibilità offerte dalla legge vi sia paura del nuovo, incertezza di percorsi, indeterminatezza dei nuovi modelli, scetticismo sulla loro reale efficacia.

Senza peraltro dimenticare che al tema dell'autonomia sono interessate tutte le biblioteche, dalle più grandi alle più piccole, perché prima ancora che agilità economica, autonomia significa garanzia di pluralismo e di imparzialità che sono il DNA costitutivo di ogni biblioteca, indipendentemente dalle sue dimensioni. La garanzia di autonomia da direttive politiche o da condizionamenti ideologici deve anzi valere soprattutto per le biblioteche di piccole e medie dimensioni, forse più esposte di altre a possibili interferenze di questa natura. I soli punti di riferimento che devono orientare il bibliotecario ed ispirare la sua attività professionale sono i principi etici contenuti in quel codice deontologico che appunto la nostra professione si sta dando e che stabiliscono innanzitutto che l'informazione fornita dalle biblioteche deve essere completa, obiettiva e imparziale, non condizionata da punti di vista, idee e valori né del bibliotecario stesso né di enti politici o economici esterni.

Un altro tema fondamentale è naturalmente quello della cooperazione. Qui credo che la riflessione debba partire dalla presa d'atto che lo scenario attuale non è quello prefigurato dalla Legge 42, la quale faceva ruotare tutta l'organizzazione bibliotecaria regionale attorno ai "sistemi bibliotecari locali" che invece non si sono diffusi. La cooperazione, che pure si è sviluppata, ha seguito un'altra strada, quella dei poli SBN e dei servizi centralizzati su base provinciale. Questo non per dire che sia un bene o un male, non è un giudizio di valore, ma semplicemente un dato di fatto che impone di rivedere dalle fondamenta l'architettura del sistema bibliotecario regionale e le forme di cooperazione che dovranno esserne alla base. In questa riflessione dovrà entrare anche il problema del ruolo da far svolgere alle biblioteche maggiori, alle biblioteche di capoluogo di provincia, che a mio avviso dovrebbero diventare la spina dorsale dell'intero sistema bibliotecario regionale, i motori del suo sviluppo, con effetti di ricaduta generale sul tessuto delle biblioteche di base. La legge attuale sotto questo profilo è carente, crea parallelismi senza imporre le necessarie convergenze che saldino in un rapporto più stretto, al di là di ogni titolarità, tutti i servizi bibliotecari di un territorio.

C'è poi il tema dell'obbligatorietà che deve rispondere alla domanda: sono maturi i tempi per definire obbligatorio per legge il servizio bibliotecario in tutti i comuni, singoli o associati?

Il tema dell'utenza: io ad esempio auspico che la nuova legge sposi più di quella attuale il punto di vista degli utenti, ad esempio incentivando o persino rendendo obbligatorie per ogni biblioteca la carta dei servizi.

Altri temi importanti: quelli della gratuità dei servizi, dell'edilizia bibliotecaria, della professionalità, ma non va dimenticato un tema che potremmo definire "oltre la legge", nel senso che ci deve accompagnare in questo dibattito la consapevolezza che una nuova legge da sola non basta, che occorre avviare una strategia più complessiva che azioni tutte le leve disponibili in un quadro organico, in cui la legge è uno degli elementi, non l'unico. C'è bisogno, cioè, oltre che della legge sulle biblioteche, di una politica bibliotecaria promossa non dal solo Assessorato alla Cultura, ma dalla Regione nel suo complesso, la quale deve rapportare le problematiche delle biblioteche a quelle dell'occupazione, della formazione, della comunicazione e delle politiche scolastiche, in una visione integrata delle risorse, creando forti incentivi per spingere gli enti locali a favorire la crescita qualitativa delle biblioteche pubbliche.

Penso ad esempio a mutui agevolati o a sgravi fiscali per incentivare finalmente lo sviluppo dell'edilizia bibliotecaria; ai progetti (che tra l'altro vedono l'Emilia Romagna come terreno di sperimentazione) di riforma del servizio di leva con l'inserimento del servizio civile anche in contesti culturali; a forme di incentivazione e di sviluppo del volontariato culturale; al sostegno alle imprese di giovani nel campo della gestione dei servizi di documentazione e di catalogazione; a forme per incoraggiare, invece che scoraggiare come succede oggi, le donazioni, gli atti di munificenza e le sponsorizzazioni; alle politiche di formazione e di sostegno dell'occupazione, per riordinare i nuovi profili professionali e aggiornare i relativi percorsi formativi; a modi per favorire strumenti di cooperazione non ancora diffusi nel nostro settore, come ad esempio gli accordi di programma.

La Regione deve cioè mobilitare tutte le sue risorse per farle convergere in una strategia organica, in un programma di sviluppo che possa contare su una molteplicità di piani e di livelli di intervento, tutti indirizzati all'obiettivo condiviso di produrre un salto di qualità ai servizi bibliotecari nel nostro territorio.

E forse ci accorgeremo così di essere più vicini alla meta quando nei nostri dibattiti professionali, come quello di oggi, i termini del discorso saranno finalmente invertiti e cominceremo a chiederci sempre meno cosa deve fare la società per creare un nuovo modello di biblioteca e sempre di più cosa può fare la biblioteca per un nuovo modello di società.

Maurizio Festanti




«Bibliotime», anno I, numero 1 (marzo 1998)


Precedente Home Inizio Successiva