«Bibliotime», anno II, numero 1 (marzo 1999)


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Michele Santoro

Metastrutturazione di un dibattito



Le note che seguono intendono fornire qualche ulteriore spunto al dibattito sui "non strutturati", dibattito che ha preso le mosse dal precedente numero di "Bibliotime" e di cui gli articoli presenti in questa sezione rappresentano un interessante corollario.

Dunque, se vogliamo estendere l’analisi a paesi di più solida tradizione bibliotecaria, vediamo che - almeno per quanto concerne l’impiego dei volontari in biblioteca - il nostro è un argomento che è ben presente all’attenzione di quelli che possiamo ormai tranquillamente definire "strutturati".

Ci riferiamo in particolare a quanto pubblicato su "Cristal-Ed", una lista di discussione che ogni settimana propone un diverso tema di dibattito, rendendo poi disponibili i risultati sul Web [1]. Di recente "Cristal-Ed" ha trattato un topic che, almeno a giudicare dal titolo, è sembrato assumere un rilievo straordinario per la nostra professione: What is a librarian? A discussion of changing roles in the library [2].

Ma già l’intervento iniziale di Irene Schubert, bibliotecaria della Library of Congress, ha orientato il discorso verso una direzione piuttosto insolita: chiedendosi infatti che cosa sia un bibliotecario, l’autrice non ha ritenuto di rispondere fornendo una mera lista di compiti (quello cioè che i bibliotecari "fanno"), ma ha preferito spostare l’accento sui comportamenti e sulle conoscenze, su quello cioè che i bibliotecari "sanno" essere importante: a volte, scrive infatti la Schubert, è anche importante dire "non so", e tuttavia continuare ad apprendere da tutto ciò che la biblioteca è in grado di insegnare, al fine di dare le risposte più vantaggiose agli utenti di oggi e di domani.

Tale dichiarazione di "umiltà" [3] è stata poi sfruttata da Paul B. Wiener, Special Service Librarian della SUNY at Stony Book, per chiedersi più prosaicamente se i bibliotecari possano "noleggiare" dei volontari, collaboratori cioè "senza salario"; per una serie di ragioni, egli si dice fortemente convinto che ciò non dovrebbe accadere.

Riallacciandosi a questo intervento John Sumsion, del Department of Information and Library Studies dell’Università di Loughborough, UK, offre il punto di vista delle biblioteche inglesi: nel Regno Unito infatti la possibilità di far ricorso a volontari non è stata sufficientemenete perseguita, almeno fino a quando non si sono accorti che su questo terreno le biblioteche pubbliche americane erano già molto avanti. In Gran Bretagna, prosegue Sumsion, le biblioteche pubbliche hanno usato i volontari solo per la distribuzione di libri a lettori impossibilitati a muoversi, ed anche questo ruolo di norma è stato gestito da agenzie esterne e non direttamente dalle biblioteche. L’autore fa poi notare che negli Stati Uniti le biblioteche pubbliche si giovano non solo dei volontari, ma anche dei cosiddetti "amici della biblioteca": entrambe queste possibilità andrebbero quindi riaffrontate, dal momento che attengono strettamente alla vita delle biblioteche.

Molto interessante è l’intervento di Samuel R. M. Souza, bibliotecario di Sao Paulo, il quale ricorda come in Brasile esista una legge specifica che regola il lavoro volontario nelle istituzioni non-profit, e di conseguenza l’attività di volontariato prestata in maniera regolare può anche consentire la richiesta di un vero e proprio salario. Diverso, per l’autore, è il discorso sul "noleggiare" i volontari, discorso verso il quale occorre molta cautela, specialmente se lo si pone in rapporto ad attività quali l’indicizzazione e i servizi di reference, per cui è necessario uno specifico training; d’altro canto, prosegue Souza, è anche vero che le biblioteche possono ricevere un sostegno efficace da persone realmente motivate e desiderose di svolgere compiti più impegnativi del semplice riordino dei libri sugli scaffali.

A questo punto qualcuno - Ronald P. Naylor dell’Università di Miami - si chiede che cosa s’intenda con il termine "noleggiare", e quali siano i motivi di tanta contrarietà all’utilizzo dei volontari, dal momento che molte biblioteche pubbliche e universitarie li impiegano da tempo sia nei servizi tecnici che in quelli al pubblico in modo da realizzare efficacemente gli obiettivi che si sono prefissati.

L’autore si chiede poi quale sia il significato di quel "noleggiare": se il termine fra virgolette implica la definizione di un contratto formale, sostiene Naylor, non si può che essere d’accordo, poiché un programma di lavoro volontario ha successo solo quando le persone coinvolte sono consapevoli che si sta realizzando un formale contratto di lavoro a condizioni controllate; quando ciò avviene, sia le istituzioni che i volontari sono di fronte a obiettivi e percorsi ben precisi: perché dunque essere contrari?

Monica Green riporta la discussione su un terreno più personale, affermando che l’idea di volontari non pagati e "noleggiati" - ma forse è preferibile usare il termine "selezionati" - le sta molto a cuore, in quanto attualmente è l’unica bibliotecaria (la tipica one-person library) presso la Primary School di Balwyn, Australia: con il supporto dei volontari spera infatti di realizzare un efficace programma di lavoro, in quanto la scuola non ha i fondi per aumentare il numero dei membri dello staff.

Ma non sempre la situazione appare rosea: proprio da una ex volontaria, Diane M. Lewis, viene infatti una voce di forte dissenso, che mette in guardia dai rischi di un impiego troppo disinvolto di questi collaboratori. Con piena cognizione di causa, l’autrice dunque sostiene che è quanto meno temerario sperare che si possano risolvere i problemi delle biblioteche confidando nei volontari; difatti molti vogliono scegliere fra i diversi incarichi, preferendo lavori gradevoli e soddisfacenti: ma, dal momento che le biblioteche hanno a che fare con compiti noiosi, ripetitivi e poco attraenti, è inevitabile che sorgano dei conflitti con i membri dello staff. Così, mentre questi ultimi sono nei guai con le mansioni più sgradevoli, i volontari si prendono i lavori più divertenti; essi inoltre non solo iniziano il servizio quando lo ritengono opportuno, ma antepongono le necessità personali agli obblighi del lavoro, spesso senza darne notizia allo staff.

Al pari delle donazioni alle biblioteche, conclude l’autrice, i volontari dovrebbero essere impiegati per progetti speciali, e non per le mansioni ordinarie, che invece andrebbero finanziate con fondi pubblici. I volontari infatti, come le donazioni, possono tranquillamente svanire nel vento.

E in Italia? In Italia la discussione sembra interessare da vicino una categoria che è possibile definire dei "non strutturati professionali", cioè liberi professionisti o componenti di cooperative che a diverso titolo prestano la loro opera nelle biblioteche, il più delle volte svolgendo mansioni di notevole rilievo concettuale [4].

É evidente che il discorso su questa categoria non riguarda soltanto il microcosmo bibliotecario, ma viene a coinvolgere l’intero mondo del lavoro intellettuale, acquisendo un riconoscimento che gli permette di uscire dai ristretti ambiti specialistici per approdare sulle pagine di riviste per un vasto pubblico quali ad esempio "La Repubblica delle Donne".

Così nel breve ma interessante articolo di Andrea Cusatelli [5] si parla degli "atipici", un nuovo gruppo professionale caratterizzato da "tanta flessibilità, nessuna garanzia". Questo, secondo l’autore, l’identikit del "lavoratore atipico": "è istruito, ha meno di 40 anni, non è sposato, lavora nel terziario avanzato, ha più committenti, guadagna meno di un lavoratore dipendente. Ed è spesso una donna"; a questa categoria, prosegue l’autore "appartengono consulenti di marketing, corrieri, analisti, educatori, telelavoratori, account..." (e siamo convinti che fra quei puntini di sospensione siano compresi anche i bibliotecari). La situazione lavorativa degli atipici è assai variegata, in quanto "molti sono senza contratto ma altri hanno un rapporto di collaborazione temporanea, o un contratto coordinato e continuativo".

Che si tratti di un problema di notevole rilevanza lo testimonia l’interesse dei sindacati, che hanno definito forme di "consulenza previdenziale e fiscale ai nuovi autonomi", oltre che di assistenza "per negoziare con il committente le tariffe del lavoro"; ma degli atipici si stanno occupando anche gli enti locali, se è vero che "a Bologna lo sportello comunale Libra ha organizzato percorsi di orientamento di 40 ore per chi comincia un’attività autonoma", e che analoghe iniziative sono in cantiere a Mestre e Venezia [6].

Quello degli atipici è dunque un fenomeno che va riconosciuto in tutta la sua estensione e complessità, e a cui va assegnata una particolare tutela non solo nelle vere e proprie fasi lavorative, ma soprattutto nella delicata fase di formazione, per la quale Aldo Bonomi, sociologo consulente del Cnel, propone particolari agevolazioni affinché siano in grado di superare le difficoltà che precedono l’immissione nell’ambiente di lavoro utilizzando al meglio il training che viene loro impartito.


Michele Santoro, Biblioteca del Dipartimento di Scienze economiche - Università di Bologna, e-mail: santoro@spbo.unibo.it

Note

[1] Cristal-Ed Mail List Discussion, <http://www.si.umich.edu/cristaled/discussions.html>.

[2] What is a librarian? A discussion of changing roles in the library, Crista-Ed, <http://www.si.umich.edu/cristaled/postings/V97.html>.

[3] La parola è nel testo della Schubert.

[4] Come testimonia il dibattito su AIB-CUR.

[5] Andrea Cusatelli, Senza rete. Autonomi e atipici: i nuovi professionisti vogliono essere riconosciuti. "La Repubblica delle Donne", anno 3, n. 126, 17-23 novembre 1998, p. 208.

[6] Venezia è la città nella quale lo storico Sergio Bologna sta da tempo osservando il fenomeno, giundendo per primo a teorizzarne l’esistenza; cfr. Sergio Bologna, Andrea Fumagalli, Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia. Milano, Feltrinelli, 1997.



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