«Bibliotime», anno VI, numero 1 (marzo 2003)

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Rossana Morriello

Trasmissione d'élite o accesso alle conoscenze?



Trasmissione d'élite o accesso alle conoscenze? Percorsi e contesti della documentazione e comunicazione scientifica. A cura di Adriana Valente; testi di Sveva Avveduto et al. Milano, Franco Angeli, 2002.

Scienza, tecnologia e cultura sono storicamente legate da un rapporto dialettico in continua evoluzione, il linea con le trasformazioni della società. La documentazione scientifica supporta e allo stesso tempo testimonia il lavoro scientifico che ne è alla base. Al suo interno lo stesso lavoro scientifico è un processo dinamico, non lineare, fatto di false partenze, errori, intoppi, momenti di stasi e serendipità che spesso si celano in misura diversa dietro lo sviluppo di una ricerca, e che rientrano in quella parte di conoscenza tacita di cui spesso non vi è traccia nelle pubblicazioni scientifiche. La tecnologia recente, tuttavia, creando nuove modalità di fruizione, di trasmissione dell'informazione e nuovi meccanismi di peer-reviewing per le pubblicazioni scientifiche consente, tramite gli archivi elettronici, di accedere a materiale ancora non formalizzato e di portare a conoscenza la parte non esplicitata di quel processo di elaborazione del prodotto scientifico di cui sopra.

Il rapporto tra scienza e tecnologia diviene quindi focale nei moderni meccanismi di diffusione della conoscenza. Tuttavia si tratta di un binomio i cui spazi di interazione si presentano storicamente complessi ed articolati, oggetti della riflessione degli studiosi, a partire da Platone che nel Fedro, per voce di Socrate si interrogava sugli effetti della scrittura, per arrivare alle recenti teorie di Latour il quale, sostituendo al binomio scienza e tecnica il concetto unitario di tecnoscienza, ritiene con Callon che i due ambiti siano uniti nella metafora della Rete.

Solo dopo gli anni '60 inizia una consapevole riflessione sull'interazione dell'informazione e della documentazione con la società e sulla loro penetrazione in termini di conoscenza e di partecipazione del pubblico. Ancora più recente è il concetto di public understanding of science, che acquisisce progressiva importanza man mano che ci si sposta dall'idea di "trasmissione" delle conoscenze a quella di "accesso" alle conoscenze, e che il dibattito fuoriesce dal ristretto ambito della comunità scientifica per rivolgersi a un pubblico più ampio che, in misura crescente, ne diventa partecipe.

Questi gli interessanti spunti alla base del volume curato da Adriana Valente, ricercatrice del CNR, che con la collaborazione di esperti attivamente impegnati nel campo della comunicazione e documentazione scientifica, intende indagare le molteplici relazioni che intercorrono tra il processo di comunicazione scientifica e la sua ricezione e fruizione da parte della società e il ruolo centrale che in questo processo riveste la documentazione.

Articolato in dieci capitoli suddivisi in tre sezioni, il libro affronta questo percorso sotto vari aspetti. Nella prima parte viene offerta un'ampia prospettiva storica che sottolinea l'intrecciarsi dei processi comunicativi con le vicende storiche, politiche ed economiche della società. La seconda parte è dedicata agli indici di citazione e alla crescente fortuna dell'impact factor come strumento di valutazione. La terza parte è rivolta all'analisi dei meccanismi di penetrazione e diffusione dell'informazione scientifica nella società, in particolare in seguito all'impatto delle information and communication technologies (ICT).

Nel saggio iniziale, Adriana Valente segue sinteticamente la dicotonomia possesso/acccesso nella sua evoluzione storica, dalla nascita della stampa all'avvento del Web. La problematica, affine per molti versi alla stessa trasformazione che interessa oggi le biblioteche, è però qui affrontata dal punto di vista dell'analisi dei meccanismi comunicativi più che di quelli di circolazione e fruizione dell'informazione, e si dovrà quindi parlare di trasmissione lineare dell'informazione in contrapposizione a ciò che viene definito cultura dell'accesso. Valente rileva come "nell'ultimo secolo la teoria e la pratica dell'organizzazione e disseminazione delle informazioni ha seguito due approcci differenti, collegati rispettivamente ai concetti di diffusione e di accesso". Nel primo caso l'accento è posto sulla trasmissione lineare delle conoscenze, indirizzata ad un particolare profilo di utente, ed implica l'idea di un sapere specializzato. Il secondo concetto si basa sulla necessità di rendere partecipi dell'intero processo di produzione scientifica (dalla creazione al controllo e verifica) i membri della comunità scientifica o soggetti ad essa esterni; un approccio di questo genere presuppone l'interdisciplinarietà. E' dunque entro queste due prospettive che, perlomeno a partire dalla fine dell'Ottocento, si sono mossi i teorici dell'informazione e della documentazione. Il saggio analizza quindi i principali contributi alla riflessione, ad iniziare dalle significative elaborazioni di Paul Otlet fino alle recenti posizioni dell'Ocse e dell'Information Society Forum.

Il secondo capitolo evidenzia come la documentazione e la comunicazione scientifica non siano mai state neutrali rispetto ai conflitti sociali in atto. L'organizzazione dell'informazione è stata - e rimane ancora - funzionale di volta in volta a periodi e contesti di pace o a scenari di guerra. Strumenti come abstract, repertori, schemi di classificazione, metodi di indicizzazione, sistemi di riproduzione documentaria hanno sempre avuto un ruolo chiave in situazioni di tipo conflittuale o bellico, e spesso è proprio in questi periodi di "emergenza", in cui la conoscenza e la circolazione dell'informazione scientifica diventano strategiche, che nuovi strumenti e nuove modalità di organizzazione dell'informazione vengono sviluppate. Basti l'esempio della nascita di Internet, o le basi dalle quali si è sviluppato il servizio di informazione online Dialog, progettato dalla Lookheed Missiles per la propria biblioteca e poi implementato e ceduto alla Nasa.

L'analisi storica intrapresa dall'autrice del saggio evidenzia come tali dinamiche sociali nascondano il rischio di concentrazione del processo di organizzazione e diffusione dell'informazione scientifica nelle mani di poche istituzioni che, in questo modo, sono in grado di controllarlo ed eventualmente di impedirne l'accesso allargato e la condivisione da parte del pubblico. Ciò è stato oggetto di preoccupazione e di riflessione perlomeno a partire dagli anni '70, sollevate in particolare dal "Rapport sur l'Informatisation de la Société" elaborato da Nora e Minc nel 1978.

Nemmeno le reti e l'ICT, a ben vedere, sembrano in grado di creare nuovi modelli comunicativi e di ribaltare situazioni di egemonia scientifica. A testimonianza di ciò viene portato l'esempio della decisione presa nel 1993 della National Archive and Record Administration statunitense, in seguito ad alcune vicende di natura politica, di porre regole ben precise sul trattamento dei messaggi di posta elettronica come documenti pubblici e sulla loro conservazione da parte di alcune istituzioni preposte.

Questo episodio introduce alcune problematiche di carattere archivistico, che vengono approfondite da Maria Guercio nell'ultimo saggio della prima parte. L'autrice ripercorre gli sviluppi della disciplina archivistica degli ultimi decenni, anch'essi tesi ad agevolare l'accesso del pubblico ai documenti. Di pari passo con il progressivo affermarsi dell'idea di archivio come fonte storica di rilevanza culturale oltre che amministrativa, si è rafforzato il concetto di vincolo archivistico, e con esso il legame stretto dei documenti con il contesto e con l'ente nel quale sono stati prodotti. L'introduzione delle tecnologie informatiche ha comportato l'esigenza di nuovi standard descrittivi internazionali, ormai pensati in relazione al digitale, come l'EAD (Encoded Archival Description), basato su un linguaggio di marcatura comune (Sgml-Xml), oltre a un intenso lavoro sul controllo di autorità delle intestazioni archivistiche, al fine di ampliare le opportunità di accesso anche trasversale ai documenti d'archivio, e di migliorare le possibilità di ricerca offerte all'utente.

La seconda parte del volume è dedicata in gran parte agli indici di citazione e all'impact factor. I saggi di Adriana Valente, Anna Baldazzi e Rosa Di Cesare offrono una prospettiva approfondita ed esaustiva della nascita e fortuna di questi strumenti, esplorando i motivi alla base della loro creazione, diffusione e sviluppo, ed affrontando le implicazioni che sorgono nel momento in cui gli indici vengono utilizzati per calcolare l'impact factor delle pubblicazioni e divengono strumento di valutazione dell'attività scientifica.

Anche la nascita degli indici di citazione è dovuta alla necessità di una efficace metodologia di organizzazione della documentazione scientifica. E' stato il chimico americano Eugene Garfield, intorno alla metà del '900, ad aprire la strada verso l'utilizzo delle citazioni come mezzo di indicizzazione per la letteratura scientifica, partendo da modelli preesistenti, come lo Shepard's Citations, indice di casi giurisprudenziali statali e federali, che per l'ordinamento giuridico dei paesi anglosassoni costituiscono fonti di diritto, e che veniva pubblicato fin dal 1873. Lo Shepard's Citations collegava le sentenze a casi analoghi e presentava i riferimenti bibliografici. Garfield intuì che "il criterio delle citazioni forniva una metodologia di indicizzazione delle recensioni che poteva essere estesa alla letteratura scientifica in generale". Nel 1961 fu quindi avviata la sperimentazione di un indice di citazione nel settore genetico, e qualche anno dopo, nel 1963, fu pubblicato lo Science Citation Index. Si apriva un percorso che avrebbe progressivamente incluso gli altri settori disciplinari e portato al sistema integrato di Web of Science, e che nel corso del tempo si sarebbe arricchito di nuove finalità, tra cui la valutazione dell'attività scientifica di enti, riviste, e singoli studiosi.

Quest'ultimo utilizzo è ciò che maggiormente sollecita dubbi e discussioni sugli indici di citazione pubblicati dall'Isi (Institute for Scientific Information) e sulla conseguente prassi, ormai molto diffusa, di utilizzare l'impact factor nella valutazione delle riviste e degli autori. La prima significativa riflessione riguarda il fatto che si tratta di sistemi centralizzati di organizzazione dell'informazione, in netta antitesi con la tendenza della ricerca scientifica a divenire sempre più locale, volta allo studio e alla risoluzione di problemi circostanziati, e sovente al di fuori della corrente di pensiero prevalente.

In altri termini, è noto che la selezione delle riviste incluse negli indici di citazione dell'Isi predilige pubblicazioni in lingua inglese e di provenienza statunitense, regolari nella loro uscita e "forti", il che significa anche in grado di sostenere le spese di abbonamento ai Citation Indexes. A tal proposito sono emblematici gli esempi portati da Adriana Valente su due casi di esclusione dagli Indici di importanti riviste: gli "Archivos de Investigaciòn médica", per ragioni editoriali (scarsa puntualità nella pubblicazione e difficoltà di redazione dei sommari in inglese degli indici spagnoli) ed economiche (impossibilità di versare la quota di abbonamento al Science Citation Index); e gli "Annali di Matematica Pura e Applicata" (per irregolarità nell'invio dei fascicoli all'Isi). Entrambe le motivazioni hanno però risvolti commerciali legati ai costi aggiuntivi che l'Isi avrebbe dovuto sostenere per poter includere le riviste nelle sue basi dati e che ha scelto di non sostenere.

Inoltre, un sistema di valutazione come quello basato sugli indici di citazione rafforza una tendenza - non sempre positiva - riscontrabile nel mondo della ricerca. Sono molti gli studiosi che preferiscono conformarsi ed allinearsi alla corrente prevalente e percepita come dominante, piuttosto che affrontare percorsi di ricerca innovativi; il rischio, nel secondo caso, è l'isolamento sociale dell'individuo che si discosta dalle regole della comunità scientifica e dalle fonti informative dominanti (in altre parole, dall'editoria scientifica dei grandi colossi editoriali commerciali). Le conseguenze sono ovvie e pesanti per il sistema della ricerca scientifica, ma anche per le biblioteche che devono supportare tale sistema.

I problemi non sono solo questi, e sono stati ampiamente discussi nella letteratura professionale, a cui nel volume si attinge frequentemente. Dei fattori che influenzano la citazione, e quindi concorrono al calcolo dell'impact factor intaccandone l'oggettività valutativa cui si aspirerebbe, si è parlato spesso anche in ambito bibliotecario: la maggiore disponibilità di alcuni articoli (legata all'alta diffusione e al prestigio delle riviste, specie di quelle pubblicate da editori commerciali), la frequenza dell'autocitazione soprattutto in alcuni settori disciplinari, la citazione "sociale" di contributi di amici, colleghi, studenti dell'autore citante, o di autori citati perchè sono autorevoli o di "moda", indipendentemente dalla relazione dei loro articoli con lo scritto dell'autore citante.

E' ovvio che un parametro puramente quantitativo come l'impact factor non possa avere alcun fondamento ai fini di una valutazione sulla qualità, poichè non consente in nessun modo di determinare le motivazioni della citazione. Non risulta quindi possibile rilevare se la citazione sia davvero effettuata per riconoscimento della validità ed autorevolezza dell'autore citato, e per la sua influenza sullo scritto del citante, e non piuttosto per le ragioni di cui sopra, oppure per dimostrarne la poca affidabilità o semplicemente inclusa in un ampio elenco di riferimenti bibliografici, magari nemmeno tutti consultati dall'autore.

Nessun genere di correttivo nel calcolo dell'impact factor è previsto per queste macroscopiche distorsioni. Ma soprattutto dovrebbe spingere a ridefinire la valenza dello strumento la semplice considerazione che l'impact factor si calcola solo ed esclusivamente sulle riviste incluse nelle basi dati dell'Isi che, non bisogna dimenticarlo, è una società di tipo commerciale e persegue fini commerciali. Ciò che non è contemplato dall'Isi (per le ragioni varie, economico-editoriali, che abbiamo visto sopra) non sarebbe dunque di qualità? Il percorso intrapreso in questa direzione è evidentemente privo di serie basi scientifiche e molto pericoloso. Basterebbe soffermarsi a riflettere sul fatto che lo stesso Garfield (proprietario delle basi dati dell'Isi) in diverse occasioni ha sconsigliato l'uso dell'impact factor come strumento di valutazione.

Le problematiche aperte da tali strumenti sono molteplici e articolate, ed è difficile renderne qui tutti i risvolti, ma le autrici dei tre saggi si soffermano sui divesi aspetti dell'argomento in questione, integrando i loro contributi con una corposa bibliografia.

La terza parte del volume sposta l'attenzione sui processi comunicativi in quanto fattore fondamentale di diffusione e di condivisione dei risultati scientifici, e sulla loro trasformazione con l'avvento delle information and communication technologies. In particolare, vengono indagate con una prospettiva assai ampia le modalità secondo le quali le tecnologie recenti modificano i percorsi di trasmissione delle conoscenze, sia nella loro componente esplicita che in quella tacita, attraverso nuovi strumenti di comunicazione, spesso situati a metà strada tra l'oralità e la scrittura, primo fra tutti l'e-mail.

Ruolo fondamentale rivestono poi i nuovi spazi di confronto e scambio delle conoscenze come le liste di discussione, i forum, i newsgroups, in particolare per quella tipologia di conoscenza definita (da Lundavall e Johnson) know-who, e insieme al know-how basata sulla conoscenza tacita, posta in opposizione a know-what e know-why, basate invece sulla conoscenza codificata.

Daniela Luzi nel suo saggio offre un interessante approfondimento sulla Computer mediated communication (Cmc), soffermandosi sul funzionamento delle liste di discussione in riferimento alla "teoria della presenza sociale", risultato degli studi su "quanto un canale o uno strumento riesca a veicolare le caratteristiche personali nell'interazione comunicativa e a dare la percezione della presenza psicologica dell'interlocutore". Sono elementi di analisi, per esempio, l'uso delle emoticons, che avrebbero la funzione di supplire l'interazione diretta, i flaming, sintomo di comportamenti meno inibiti in rete, la personalizzazione dei messaggi tramite la firma con affiliazione istituzionale e spesso con l'aggiunta di citazioni e frasi che rivelano alcune caratteristiche dello scrivente. Altre teorie sono state di volta in volta applicate agli studi sulla Cmc, quali la teoria della ricchezza informativa e la social network analysis, entrambe presentate nel saggio.

Negli altri contributi vengono affrontate le prospettive introdotte dagli open archives e dalla formazione a distanza, argomenti di particolare attualità in ambito bibliotecario.

Nell'ultimo saggio, infine, Sveva Avveduto, Luzi e Valente tracciano l'evoluzione del concetto di public understanding of science (Pus), ovvero degli sforzi tesi ad aumentare la conoscenza degli argomenti inerenti a scienza e tecnologia e la partecipazione del pubblico al dibattito scientifico, per ora limitato e rivolto in prevalenza ai temi della medicina e dell'ambiente (soprattutto su singoli argomenti quali la "mucca pazza" o l'effetto serra). In particolare il discorso si indirizza sui media, canale principale del Pus, e sul loro ruolo nel veicolare l'informazione scientifica. Un discorso ampio e sfaccettato e quanto mai attuale, affrontato come gli altri argomenti sollevati nel volume in maniera efficace e interessante.

Rossana Morriello, Direzione del Sistema Bibliotecario di Ateneo - Università Ca' Foscari di Venezia, e-mail: rossana.morriello@unive.it




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