«Bibliotime», anno III, numero 1 (marzo 2000)


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Federico Pellizzi

Configurare la scrittura
Ipertesti e modelli del sapere



1. La modernità ci ha abituati a pensare alla scrittura principalmente in due forme, come prodotto della tipografia o della penna. Spesso nell'ultimo secolo la seconda forma ha fatto da controvoce alla prima, con tutte le tendenze "calligrafiche" che si sono manifestate, da William Morris a Peter Greenaway, o grazie all'importanza che hanno assunto nel Novecento certi generi "di penna", come l'epistola o il diario; a volte all'interno della stessa pratica tipografica si è attuato il tentativo di ampliare o sovvertire le forme regolari della scrittura, e di sperimentare nuovi spazi, come nel caso del futurismo e dello sviluppo dei linguaggi della pubblicità [1]. Tuttavia tale polarità tipografico-calligrafica è rimasta abbastanza salda, e insegnata nelle scuole, fino ad oggi. Tutto sommato essa corrisponde ai due capisaldi intorno a cui, secondo Alain Touraine [2], si è costituita la modernità stessa, il "sistema", e "l'individuo", l'organizzazione e la sfera privata. Dunque "tipografia" e "penna" hanno costituito fino ad ora, per così dire, la langue e la parole della comunicazione scritta.

Da diversi decenni, tuttavia, si sta scoprendo che la storia plurimillenaria della scrittura, che sembrava avere il suo apice, di là dalla polarità che si è detta, nella costituzione moderna del libro, è assai meno univoca e omogenea. A questa visuale più complessa hanno contribuito, come è noto, studi importanti di storia e antropologia della cultura, e ricerche sempre più vaste sulle tecnologie semiotiche e sui mezzi di comunicazione [3]. Mettere in luce certi legami tra le forme della scrittura e le forme del sapere, tra il modo di notazione e il pensiero, tra l'alfabeto e l'assetto della società, non sembra aver favorito nuove impostazioni deterministiche, come poteva apparire in una fase iniziale, bensì ha mostrato la storicità e la varietà delle forme di classificazione, codificazione e trasmissione dei saperi e delle pratiche espressive: modalità spesso coesistenti e in conflitto, spesso non ancora definite negli usi sociali né nel loro assetto documentale e formale.

Tuttavia ciò che ha assestato gli ultimi colpi a un'idea immobile di "oggetto culturale" è la diffusione di massa delle nuove tecnologie digitali, che ha introdotto nelle case della gente il problema pratico di come e in quali forme prendere parte, in qualche modo, al "sapere" collettivo dell'umanità. Ci si trova di fronte a una proliferazione di linguaggi e a una moltiplicazione dei canali attraverso i quali si può prelevare e diffondere informazione, e nello stesso tempo si dispone di uno strumento – la codifica digitale – in grado di rendere tale pluralità comparabile e dialogante. Soprattutto sembrano nascere nuovi modi di strutturare l'informazione e di indicizzare e descrivere il mondo reale. Ai vecchi modi della scrittura si aggiungono i nuovi, e si rende così necessaria anche la sperimentazione di nuove convenzioni che permettano di riconoscere determinate pratiche comunicative e discorsive, e di attribuire più o meno valore agli oggetti e ai simboli che esse includono e manipolano.

Se si allarga il nostro concetto di scrittura e di testualità, recuperando, come si è detto, la ricchezza di forme dell'intera storia della scrittura e il serbatoio di potenzialità non espresse che essa contiene, non è difficile considerare anche le nuove tecnologie come l'ultimo sviluppo di questa storia del "lasciare segno". In prima approssimazione, ciò che distingue i vecchi media (come la televisione, il cinema, ecc.) dai nuovi (le tecnologie digitali) è proprio il fatto che mentre i primi creavano per lo più situazioni (il set, lo spettacolo, le persone sul divano, ecc.), gli ultimi creano principalmente contesti (configurano, incorniciano, collegano, gerarchizzano elementi simbolici), e sono quindi a tutti gli effetti forme di scrittura [4].

Ricondurre le nuove tecnologie all'orizzonte della scrittura non riduce minimamente la novità fondamentale del mondo digitale, ma induce a rendere più profondo e attento il nostro sguardo verso queste nuove forme di costruzione dei significati, ponendo l'accento non solo sull'aspetto comunicativo, ma anche su quello morfologico. Si tratta innanzitutto di guardare, fenomenologicamente, come questi costrutti si presentano e come funzionano, come sono strutturati, e che tipi di operazioni semantiche, metaforiche e pragmatiche mettono in atto. A un primo esame si può constatare che i manufatti digitali non sono affatto definiti e uniformi, ma mostrano, anche esplicitamente, la loro natura sperimentale: le tecnologie su cui si appoggiano sono in continua evoluzione, i modelli e le metafore a cui si ispirano, in realtà, sono assai differenziati. Ciò potrebbe anche rivelarsi un loro carattere costitutivo, più che rappresentare le difficoltà di una nascita. Tuttavia l'elemento che tutti questi manufatti sembrano avere in comune, di là dalla loro natura digitale, è l'ipertestualità. Tralasciando per il momento il problema di una definizione e di una delimitazione dell'"ipertestualità", ci si può chiedere se questo, nell'ambito delle nuove tecnologie, non sia proprio l'elemento più innovativo dal punto di vista delle forme, dei costrutti, dei "generi" della comunicazione umana. Il fatto che molti si sentano in dovere di affermare che l'ipertestualità è sempre esistita nella pratica artistica [5] in realtà non fa che confermare questa impressione. Proprio la generalità e la banalità, se si vuole, dell'incarnazione, dell'oggettivazione in uno strumento concreto di una prassi associativa conosciuta da sempre da artisti e pensatori, mostra che si tratta di un'invenzione straordinaria e incisiva.

2. Di là dai conflitti irrisolti, dalle convivenze separate dei mondi simbolici che fanno, propriamente, la storia della scrittura, è indubbio però che ogni epoca tende a fissare propri modelli gnoseologici, o, come scriveva David J. Bolter, a eleborare un proprio modello di funzionamento del pensiero in base agli strumenti semiotici di cui dispone: "ogni cultura letterata è inesorabilmente condotta a definire la mente in rapporto alla scrittura" [6]. Non solo, ma le pratiche comunicative, espressive e dichiarative tendono ad assumere sotto-modelli, ossia "generi del discorso" influenzati a loro volta dagli strumenti di produzione delle enunciazioni e dai modi della loro diffusione e conservazione. Il compito di questi "generi" è non solo quello di organizzare i discorsi intorno a determinati oggetti, ma molto spesso di decidere ciò che va ricordato e ciò che va dimenticato [7]. Svolgono insomma una funzione selettiva. Con Lotman si potrebbe dire che hanno anche la funzione di discernere il culturale dal non-culturale. Tra modelli gnoseologici e modelli del discorso esiste indubbiamente un rapporto molto stretto, di modellizzazione reciproca, che dà luogo a un meccanismo di proliferazione metaforica con funzione normativa. La modernità ci ha dato, grossomodo, due modelli gnoseologici dominanti, uno nuovo e uno antichissimo, l'enciclopedia e la narrazione. Sono due forme di rappresentazione del sapere che hanno influenzato molte discipline nella loro stessa fondazione e autodefinizione. La storia letteraria, ad esempio, ha seguito entrambi i modelli [8], in una sorta di inveramento alternato dei fatti e dei miti. Dal punto di vista dei generi del discorso, invece, sono due i modelli più significativi, in bilico spesso tra sapere enciclopedico e sapere narrativo, che si sono assunti il compito di trasmettere la conoscenza: il trattato (nella versione più popolare, il manuale) e il saggio. Indubbiamente questo quadrumvirato ha influenzato molto tutte le pratiche di creazione, trasmissione e conservazione del sapere in età moderna. Il modello enciclopedico ha in particolare influenzato tutte le pratiche archivistiche di schedatura, indicizzazione e classificazione. L'archivistica, a sua volta, ha influenzato la rappresentazione testuale di generi letterari, introducendo ad esempio le sigle dei personaggi nei dialoghi [9]. Ma si potrebbe anche dire che, nel mondo del sapere critico, enciclopedia, manuale e saggio rappresentano, rispettivamente, il polo drammatico, narrativo e lirico. Non è questo il luogo per seguire suggestioni di tal genere, ma lo scopo era mostrare che gli universi di discorso posseggono una profondità inusitata [10]. I nuovi stili discorsivi non possono che "prendere posizione" nell'insieme di queste reti di modelli gnoseologici e riverberi culturali. Ciò vale anche per quella che sembra sempre più una modalità non passeggera di rappresentazione e allo stesso tempo di elaborazione dei significati, l'ipertestualità. Qui si sostiene che per poter riflettere adeguatamente sugli ipertesti si debba non solo tener conto di queste "reti di modelli" [11], ma anche considerare l'ipertestualità come modalità discorsiva a pieno titolo.

3. "Ipertesto", in realtà, è un costrutto teorico, con una lunga storia concettuale alle spalle e una buona dose di astrattezza, il quale però trova la sua ragione di sussistenza in una prassi di scrittura che un certo numero di nuove tecnologie permette di attuare concretamente. La sua definizione più generale è quella di un insieme di documenti elettronici collegati tra loro in modo che si possa passare dall'uno all'altro (o da un punto ad un altro punto dello stesso o di un altro documento), mediante la scelta e l'esecuzione di un comando. In questo "passare" è implicito il concetto di successione non meno che quello di esecuzione: si passa da uno "stato" ad un altro "stato" attraverso la scelta di una particolare "istruzione di collegamento" che permette di rendere visibile e presente sul visore un determinato documento. Per "documento" intendo qui, in prima istanza, una delle tre unità di base dell'arredo di qualsiasi sistema operativo: documenti, programmi, cartelle. Quindi è implicito che adotto una definizione allargata di ipertesto, che comprende il concetto di "ipermedia", e, se si vuole, la espande ulteriormente. È ovvio infatti che "documento" può essere immagine, suono, animazione, testo, ecc. Un ulteriore passo, giustificato a mio parere se si esce decisamente da una nozione ristretta di "testualità" e di "scrittura", è includere tra gli elementi che si possono "ipertestualizzare" (cioè tra gli elementi collegabili operativamente in un ipertesto) anche le altre due unità: i programmi e le cartelle, ossia i processi e gli spazi. Ciò vorrebbe dire, e non è detto che non sia operazione in fondo giustificata, vedere l'intero mondo digitale sotto l'aspetto dell'ipertestualità. In altre parole far ricascare quel costrutto teorico, nato indubbiamente a ridosso di una testualità tradizionale, e perfino letteraria, sull'intera gamma delle operazioni possibili nel mondo digitale, e dare luogo, così, a una nozione assai complessa di "testualità".

Esistono moltissime definizioni dell'ipertesto, non tutte ugualmente buone, ma che, nei loro caratteri indiscutibili, si possono far convergere nella definizione generale che ho dato sopra. Molte delle definizioni di ipertesto che io conosco, in realtà, trascurano qualche lato dell'oggetto, o dal punto di vista teorico, o dal punto di vista morfologico o fisiologico, oppure si soffermano su una sola caratteristica, scelta come la più determinante, e la amplificano a dismisura. Tuttavia è proprio dell'ipertestualità prestarsi a molte definizioni e a molti punti di vista: ciò in un certo senso dimostra che ci troviamo di fronte a qualcosa di molto vasto e complesso, ossia, come io credo, a una nuova forma di discorsività. Qui fornirò altri tre esempi di definizione, tra i molti esistenti, per una breve discussione. La prima definizione è incentrata sulla lettura, la seconda sulla scrittura, la terza sull'oggetto, ma solo in termini teorici.

Cominciamo con la prima. George Landow, nel suo tempestivo libro sull'ipertesto [12], ricorre a Roland Barthes per connotare il suo concetto di ipertestualità. L'ipertesto, dice Landow, "è un testo composto da blocchi di testo – che Barthes chiama lessìe – e da collegamenti elettronici fra questi blocchi". Influenzato da sistemi ipertestuali come Storyspace e Intermedia, che permettono di creare collegamenti tra i documenti durante la lettura, Landow tende a sfumare, se non abolire, la distinzione tra scrittura e lettura. Anzi indica in S/Z di Barthes, che è a ben vedere la messa a punto di una strategia di lettura, un archetipo della definizione di ipertesto: "In S/Z, Roland Barthes descrive una testualità ideale che corrisponde precisamente a quello che in seguito è stato chiamato ipertesto" [13].

Nella seconda edizione del libro [14], Landow riprende invariate le formulazioni della prima edizione, ma definisce l'ipertestualità entro una più vasta casistica di "testualità elettronica":

"Col termine "ipertesto" intendo solo una delle cinque possibili forme di testualità elettronica. Ognuna delle altre quattro può esistere in ambienti ipertestuali, ma non per questo è ipertestuale. Sono:

1. Rappresentazione grafica del testo. L'uso di grafica computerizzata fornisce una rappresentazione del testo su cui è impossibile fare ricerche, analisi grammaticali o altri tipi di manipolazione linguistica. Le immagini del testo che ne risultano possono essere animate, modificate nelle dimensioni, accompagnate da suoni e via dicendo. [...]

2. Semplice testo digitale alfanumerico. Questa forma di testo elettronico, appare nella posta elettronica, nelle liste di discussione e nei programmi di video-scrittura.

3. Testo non lineare. Questa forma di testo, al contrario dell'ipertesto, non permette di effettuare una lettura multisequenziale. Secondo Espen Aarseth (il cui Nonlinearity and Literary Theory [15] fornisce degli apporti essenziali a questo riguardo), le varie forme di testualità non lineare includono: (a) video giochi, (b) ambienti di collaborazione basati sul testo, come i Mud (multi-user domains, "domini multiutente") e i Mud che utilizzano Moo (multi-user object-oriented environments, "ambienti multiutente a oggetti"), (e) testi cibernetici, o testi generati da programmi. [...]

4. Simulazione. I testi in ambiente simulato possono includere materiali che vanno da esempi di testi alfanumerici prodotti al computer (e quindi con molti elementi in comune con la forma non lineare) a esempi di realtà virtuale (o artificiale) all'immersione totale. [...]".

Il difetto maggiore di questa distinzione (difetto che compariva anche nella definizione generale) è l'uso acritico della categoria tradizionale di "testo" per ordinare i fenomeni di scrittura elettronica. A parte la difficoltà, o l'inutilità, di tracciare distinzioni all'interno di un ipertesto tra ciò che è ipertestuale e ciò che non lo è (ammesso che l'ipertesto possa ospitare, secondo la definizione di Landow, anche altri tipi di "testualità elettronica" non ipertestuale senza renderla per ciò stesso ipertestuale) [16], questa definizione è in contraddizione con l'affermazione dello stesso Landow di poche righe dopo: "Io non opererò distinzioni tra ipertesto e ipermedia, dato che gli ipertesti, unendo brani di discorso verbale a immagini, mappe, diagrammi e suoni con la stessa facilità con cui li integrano ad altri brani di discorsi verbali, estendono il concetto di testo oltre la pura verbalità" [17]. Se un'immagine o una mappa collegati elettronicamente possono essere considerati ipertestuali, non si comprende allora perché, allargando debitamente il concetto di "testo", non possa essere compiuta la stessa operazione concettuale, poniamo, nei confronti della "rappresentazione grafica" di un testo o di un "testo alfanumerico". Alla fine sfugge l'utilità della classificazione di Landow: l'unica distinzione che mi sembra realmente pertinente, per motivi teorici, è la distinzione tra scrittura non lineare e ipertesto, perché spesso si è indicata la non-linearità come elemento fondante dell'ipertesto [18] e Landow ha corretto giustamente in "multi-linearità" e "multi-sequenzialità". Tuttavia ricorrere a queste classificazioni porta a trascurare il carattere inclusivo dell'ipertesto, che tende a diventare una forma di discorso del tutto particolare, in grado di organizzare, per i propri fini strategici e formali, materiali molto eterogenei. Qualcosa di simile, nel campo letterario, ha compiuto il romanzo con altri generi letterari. L'ipertesto impone una modalità di pensare il discorso, di organizzare i materiali che lo costituiscono e le operazioni/rappresentazioni che ne permettono il funzionamento. È un modello di scrittura e un "genere del discorso" che permette un potenziamento enorme delle due attività – ben distinte – della scrittura e della lettura. La prima si approfondisce e si stratifica, esercitandosi su molti piani di codifica nascosta; la seconda si complica e arricchisce assumendo anche caratteri tipici della scrittura ipertestuale, ma soprattutto subisce l'influsso di un modello semiotico e gnoseologico. Questo risulta anche osservando il funzionamento della forma ipertestuale ora prevalente, ossia il web, che è tutt'altra cosa da quel "libero costruirsi i percorsi" che ancora oggi qualcuno ripete in base a una nozione di ipertesto piuttosto confusa.

In un altro libro a sua volta abbastanza precoce, Alearda Pandolfi e Walter Vannini sembrano tener presente con la dovuta attenzione il lato autoriale dell'ipertestualità, della quale forniscono una definizione "operativa": "L'ipertesto è un metodo di scrittura che utilizza il calcolatore per cucire fra loro le componenti di un'opera in una rete; la lettura dell'opera (comunemente detta "navigazione") avviene seguendo un percorso nella rete; il percorso è una scelta del lettore fra le alternative offerte dall'autore e viene determinato dal calcolatore sulla base dell'una, delle altre e di ulteriori condizioni specificate dall'autore" [19]. Qui vediamo che con molta chiarezza sono distinte le operazioni della lettura e della scrittura. Un altro merito della definizione è proprio quello di tener conto dell'aspetto processuale dell'ipertesto, che viene soppresso dalle definizioni tipo "ipertesto = nodi + collegamenti" [20].

L'ultima definizione è recente, e si sforza di essere eclettica e vasta, e di abbracciare l'intero fenomeno della "strutturazione del testo elettronico". Individua pertanto una serie di "caratteristiche fondamentali", cui farebbe riferimento l'ipertestualità: "l'organizzazione modulare e reticolare del contenuto; la presenza di diverse tipologie di legami che connettono i moduli testuali; l'assenza di una direzione di lettura unica e obbligata; l'interattività del rapporto di fruizione, esplicitata nelle due modalità di navigazione e di "dialogizzazione" dell'ipertesto stesso. § In questo senso, l'ipertesto può essere letto come macrotesto composto di microtesti, tra loro connessi in una mappa-labirinto esplorabile dall'utente, in cui non sono presenti solo le origini dei rimandi ipertestuali, ma anche le loro destinazioni" [21]. A parte il linguaggio involuto di certi passaggi, qui siamo proprio nella teoria. La maggiore specificazione porta a incongruenze ed errori: non si vede perché l'organizzazione del contenuto debba essere per forza "modulare" e "reticolare", perché ci debbano essere necessariamente "tipologie di legami" diverse, e perché non possano esserci direzioni obbligate. Posso fare una grande struttura ad albero, con un tipo solo di legame, e fare ciò nondimeno un ottimo ipertesto. Inoltre si sa che i legami ipertestuali sono necessariamente direzionati, anche se reversibili (per "memoria storica" o per la presenza di un legame con direzione inversa): si va da un punto a un altro punto, e quel legame funzionerà sempre nello stesso modo. Non è difficile capire, quindi, che possono esserci ipertesti anche fortemente direzionati, senza alcuna rinuncia alla loro natura ipertestuale. Quindi sembra che in tale definizione riemergano annosi luoghi comuni senza alcun riscontro con gli ipertesti reali, con la scrittura degli ipertesti reali, prima ancora che con la lettura.

4. Ho l'impressione che nonostante la mole cospicua delle pubblicazioni sull'argomento, di ipertesto in quanto tale, in realtà, si sia parlato molto poco. Ossia si è trascurato di riflettere soprattutto sull'ipertesto come forma di discorso, a partire in primo luogo da come è fatto. Quando si è sfiorato il problema, si è considerato per lo più l'ipertesto in termini applicativi, in funzione di altri ordini di discorso già esistenti; oppure, si sono fatte ricadere su di esso griglie teoriche preesistenti; o infine si è privilegiato un piano sociologico-comunicativo. Ora io credo invece che si debba prendere in considerazione l'ipertesto di per se stesso, come forma discorsiva dotata di caratteri propri, come "forma simbolica" materiale. In altre parole come "grande genere" che, proprio per questi suoi caratteri oggettuali e operativi, può influenzare profondamente il nostro modo di produrre, esprimere, conservare, diffondere e pensare i saperi. Insomma si è trascurato di osservare certi dispositivi concreti dell'ipertesto in rapporto a un retaggio di modelli culturali e semiotici, e spesso anche solo di riflettere sulle sue forme, strutture, processi, dispositivi, metafore.

Non senza un intento euristico-provocatorio, ipotizzo che l'ipertesto possa costituire, di fianco ai grandi generi lirico, narrativo e drammatico, un quarto genere, l'architettonico. Tutti i generi in realtà sono un sistema di organizzazione e di percezione dello spazio e del tempo e di correlazione di enunciazioni. Sono a tutti gli effetti delle "visioni del mondo". L'ipertestualità possiede la complessità e la vastità, e al tempo stesso la peculiarità, per essere almeno discussa su questo piano. Questa convinzione deriva da considerazioni interne sulle strutture, sui registri, sui processi messi in atto, sulle tipologie dei collegamenti e su elementi di interfaccia che ho chiamato "pragmemi" [22], e infine su certi modelli culturali e semiotici introiettati, per così dire, dall'ipertesto: tutti fattori, ai quali si potrà qui solo accennare, che dànno all'ipertesto una fisionomia piuttosto unitaria e articolata, e, soprattutto, esclusiva rispetto ad altri tipi di discorso.

Forse, tuttavia, non si è riflettuto abbastanza proprio sullo statuto del testo – inteso qui nella sua accezione ampia di configurazione di elementi simbolici – nella incipiente era digitale. Esso è fluido, si dice. Forse è meglio ripetere, piuttosto, che è stratificato. In effetti ciò che tende a fissarsi, con gli standard di codifica inaugurati da SGML [23], è la sua struttura cognitiva, mentre mobile rimane, entro certi limiti, il modo di rappresentarlo. Gli ultimi sviluppi in fatto di codifica e marcatura, come la famiglia di linguaggi XML [24], non fanno che accentuare e specializzare questa separazione tra diverse funzionalità del testo, tra sua fruibilità esterna e sua interna organizzazione logica e semantica. Il testo allora diventa un organismo generativo, che armonizza funzioni di validazione, di banca dati, di visualizzazione. La funzione ipertestuale, a ben vedere, svolge un ruolo primario, fornendo i parametri cognitivi che presiedono all'organizzazione e alla dinamica di tale complesso di elementi simbolici, ma anche procurando gli strumenti concreti di raccordo, attraverso le interfacce e i pragmemi. L'elemento innovativo di questo coordinamento di contesti, è che esso da una parte è in grado di includere nel discorso oggetti, simulandone la conformazione analogica, dall'altra esige un coinvolgimento cinetico e multisensoriale. La scrittura si riempie di congegni e di sotto-scritture. L'atto comunicativo stesso tende a divenire architettonico, ad assumere forme composite, con rimandi interni che comportano negli interlocutori effettivi spostamenti, azioni laterali e slittamenti spaziali e temporali. Il discorso deve appoggiarsi non più solo a riferimenti di tipo sintattico, semantico o pragmatico, ma deve trovare anche strumenti interni per gestire la sua nuova architettonicità. Questi sono i "pragmemi", unità elementari della "operatività discorsiva": una sintesi iconica, se si vuole, di elementi sintattici, semantici e pragmatici, che produce però elementi nuovi, non riconducibili a nessuna delle tre branche singolarmente. Ne ho individuati per il momento sette: a) avvio, b) collegamento, c) determinazione spaziale, d) scelta di opzioni, e) interrogazione, f) bricolage, g) uscita. Queste unità elementari della operatività dell'ipertesto, ciascuna delle quali articolabile in alcune sotto-unità subordinate, costituiscono l'arredo usuale delle interfacce sotto forma di bottoni, icone, o segnali anche molto differenziati, ma riconducibili a queste funzioni/rappresentazioni fondamentali.

5. Ogni ipertesto sufficientemente complesso presenta sempre anche alcune ricorrenti tipologie strutturali, formali e processuali, con accentuazioni diverse e variamente intrecciate secondo le zone funzionali dell'ipertesto stesso. Le strutture sono quelle che governano la spazialità logica dell'ipertesto, e le più frequenti sono ad albero, circolari, reticolari, inclusive [25], lineari e a stella (strutture, queste ultime due, che possono considerarsi due sottospecie di quella ad albero, ma svolgono una particolare importanza nella connotazione stilistica complessiva di un ipertesto).

I registri riguardano invece le tre tipologie di base della presentazione di un documento, testuale, grafica e multimodale. I percorsi infine sono le operazioni di collegamento e di ricerca che vengono messe in atto, o le strutture euristiche (indicali) che un ipertesto può avviare o proporre. I principali percorsi sono di tipo analitico, sistematico, strutturato e casuale. Queste tre classi sono in realtà tre livelli di accessibilità all'ipertesto, che spesso si combinano a coppie definendo tipologie precise di documenti.

 

STRUTTURA

REGISTRO

PERCORSO

ad albero

   

circolare

Grafico

Analitico

reticolare

Testuale

Sistematico

lineare

Multimodale

Strutturato

inclusiva

 

Casuale

 

Questo insieme di categorie può essere usato per lo studio e la descrizione delle interfacce ipertestuali. È qui solo uno scheletro di definizioni, ma permette ugualmente di toccare aspetti della morfologia e della fisiologia dell'ipertesto che ne costituiscono alcuni caratteri peculiari. Nell'ipertestualità si esprime nel modo più pieno quella sintesi tra potenzialità di calcolo, di comunicazione e di memoria che le nuove tecnologie, con lo sviluppo della rete e in particolare con la creazione del protocollo HTTP, hanno realizzato negli ultimi anni. A tale sinergia concorrono, a grandi linee, due tradizioni di pensiero: potremmo chiamare la prima "computazionale", la seconda "enciclopedica", ma in un'accezione molto più ampia di quella assegnata al termine nei paragrafi precedenti. Nella prima tradizione, meccanicista, che è all'origine dell'invenzione del computer (da Cartesio a Pascal, da Leibniz a Babbage), la preoccupazione è prevalentemente analitica, e porta direttamente all'idea di testo "calcolabile", discreto, destrutturato e desamantizzato. La seconda tradizione, più antica, è in realtà molto più composita. Al suo interno prevale una preoccupazione totalizzante e a volte agglomerativa. Se ne possono isolare tre modelli, che chiameremo lemmatico, onomasiologico e semasiologico. Il più recente, il lemmatico (di matrice illuminista), ha come centro focale la lingua, le parole, ordinabili alfabeticamente, separabili ed elencabili. Il secondo (onomasiologico), nato insieme alla scienza moderna, ha una visuale disciplinare, rivolta all'oggetto. Il suo centro focale sono le cose. Il terzo, pre-moderno (semasiologico), ha spesso una visione cosmologica o teologica e ha come centro focale le idee, i concetti gerarchicamente ordinati. Se si usano questi punti di riferimento nell'analisi delle tipologie ipertestuali si riconoscono alcuni legami e somiglianze con certi tipi di strutture e di percorsi; e, soprattutto, si scorge come ognuno di questi modelli abbia una parte nel funzionamento del discorso ipertestuale. Mentre i modelli computazionale e lemmatico sembrano presiedere ai percorsi di tipo "analitico" (ricerca), il modello onomasiologico sembra presiedere ai percorsi di tipo "sistematico" (menu), ed entrambi i modelli, onomasiologico e semasiologico, presiedono ai percorsi di tipo "strutturato" (architetture) [26]. Ora non è il luogo per addentrarsi in un'ipotesi così complessa. Volevo solo mostrare, ancora una volta: 1) il coinvolgimento diretto della discorsività ipertestuale nel confronto e nella costituzione di modelli gnoseologici; 2) la pervasività e la forza macrodiscorsiva e metadiscorsiva dell'ipertestualità. Ne nasce addirittura, a mio parere, una nuova dimensione della cultura umana, una "pragmasfera" dove la coesistenza rispettosa, la correlazione architettonica delle diversità di senso, potrebbe divenire possibile e praticabile.


Federico Pellizzi, Dipartimento di Italianistica - Università di Bologna
Editor di Bollettino 900, e-mail: pellizzi@alma.unibo.it


Note

[1] Su alcuni di questi aspetti si possono utilmente vedere Richard Lanham, Digital Rhetoric: Theory, Practice, and Property, in Myron C. Tuman (a cura di), Literacy Online. The Promise (and Peril) of Reading and Writing with Computers, Pittsburg, University of Pittsburg Press, 1992, pp. 221-243; Armando Petrucci, La scrittura del testo, in Letteratura italiana, vol. IV, L'interpretazione, Torino, Einaudi, 1985, pp. 285-310.

[2] Alain Touraine, Critica della modernità [1992], Milano, Il Saggiatore, 1993.

[3] Nel ricco panorama di autori mi limito qui a citare due notevolissimi contributi di uno studioso italiano, Giorgio Raimondo Cardona, Antropologia della scrittura, Torino, Loescher, 1981 e I linguaggi del sapere, a cura di Corrado Bologna, prefazione di Alberto Asor Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1990.

[4] Naturalmente non si intende affermare che il cinema o il teatro o la stessa televisione non possano creare a loro volta "contesti simbolici", e non possano essere considerati per alcuni aspetti (e nella loro specificità) forme di scrittura; tuttavia ciò non è il loro primario obiettivo estetico e comunicativo, anche perché tali forme, caratterizzate dal "flusso", condividono solo in parte uno degli aspetti fondamentali della scrittura, cioè l'indipendenza della temporalità della fruizione dalla temporalità costitutiva dell'opera.

[5] Vedi ad esempio Tomás Maldonado, Possiamo vivere in un sogno ma alla fine dobbiamo svegliarci, in "Telèma", 199, n. 16, pp. 7-10. <http://www.fub.it/telema/TELEMA16/Maldon16.html>.

[6] David J. Bolter, Lo spazio dello scrivere. Computer, ipertesti e storia della scrittura [1991], Milano, Vita e Pensiero, 1993, p. 263.

[7] Si veda a questo proposito Paolo Rossi, Il passato, la memoria, l'oblio. Sei saggi di storia delle idee, Bologna, Il Mulino, 1991, in particolare pp. 155-199.

[8] David Perkins, Is Literary History Possible?, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1992.

[9] Carlo F. Russo, Sigle stile sesso da Gutenberg al talamo dell'alfabeto, in Giulio Ferroni (a cura di), Il dialogo. Scambi e passaggi della parola, Palermo, Sellerio, 1985, pp. 25-32.

[10] Rimangono basilari per lo studio di questa "profondità dei discorsi" Michel Foucault, L'archeologia del sapere [1969], Milano, Rizzoli, 1980; e Northrop Frye, Anatomia della critica. Quattro saggi [1957], Torino, Einaudi, 1969.

[11] Il sapere come rete di modelli. La conoscenza oggi, Atti del convegno internazionale di Modena, 20-23 gennaio 1981, Modena, Panini, 1981.

[12] George P. Landow, Hypertext: The Convergence of Contemporary Critical Theory and Technology, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1992; trad. It. Ipertesto. Il futuro della scrittura, Bologna, Baskerville, 1993, p. 6.

[13] Ibidem, p. 5.

[14] George P. Landow, L'ipertesto. Tecnologie digitali e critica letteraria [1997²], Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 23-24, nota 8.

[15] Espen Aarseth, Nonlinearity and Literary Theory, in Hyper/Text/Theory, a cura di George P. Landow, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1994, pp. 51-86.

[16] Per esempio, il testo "alfanumerico" che il lettore inserisce in un modulo all'interno di un ipertesto, e che magari va a far parte di una banca dati che poi genera a richiesta documenti ipertestuali, fa parte dell'ipertesto oppure no? Le distinzioni risultano assai capziose.

[17] Ibidem, p. 24. E prosegue dichiarando che userà "i termini "ipermedia" e "ipertesto" in maniera intercambiabile".

[18] A cominciare dall'inventore della parola, Theodor Holm Nelson, Literary Machine 90.1 [1981], Padova, Muzzio, 1992.

[19] Alearda Pandolfi e Walter Vannini, Che cos'è un ipertesto. Guida all'uso di (e alla sopravvivenza a) una tecnologia che cambierà la nostra vita, anche se noi stavamo benino anche prima, Roma, Castelvecchi, 1994, p. 13.

[20] Altro ottimo e precoce libro sulla scrittura e sull'ipertesto, spesso trascurato, è Domenico Scavetta, Le metamorfosi della scrittura. Dal testo all'ipertesto, Scandicci (Fi), La Nuova Italia, 1992.

[21] Gianfranco Bettetini, Barbara Gasparini, Nicoletta Vittadini, Gli spazi dell'ipertesto, Milano, Bompiani, 1999, pp. XIII-XIV.

[22] Ho presentato il primo abbozzo di una teoria dei pragmemi in un convegno tenutosi a Parigi, Hypertextualité et intertextualité. Pour une critique du link, "Littérature et réseaux informatiques", Paris, 21 novembre 1997, <http://www.unibo.it/boll900/convegni/hypcrit.html>, poi approfondita in The Hypertext as a Critical Discourse: From the Representation to the "Pragmeme", "Literature, Philology and Computers", Edinburgh, 7-9 settembre 1998 <http://www.ed.ac.uk/~esit04/pellizzi.htm>. Per pragmemi intendo le unità elementari della "operatività discorsiva" che costituiscono l'arredo usuale delle interfacce. Si manifestano in forma di bottoni, icone o segnali anche molto differenziati, ma riconducibili a poche unità elementari. Si tratta di elementi necessari, imprescindibili nell'organizzazione ipertestuale, che contemporaneamente rappresentano qualcosa e dànno luogo a una determinata operazione. Per la loro specificazione si veda avanti nel testo.

[23] Standard Generalized Markup Language. Linguaggio estremamente flessibile e complesso in grado di descrivere qualsiasi tipo di documento. È stato pubblicato come standard ISO (International Organization for Standardization) nel 1986. Su SGML si veda, tra i materiali disponibili in italiano, Joan M. Smith, Sgml e altri standard. Linguaggi di descrizione ed elaborazione dei documenti, Bologna, Clueb, 1997. In generale sui problemi della codifica si veda Tito Orlandi, Alla base dell'analisi dei testi: il problema della codifica, in Mario Ricciardi (a cura di), Scrivere comunicare apprendere con le nuove tecnologie, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 69-86.

[24] eXtensible Markup Language. Si veda il sito della XML Italia, 1999, <http://www.xml.it>.

[25] Un particolare commento merita la struttura inclusiva, che differisce da quella ad albero perché la sua "realizzazione" può avvenire solo mediante una compresenza sul piano della visualizzazione esterna della finestra contenente e della finestra contenuta. Ciò comporta, rispetto alla successione sostitutiva tipica della struttura ad albero, notevoli differenze sul piano estetico e funzionale.

[26] Il percorso analitico informa ad esempio tutte le ricerche per occorrenze, il percorso sistematico era quello tipico del gopher (per argomenti o titoli), e il percorso strutturato, che implica il ricorso a un'enciclopedia del sapere e una semantica, informa l'organizzazione tematica e guidata.



«Bibliotime», anno III, numero 1 (marzo 2000)


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