«Bibliotime», anno IX, numero 3 (novembre 2006)

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Giovanni Galli

Noterella viareggina sui beni librari



Città celebre per i suoi bagni di mare, una variante di cacciucco ed un premio letterario omonimo - da ragazzo ci andavo in bicicletta a spiare Ungaretti e Repaci di tra le cannucce che circondavano il giardino dell'albergo (e vai!... questo fa di me un testimone della Versilia letteraria storica, come quelli che andavano a salutare Montale al Caffè Principe del Forte e poi adesso lo scrivono anche trenta o quaranta volte sul Corriere e sulla Repubblica. Io per ora mi contento di Bibliotime, ma qualche speranza di carriera giornalistica la conservo) - e più recentemente come patria e rifugio di Marcello Lippi, Viareggio è nota anche nella congrega dei bibliotecari per le tesi che nel 1987 l'AIB vi proclamò al Congresso. Una delle quali (la n° 2) recitava: "Identificare le biblioteche come beni culturali snatura la loro vera funzione di servizi informativi"

Bel discorso e chiaro, che oggi ci torna utile riflettendo sulla recente - parliamo di gennaio - revisione del Codice dei Beni Culturali, per la cui predisposizione, parte dei beni librari, l'Ufficio Legislativo del Ministero ha cortesemente coinvolto i rappresentanti delle Regioni, delle Province e dei Comuni, riuniti nel Comitato Nazionale delle Linee di Politica Bibliotecaria per le Autonomie.

Nella vecchia stesura l'art. 10, comma 2 lettera c) recitava: "[sono inoltre beni culturali:] "le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente o istituto pubblico".

Qualcuno si è chiesto: ma se tutti i libri - e documenti assimilati - delle biblioteche citate sono da considerarsi oggetto di tutela, come farà la biblioteca, diciamo, di Riolunato a scartare il romanzetto che per essere stato troppo prestato sta ora perdendo tutte le pagine, ed anzi forse gliene manca già più d'una?

Diversi tentativi di introdurre qualche distinguo, tipo: le biblioteche sono tutte uguali per dignità ma non per funzione, sicché non tutti i fondi di tutti i tipi di biblioteca nascono per la conservazione perenne, ma ve n'è che fin dall'origine sappiamo saranno scartati, che la vigilanza su questi processi selettivi spetta alle Regioni (qualcuna l'ha anche previsto nella sua legge bibliotecaria) che forse potrebbero esercitarla utilmente validando carte delle collezioni piuttosto che nullaostando liste analitiche di libri etc. etc. Tutti questi discorsi si sono scontrati con la ferma seppur cortesissima posizione ministeriale: il mandato è di non abbassare il livello della tutela.

Ora, a ben vedere: come dargli torto? Poiché siamo dentro il sistema concettuale dei beni culturali che, per definizione, devono essere tutelati, che senso ha fare delle eccezioni a valle? Il problema deve essere affrontato all'origine: ossia la politica delle collezioni (e quindi anche il tema dello scarto e quello simmetrico della conservazione) deve essere definita prima che si ponga quella dello status di bene culturale per certi fondi librari. In altri termini: quando un fondo librario (al limite anche un solo libro) al termine di un processo controllato (e sottoposto per esempio alla vigilanza regionale) entra nella sezione di conservazione di una biblioteca, allora entra nel regime dei beni culturali. Come caso limite possiamo prevedere quello della conservazione integrale e perenne, proprio delle biblioteche nazionali e/o di tutte quelle strutture cui una progettazione seria del sistema nazionale assegnasse quella funzione di archivio nazionale, regionale etc. della letteratura prodotta. Giustamente si diceva a Viareggio: le biblioteche non appartengono naturalmente ed originariamente al regno dei beni culturali. Ma alcuni loro fondi vi possono entrare pour cause. Generalizzando: le biblioteche hanno bisogno di una disciplina specifica che non appartiene all'ambito dei beni culturali ma piuttosto a quello dell'informazione congiunta alla documentazione (ed anche della formazione) che si definisce appunto e tipicamente come bibliotecario.

La cortesia ministeriale, di cui si è detto e ringraziato, non è stata disgiunta da un qualche minimo possibilismo: una qualche deroga si poteva ben introdurre. Dopo un lungo confabulare, si è arrivati quasi per sfinimento alla seguente lezione:

  1. al comma 2, lettera c), dopo le parole: "ente e istituto pubblico" sono
    aggiunte, in fine, le seguenti: ", ad eccezione delle raccolte delle
    biblioteche indicate all'articolo 47, comma 2, del decreto del Presidente
    della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, e di quelle ad esse assimilabili"


Come a dire che alcuni tipi di biblioteche (quelle "popolari, del contadino, nelle zone di riforma, ai centri bibliotecari di educazione permanente" - recita il 616 - e "quelle ad essi assimilabili" - dice oggi il Codice - vale a dire: quali? vorremmo si potesse dire "tutte le pubbliche di base") si sottraggono alla qualifica di bene culturale. Col che si è ottenuto solo di porre un problema: distinguere fra biblioteche, perché quanto al merito della distinzione c'è da inorridire!

Ora occorrerebbe ribaltare l'impostazione e, come si è detto sopra, partire dalla definizione di biblioteca - e quindi distinguere tipologie e missioni differenti - per arrivare, alla fine e solo alla fine, ad introdurre la nozione di bene culturale e di sua tutela là dove abbia senso e convenienza. E già sappiamo che a questo scopo la titolarità (statale, regionale, provinciale, comunale o altro) è del tutto irrilevante. La dichiarata disponibilità ministeriale a discuterne più a fondo, arrivando eventualmente ad accordi in sede di Conferenza Unificata, dovrebbe essere colta come occasione per questo rovesciamento di prospettiva.

Viareggio ci aspetta.

Luglio (e non per caso) 2006

Giovanni Galli, Istituzione Biblioteche - Comune di Parma, e-mail: g.galli@comune.parma.it





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