«Bibliotime», anno VI, numero 3 (novembre 2003)

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Michele Santoro

Futuro delle memorie digitali e patrimonio culturale



Il convegno internazionale "Futuro delle memorie digitali e patrimonio culturale", tenutosi a Firenze il 16 e 17 ottobre 2003, non solo ha rappresentato un'importante occasione di informazione e dibattito su un tema di così grande importanza com'è quello della conservazione dei documenti digitali e più in generale della permanenza delle memorie, ma ha avuto un carattere fortemente operativo, dando vita ad una "agenda" contenente una serie di impegni che le diverse istituzioni sono chiamate a sviluppare.

Già gli interventi delle "autorità", più che portare i saluti di rito, hanno messo in luce la rilevanza dei temi che il convegno intende dibattere, soffermandosi sulle tematiche della tutela e valorizzazione delle memorie culturali, obiettivo per il quale le tecnologie digitali possono offrire un contributo determinante.

La prima relazione è stata quella di Elisa De Santos Canalejo, Presidente dell'International Council on Archives, la quale ha sottolineato come l'interesse per l'informatica sia nato nel mondo delle biblioteche, e si sia successivamente esteso anche agli archivi. Per gli archivisti l'avvento dell'informatica e della telematica ha avuto un'importanza strategica, non solo influendo sulle attività tradizionali, ma rivoluzionando la nozione stessa di archivio, in particolare da quando si è affermato il concetto "documento elettronico", che può essere inteso tanto come un "supporto" al documento originale in forma cartacea, quanto come un documento in sé.

Per rispondere alle sfide delle nuove tecnologie, prosegue la relatrice, negli ultimi anni si è costituito un "comitato per gli archivi elettronici", che ha messo a fuoco i problemi dell'archiviazione digitale e il suo impatto sulla società. Da parte dell'International Council on Archives verrà presto prodotta una guida relativa tanto alla parte operativa (le pratiche di archiviazione) quanto a quella conservativa. Un'importanza fondamentale per lo sviluppo di queste tematiche stanno avendo il progetto Interpares (<http://www.interpares.org/>) e i progetti europei Minerva ed Erpanet; diversi meeting in ambito europeo ed internazionale hanno contribuito ad approfondire tematica di grande rilievo quali l'archiviazione di documenti in formato elettronico e l'accesso agli archivi online.

Un progetto molto interessante è infine quello degli Archivi spagnoli in rete, che si aggiunge all'esperienza, già da tempo avviata, dell'Archivo International de Indias (<http://www.mcu.es/lab/archivos/visitas/indias/indias.html>): i problemi sono indubbiamente numerosi (di lingua, di difficoltà di accesso), ma i vantaggi sono decisamente maggiori.

Il secondo relatore, Peter Duseck, Vicepresidente della Fédération Internationale des Archives de Télévision, ha portato un punto di vista controcorrente e di opposizione a ciò che ha definito "l'euforia dominante" nell'attuale panorama delle telecomunicazioni. A parere di Duseck infatti il settore televisivo vive in un contesto volto ad assorbire o produrre conoscenza, essendo interamente teso al divertimento e all'appiattimento della conoscenza. Gli archivi televisivi non sono che un frammento dell'insieme delle memorie culturali (basti pensare, per avere un'adeguato rapporto, a ciò che costituisce il "posseduto" delle biblioteche), e l'idea che essi possano essere impiegati per produrre conoscenza è stata generalmente ignorata dalla cosiddetta cultura di massa.

Inoltre, fino a pochi anni fa "la scienza dell'archiviazione" non includeva gli audiovisivi: il temine "archivio" era sinonimo di magazzino, di soffitte piene di vecchi materiali. Per questo molti documenti di natura audiovisiva sono andati distrutti in tutto il mondo: ad esempio, le celebri immagini dello sbarco dell'uomo sulla luna sono state letteralmente cancellate dagli archivi televisivi di molti paesi, in quanto non erano più disponibili le attrezzature per poterle visualizzare.

Ai problemi di natura tecnica si aggiunge una generale indifferenza nei confronti di queste problematiche, proprio perché prevale una visione volta all'intrattenimento, mentre l'informazione viene considerata "zavorra". E' per questo che il relatore conclude lanciando un appello all'Unesco e alle istituzioni europee, affinché sostengano la conservazione degli archivi di audiovisivi, che stanno letteralmente "marcendo" in tutto il mondo.

Cary Karp, Direttore dell'Internet Strategy and Technology dell'International Council of Museums, si è qualificato come un musicologo di formazione, e infatti ha proposto un intervento centrato sulla conservazione degli strumenti musicali nell'epoca digitale. Il calzante esempio portato dal relatore riguarda la conservazione dei sintetizzatori, strumenti per i quali l'obsolescenza tecnologica è assai elevata, e che dunque vanno conservati adeguatamente per poter recuperare i "messaggi" in essi contenuti; ma per far ciò, si chiede Karp, è possibile conservarli in un museo? e questo museo può esporli al pubblico?

La comunità dei musei già da tempo ha manifestato molta sensibilità per questi problemi, ripensando profondamente la propria natura e la propria missione; i musei, sostiene Karp, hanno l'obbligo di conservare anche il "patrimonio intangibile" e non solo gli oggetti materiali. La componente intangibile dell'oggetto è quella che si manifesta quando questo oggetto viene digitalizzato; se invece l'oggetto nasce direttamente in formato digitale, esso deve essere "rappresentato" in modo tangibile ed evidente. In altre parole, i principi di base della museologia devono estendersi anche al mondo digitale.

Inoltre, osserva il relatore, su Internet esistono musei solo virtuali (è quanto viene definito come clic-only); questo produce problemi di autenticità, per cui è necessario individuare una serie di criteri che permettano di poter attribuire un adeguato "riconoscimento" all'oggetto collocato in questi musei. I materiali "esposti" vanno dunque riferiti alle agenzie che lo hanno prodotto: difatti qualunque dilettante può registrare un dominio e creare un proprio museo virtuale, collocandovi qualsiasi prodotto; è per questo che diventa strategica la funzione dell'autenticazione, ma per far ciò occorre arrivare a un consenso comune, in grado di fornire un'adeguata certificazione di questi oggetti. I musei apprezzano molto la possibilità di diventare virtuali, ma proprio per questo è necessario creare una "comunità di fiducia" che provveda a queste necessità.

La mattinata è stata conclusa dall'intervento di Abdelaziz Abid, Senior Programme Specialist dell'Information Society Division dell'Unesco, che è si è focalizzato sul tema centrale del convegno, e cioè la conservazione del patrimonio in formato digitale. Non è un caso, ha sottolineato il relatore, se fra i vari programmi didattici, culturali e scientifici dell'Unesco, ciò che rende davvero fondamentale questa istituzione sono i suoi programmi sulla protezione del patrimonio dell'umanità. In particolare il programma "Mémoire du monde" (<http://www.unesco.org/webworld/mdm/fr/index_mdm.html>), di cui Abid è coordinatore a livello internazionale, si occupa della conservazione sia di biblioteche e di archivi tradizionali, sia di strumenti e supporti digitali. Abid ha sottolineato come proprio il giorno precedente a Parigi l'Unesco abbia approvato un "Draft Charter on the Preservation of the Digital Heritage" (<http://www.nla.gov.au/initiatives/meetings/cdnl/2003/07unesco.pdf>), mentre il giorno successivo sarebbe stato approvato un progetto di protezione del patrimonio immateriale.

Già da due anni, continua Abid, è stato messo l'accento sulla necessità di varare un testo di carattere normativo; ciò è avvenuto ad opera del Consiglio Europeo, che ha sede in Olanda, e ha dato vita a un dibattito molto intenso. Questa risoluzione doveva avere interesse per tutti i paesi del mondo, e i membri del consiglio esecutivo hanno insistito sul fatto che la conservazione dovesse riguardare non solo il web, ma la cultura specifica di tutto il mondo. Una ulteriore elaborazione è stata proposta dall'Australia ed è stata sottoposta alle altre nazioni: l'obiettivo era quello di associare il maggior numero di partners (bibliotecari, archivisti, specialisti di conservazione, informatici, etc.); il documento sviluppato dagli australiani è stato poi migliorato e integrato dalle diverse sessioni regionali.

L'Unesco, ricorda il relatore, agisce attraverso raccomandazioni agli stati e dichiarazioni di principi, e il "Draft Charter on the Preservation of the Digital Heritage" appartiene alla seconda categoria. Questa risoluzione si compone di dodici articoli, e afferma esplicitamente che la scomparsa del patrimonio costituisce un impoverimento assai grave per l'intera umanità, per cui è indispensabile una collaborazione a livello internazionale. Poiché al giorno d'oggi il patrimonio si manifesta sempre più in forma digitale, e dunque presenta un altissimo rischio di perdita, gli interventi per la sua conservazione devono assumere i caratteri della necessità e dell'urgenza.

I principi che ispirano il Draft Charter sono di natura squisitamente organizzativa: ribadito che il patrimonio digitale è parte integrante del patrimonio dell'umanità, si sottolinea tuttavia che "non tutto ciò che è digitale è patrimonio"; il problema infatti è di riconoscere ciò che ha valore documentario e di testimonianza. Inoltre la risoluzione ribadisce che la conservazione non è fine a se stessa, ma deve dar vita a sistemi che siano accessibili nel lungo termine. Infine, considerati i rischi di perdita a cui questa forma di patrimonio può andare incontro, il documento richiama la necessità di agire sollecitamente, intervenendo sull'informazione in formato digitale durante tutto il suo ciclo di vita.

Le misure da intraprendere sono di tipo sia tecnico che politico, fondate entrambe sulla collaborazione internazionale. I principi devono basarsi su un criterio di selezione, individuando ciò che è opportuno conservare perché, com'è noto, vi è un intenso dibattito sull'opportunità di conservare tutto ciò che esiste in formato elettronico; in ogni caso, i criteri a cui attenersi possono variare da un paese all'altro. Occorre inoltre creare un quadro giuridico e legislativo per il deposito legale. Ciò che va sottolineato è che la conservazione digitale aiuta la conservazione e l'accesso al patrimonio generale dell'umanità; per questo è necessaria un'azione di partnership e di cooperazione globale, e in ciò il ruolo dell'Unesco è fondamentale.

La seduta del pomeriggio è stata presieduta da Bernard Smith, Responsabile dell'Unit E5 (Preservation & Enhancement of Cultural Heritage) del Directorate EDG INFSO della Commissione Europea, che è stato anche il primo relatore.

Smith ha tracciato un quadro dettagliato delle attività in corso presso l'Unione Europea per ciò che riguarda i progetti di conservazione del digitale, sottolineando come l'Unione svolga un ruolo di complemento e di supporto verso gli stati membri, non sostituendosi ad essi in queste attività ma solo aggiungendovi valore. Le istituzioni culturali europee, sostiene Smith, sono vere e proprie "industrie", di cui alcune pubbliche, altre private; presso gli stati membri esistono 10 miliardi di oggetti culturali, e si verificano sei miliardi di "visite" all'anno, con un numero di occupati che supera i cinque milioni.

La parte digitale di questo settore si presenta come una vera e propria miniera di attività e di iniziative; alcuni progetti riguardano gli archivi audiovisivi (esistono 15 milioni di documenti audio e altrettanti documenti video); ma il 15% delle strutture manca delle attrezzature necessarie per usare questi documenti, mentre il 25% dell'intero patrimonio audiovisivo ha subito danni permanenti, che hanno provocato la perdita di migliaia di documenti e di altrettante ore di trasmissione. In sostanza, afferma Smith, per cominciare ad affrontare questi problemi occorrono almeno 100 miliardi di euro, e occorrono con urgenza.

Inoltre, per poter utilizzare efficacemente i propri archivi le aziende hanno bisogno di politiche e strategie per la digitalizzazione. Com'è noto i finanziamenti variano a seconda se le aziende appartengono al settore pubblico o a quello privato, anche se in futuro sarà necessario concentrarsi su soggetti specifici, in grado di comprendere il valore aggiunto che nasce da queste operazioni.

Proprio per dare sviluppo questi obiettivi, al giorno d'oggi nascono una serie di progetti in collaborazione fra tipi diversi di istituzioni; difatti la sfida è quella della conservazione a lungo termine che tuttavia, sostiene Smith, dovrà basarsi su programmi a breve termine, che permettano di intervenire con celerità laddove è necessario. Nel giugno del 2002, ad esempio, l'Unione Europea ha lanciato il programma "eEurope - An Information Society for All" (<http://europa.eu.int/information_society/eeurope/2005/index_en.htm>), che spinge fra l'altro al coordinamento delle diverse politiche di digitalizzazione, mentre da tempo sono operativi i cosiddetti "Principi di Lund" (<ftp://ftp.cordis.lu/pub/ist/docs/digicult/lund_principles-it.pdf>), consistenti in una serie di raccomandazioni volte ad aggiungere valore alle diverse attività di digitalizzazione

Durante la presidenza spagnola è stata inoltre approvata la risoluzione "Conservare la memoria del domani" (<http://www.erpanet.org/www/products/kerkira/presentations/UE_Preservation.pdf>); negli ultimi anni sono state approvate molte altre risoluzioni relative alla conservazione del patrimonio, che prevedono una serie di politiche di lungo termine, e che di conseguenza appaiono decisamente costose. A parere del relatore queste sfide devono avere un obiettivo politico ben definito, e bisogna individuare con chiarezza i costi e i responsabili di tali interventi; ma soprattutto occorre creare una vera e propria "infrastruttura digitale europea": difatti le istituzioni culturali preferirebbero non affrontare problemi così complessi, ma questo è un impegno che non si può eludere.

Non ci sono ancora informazioni, modelli e stime valide sui costi e sulla loro possibile ripartizione fra settore pubblico e privato; bisogna essere convincenti con il pubblico sul perché è necessario digitalizzare e conservare il patrimonio in formato numerico; di conseguenza, è necessario abbandonare le vecchie linee guida e individuarne di nuove, volte soprattutto ad esternalizzare queste procedure. Per poter rinnovare il profilo della propria istituzione, occorre sviluppare un sistema a rete, prevedendo una serie di istituzioni che costituiscano un modello cooperativo per sviluppare relazioni incrociate tra archivi, biblioteche e musei.

Data la complessità di tali problematiche occorrono progetti volti a definire gli obiettivi e i mezzi per affrontarle e risolverle: uno di questi è il progetto Delos - Network of Excellence on Digital Libraries (<http://delos-noe.iei.pi.cnr.it/>), che si colloca nell'ambito del Quinto Programma Quadro della Commissione Europea "Information Society Technologies" (<http://www.cordis.lu/ist/home.html>); il progetto individua fra l'altro una serie di priorità e di obiettivi misurabili per ciò che riguarda le attività di conservazione. I piani che vengono sviluppati all'interno di questi progetti sono di grandi dimensioni economiche, e strettamente correlati alle iniziative nazionali, che tra l'altro essi hanno lo scopo di alimentare e sostenere.

In conclusione, Smith ha indicato alcune linee di tendenza di cui è necessario tener conto se si vogliono produrre risultati di alto valore strategico: in primo luogo l'implementazione e l'utilizzo dei metadati, che assumono un'importanza crescente nel contesto dell'informazione elettronica; quindi la creazione di servizi di biblioteca digitale e di interfacce-utente sempre più semplici e amichevoli; infine una efficace opera di valutazione dei servizi e delle attività. A ciò va aggiunta la necessità di idonee strategie per la ricerca e la cattura dei dati, specie quelli di più difficile acquisizione, mentre uno sforzo particolare va posto nella conservazione dei materiali audiovisivi. L'Unione Europea cerca di sviluppare una serie di progetti a sostegno di queste attività, ma ancora una volta occorre chiedersi se esse siano sufficientemente sostenute e promosse, affinché possano esplicare tutto il loro potenziale in funzione di un obiettivo che non è più possibile differire.

L'intervento successivo è stato quello di Luciano Scala, Direttore dell'Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane e le Informazioni Bibliografiche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il quale ha dato conto di un'indagine sviluppata dall'ICCU in collaborazione con l'Università di Urbino, e volta a sottolineare l'estrema fragilità dell'informazione in formato digitale e gli alti rischi di perdita a cui essa può andare incontro. Tale indagine ha riguardato alcuni casi di perdita di importanti dati in formato elettronico, e del loro spesso fortunoso recupero; si tratta, ha sottolineato il relatore, solo di alcuni esempi - ormai di pubblico dominio - di un problema assai vasto, e che dunque vanno guardati come la punta di un iceberg che occorre fronteggiare con consapevolezza ed energia.

L'indagine ha messo in luce che, per poter ripristinare con successo dati digitali deteriorati o perduti, è spesso necessario recuperare attrezzature ormai obsolete (ricorrendo quindi a una vera e propria archeologia industriale), oppure basarsi sulla "memoria orale", ossia sui ricordi delle persone che hanno contribuito alla creazione di questi dati: si tratta, in entrambi i casi, di fattori occasionali e fortuiti, che non sempre possono manifestarsi in attività volte a ripristinare hardware e software danneggiati.

Esemplare è il caso del Combat Air Activities File (CACTA), ossia dell'archivio contenente i dati relativi alle missioni di attacco aereo americano in Vietnam. Tali dati sono stati utilizzati dagli artificieri per localizzare le bombe inesplose che, dopo la fine della guerra, avevano provocato migliaia di morti. E tuttavia, nel realizzare queste attività di sminamento, ci si è accorti che le coordinate geografiche erano sbagliate: i dati infatti erano stati trasferiti in un altro formato, introducendo una serie di errori che sono stati scoperti solo 25 anni più tardi, e che è stato possibile correggere solo perché i National Archives americani avevano conservato i dati originali e li avevano trasferiti su supporti più moderni, in modo che rimanessero vivi e leggibili.

Il caso italiano preso in esame dal rapporto si riferisce alla banca dati Neapolis, creata nel 1986 dal Ministero per i Beni Culturali e relativa alle risorse ambientali e artistiche dell'area vesuviana. Nel 1989, a progetto ultimato, l'elaboratore su cui risiedevano tutti i dati e le applicazioni è stato spento per mancanza di risorse finanziarie; nel 1999 si è deciso di verificare la possibilità di recuperarne il contenuto, ma si è dovuto prendere atto che riaccendere il sistema risultava un'operazione difficilmente realizzabile, e che avrebbe richiesto un impegno economico insostenibile. Per tale motivo è stato avviato un progetto volto a costruire un elaboratore simile a quello originario, e a rintracciare le persone che, avendo collaborato al Progetto Neapolis, con la loro "memoria orale" potevano garantirne la fattibilità.

Un altro caso ha riguardato il recupero di un palinsesto contenente un'opera di Archimede, che è stato possibile ripristinare e leggere integralmente solo grazie alle fotografie fatte scattare al manoscritto, oltre 100 anni fa, da un celebre paleografo. In base a questi ed altri casi analoghi, il relatore ha richiamato l'attenzione sulla drammaticità del problema della conservazione dei materiali digitali, mettendo l'accento sull'estrema diversità delle situazioni che occorre fronteggiare, e sulla difficoltà di poterle gestire in maniera omogenea. La funzione conservativa, ha affermato infatti Scala, conosce fasi fra loro differenti, e necessita di procedure e standard affidabili, che vanno sviluppati all'interno di politiche e strategie di lungo termine, e che richiedono di conseguenza un forte sostegno istituzionale.

E' seguito l'intervento di Joël Poivre, Direttore del Bureau du Traitment des Archives et de l'Informatisation della Direction des Archives de France, che ha parlato della politica francese di conservazione digitale degli archivi, un tema molto sentito in Francia, dal momento che in questo paese esiste una definizione "legale" di archivio, risalente a una legge del 1979. Secondo tale definizione, il documento d'archivio non è necessariamente legato a un supporto; in base a questo concetto, si è sviluppata una politica volta a rendere gli operatori sempre più consapevoli dell'importanza dell'archiviazione elettronica, oltre che a sviluppare una nuova deontologia professionale e mettere in atto un'accurata sorveglianza tecnologica e giuridica.

Poiché le tecnologie per l'archiviazione elettronica risultano sufficientemente potenti ma poco efficaci nel lungo termine, è necessario convincere i decisori politici dell'importanza di questo problema; d'altra parte la presa di coscienza non ha utilità se gli archivisti non sono in grado di offrire ai decisori una serie di pratiche e di strategie sia di natura tecnologica (rivolta all'archiviazione digitale) che giuridica (rivolta al deposito legale). La Direction des Archives de France si è dotata di un servizio speciale per l'archiviazione elettronica, sulla base di norme e di raccomandazioni provenienti da istituzioni quali l'AFNOR o l'ISO, ma anche di pratiche individuate dalle Archives de France. Questo avviene in collaborazione con altri enti (in primo luogo la Bibliothèque Nationale de France) e con altre figure professionali, quali informatici, giuristi, etc.

In base a questi presupposti, nel 2002 è stato pubblicato un manuale pratico per l'archiviazione elettronica, interamente disponibile su Internet, rivolto da un lato agli archivisti, dall'altro alle amministrazioni; inoltre è in via di completamento un secondo manuale sui siti di fonte pubblica, e ne è previsto un terzo sull'archiviazione dei siti Internet. Molto importanti sono le attività formative, che prevedono tra l'altro corsi sui metadati, sulle metodologie di conservazione, sugli aspetti relativi all'autenticità e la tutela del copyright, e così via.

Dopo l'intervento di Henrik Jarl Hansen del Kulturnet Danmark, che ha tracciato un quadro dettagliato sui progetti per l'accesso e la conservazione delle memorie digitali in Danimarca, si è avuta la relazione di Mariella Guercio, docente di archivistica presso l'Istituto di Studi per la Tutela dei Beni Archivistici e Librari dell'Università di Urbino. La relatrice ha presentando i risultati di un'indagine conoscitiva, condotta dall'ICCU e dall'Università di Urbino d'intesa con il progetto Erpanet, e relativa allo sviluppo di norme, regolamenti e politiche per la conservazione delle memorie digitali, con particolare riferimento alla situazione europea.

Oggi infatti, afferma la relatrice, il problema della conservazione del digitale comincia ad avere un certo spazio all'interno dei progetti europei, e questo produce una serie di finanziamenti che hanno bisogno di essere opportunamente gestiti per ottenere i risultati migliori: nel progetto Delos, ad esempio, una parte rilevante è riservata alla conservazione, mentre i progetti Minerva ed Erpanet sono interamente rivolti a questo obiettivo.

Nell'ambito di quest'ultimo progetto è stato sviluppato un questionario, rivolto a 40 Paesi tra cui anche Australia, Stati Uniti e Canada, e teso a esaminare e rendere esplicite le potenzialità e le criticità degli interventi normativi e regolamentari esistenti sia in ambito nazionale che internazionale. Il questionario, la cui elaborazione ha subito una serie di imprevedibili ritardi, e che avrebbe avuto bisogno di un adeguato periodo di prova, ha avuto tuttavia un esito assai interessante, avendo ricevuto 46 risposte sia in Europa che fuori. L'iniziativa si è resa necessaria perché il quadro internazionale risulta frammentato e confuso, ma allo stesso tempo pieno di potenzialità, e le attività di conservazione, come molti relatori hanno osservato, non possono essere sviluppate se non in un contesto europeo e internazionale: difatti è ormai evidente che occorrono policy ben definite, e la presenza di un linguaggio univoco in un quadro unitario di responsabilità.

Un altro problema è quello dei vincoli: i prodotti dell'e-government, ad esempio, sono sottoposti a una serie di norme che riguardano soprattutto la loro creazione e diffusione, ma non la loro conservazione; un altro punto importante è quello del deposito legale, per il quale mancano normative per la conservazione e la tutela. Inoltre, è sempre più necessaria la presenza di professionisti che siano molto preparati nei diversi ambiti in cui andranno a operare, e in ciò l'Italia è davvero all'avanguardia. Infine, le normative richiedono la presenza di policy: nessuna delle nostre istituzioni - né tantomeno quelle di conservazione - si sono mai date delle proprie policy, cosa che invece è avvenuta in Australia, negli Stati Uniti e in Canada.

Il quadro, ha affermato la relatrice, appare dunque molto aperto, e le iniziative sono numerose. Tuttavia è necessario cambiare registro: non più provvisorietà e approssimazione ma stabilità e certezze; le normative e le policy possono avere un ruolo se sono i produttori stessi a proporle e a metterle in atto. Difatti le risposte sono possibili se c'è consapevolezza da parte delle istituzioni, proprio per dare ordine alla quantità di iniziative che si succedono in maniera spesso caotica; alcune di queste hanno ottenuto un lusinghiero successo, com'è il caso del progetto Morec, che ha individuato una serie di requisiti per i diversi contesti della realtà digitale. Fondamentale si sta dimostrando il ruolo dei progetti Minerva e Erpanet, e il ruolo di organi di regolamentazione, come AIPA e CNIPA. Infine, conclude la relatrice, uno dei nodi è quello delle risorse umane, che implica sia una formazione continua sia un serio investimento finanziario; tutto ciò va legato ad un quadro normativo che deve diventare un momento fondamentale da cui partire almeno a livello comunitario.

L'ultimo intervento della mattinata è stato quello di Kenneth Thibodeau, Direttore dell'Electronic Record Archives Program del National Archives and Record Administration (NARA) degli Stati Uniti. Scopo della conservazione, ha esordito il relatore, è quello di ricostruire il passato, mentre il ruolo degli archivisti è di fornire i documenti. Su questi presupposti si basa l'attività della NARA, specie in un epoca in cui emerge il concetto di archivio elettronico, per il quale gli aspetti tecnologici sono di importanza strategica. L'azione della NARA (che ha ricevuto un finanziamento di 25 milioni di dollari dal governo degli Stati Uniti) cerca di comprendere le problematiche che questo sistema comporta, e produrre di conseguenza un nuovo "design" culturale fondato su principi certi.

Fra questi, in primo luogo vi è la necessità di dare spazio a un sistema di acquisizione e conservazione di documenti elettronici la cui durata sia garantita per tutto il ciclo di vita dei record. Per questo sono stati individuati ben 750 requisiti in grado di far funzionare il sistema; ma per far ciò si è resa necessaria un'adeguata valutazione di questi requisiti, cosa che è avvenuta attraverso 45 studi di casi. Il team di ricerca ha cercato di scomporre i diversi problemi incontrati di volta in volta, mettendo in luce l'idea secondo cui i requisiti debbano essere espressi dal punto di vista degli utenti, e non sulla base delle preferenze o dei pregiudizi dei produttori. In realtà non è stato semplice distinguere fra requisiti e soluzioni: ad esempio, le due principali strategie di conservazione del digitale, la migrazione e l'emulazione, costituiscono entrambe delle soluzioni; inoltre il record dovrebbe essere organizzato in modo che sia chiaro e definito per gli utenti.

Il sostegno del governo americano al progetto della NARA, sostiene in chiusura Thibodeau, non si sarebbe avuto se i decisori non fossero stati convinti della gravità del problema, e dunque della necessità dell'iniziativa; in questo, le responsabilità della NARA sono condivise da altre istituzioni, cosa che ha prodotto una forte collaborazione con una serie di agenzie anche di natura commerciale.

La seconda giornata è stata aperta dall'intervento di Neil Beagrie, Direttore del Joint Information Systems Committee inglese. Il relatore, che è uno dei maggiori esperti europei nel campo della conservazione del digitale, ha riferito di uno studio sulla crescita delle pubblicazioni in formato digitale, e in particolare dei documenti scientifici, al cui interno un ruolo di primo piano è ovviamente svolto dalle riviste elettroniche. I periodici elettronici mostrano infatti un tasso assai elevato di crescita seguita, a una certa distanza, da quella dei libri in forma digitale. Lo studioso cita l'importante articolo di Tony Hey and Anne Trefethen intitolato The data deluge. An e-science perspective, (<http://www.rcuk.ac.uk/escience/documents/DataDeluge.pdf>), in cui si sostiene che nei prossimi cinque anni si verificherà un incremento senza precedenti delle pubblicazioni scientifiche in formato digitale, a cui si andrà ad aggiungere il radicale cambiamento del sistema di distribuzione di questo tipo di informazioni, anche se sarà difficile che i finanziamenti tengano il passo con questa vertiginosa moltiplicazione delle conoscenze.

Per questo, sostiene Beagrie, c'è bisogno di una attività di "curation", ossia di sostegno e di protezione nel lungo termine: ed è ciò che cerca di fare il Joint Information Systems Committee, il cui obiettivo è proprio quello dell'accesso di lungo termine ai materiali digitali e l'individuazione delle più adeguate strategie di conservazione. Per questo il JISC, in collaborazione con il progetto Delos, ha lanciato il programma per l'archiviazione digitale "Invest to save", e ha dato vita a un "Digital Curation Centre", rivolto soprattutto a progetti di e-science.

Quest'ultima iniziativa nasce perché la comunità accademica non ha ancora attivato efficaci meccanismi di interazione con la comunità bibliotecaria per la conservazione dei documenti in formato elettronico; il Digital Curation Centre (<http://www.e-science.clrc.ac.uk/web/projects/Data_Curation_Centre>) propone dunque una serie di attività, fra cui un'agenda per la ricerca e servizi di consulenza e di certificazione. Il termine "curation" implica l'idea della conservazione, ma anche quella dell'utilizzo nel lungo termine: difatti davvero strategica appare l'idea di un riutilizzo dei dati una volta che siano stati opportunamente conservati.

Anche Beagrie sottolinea l'importanza di creare strutture condivise e sviluppare attività di natura collaborativa, citando al riguardo, oltre alle attività del JISC, anche quelle sviluppate dal progetto Cedars (<http://www.leeds.ac.uk/cedars/>), e dalla Digital Preservation Coalition (<http://www.dpconline.org/graphics/index.html>).

A parere dell'autore è essenziale un'azione di "advocacy" affinché il pubblico abbia una chiara consapevolezza del problema; l'azione di advocacy è stata proposta alla Camera dei Comuni, e ciò appare una strategia piuttosto vantaggiosa in vista di una richiesta di finanziamenti.

Beagrie cita infine altri esempi di collaborazione che si sono sviluppati in Gran Bretagna: in primo luogo l'UK Web Archive Consortium, in collaborazione con il progetto australiano Pandora e con numerose biblioteche, il cui "testbed" avrà luogo quanto prima; e il National Needs Survive, che intende svolgere un'inchiesta sui bisogni degli utenti e sviluppare un'agenda per il lungo termine. Tutte queste iniziative, sostiene Beagrie, assumono un'importanza essenziale nel contesto europeo, se è vero che i diversi paesi dovrebbero essere influenzati anche sulla base di campagne di stampa e attività di advocacy.

Nel successivo intervento Vito Cappellini, docente presso il Dipartimento di Elettronica e Comunicazioni dell'università di Firenze, ha messo brillantemente in rapporto i problemi della conservazione delle memorie con quelli relativi alla protezione del copyright nella "fruizione telematica". La prima parte della relazione ha riguardato il tema della conversione in formato elettronico di documenti analogici, rilevando come in attività di questo tipo risulti di estrema importanza la qualità dell'acquisizione e della rappresentazione delle immagini digitali.

Per queste esigenze sono oggi disponibili tecnologie di digitalizzazione ad altissima risoluzione (fino a 10.000 per 10.000 pixel), che permettono una "esplosione" davvero enorme dell'immagine, consentendo lo sviluppo di tecniche di "restauro virtuale" di opere d'arte deteriorate. Simili livelli di risoluzione permettono ad esempio di visualizzare le "microcrepe", invisibili in una normale immagine, che sono presenti nell'oggetto da restaurare; con uno speciale "motore" si possono scorrere in tempo reale queste crepe, ed effettuare le operazioni di "ripulitura" o di vero e proprio restauro virtuale. In altre parole, sulla base di ciò che è riportato nell'immagine digitale il restauratore può scegliere l'intervento migliore da effettuare, sperimentando su una superficie minima dell'immagine l'esito che l'intervento avrà sull'intera opera; questo consente di operare restauri non invasivi, eliminando crepe o lacune o tutte le altre imperfezioni presenti nelle opere sottoposte a restauro. Ma la cosa più importante è che questa strategia permette di non procedere a un vero e proprio restauro "fisico", cosa che può essere anche molto rischiosa in caso di originali fragili o deteriorati.

Strategie così sofisticate hanno ovviamente costi elevati, che richiedono efficaci criteri di programmazione: i musei, ad esempio possono mettere a disposizione gratuitamente (secondo le prescrizioni dell'Unesco) un catalogo di icone, ossia di immagini in formato ridotto (le cosiddette thumbnails); ma se è invece l'alta qualità a venire privilegiata, allora è ovvio che vi debbano essere delle tariffe, ed è a questo punto che scatta il discorso del copyright. Al riguardo Cappellini ha presentato una serie di tecnologie di "marchiatura elettronica" (watermarking) delle immagini, in grado di identificare, in modo certo e inequivocabile, il proprietario delle opere (ente, biblioteca, museo); questa marchiatura permette di proteggere il copyright delle immagini conservate nelle memorie digitali e nelle banche dati, qualunque sia l'uso che si farà di queste immagini (utilizzazione locale, distribuzione in rete per formazione e fruizione, etc.). Queste tecnologie, conclude il relatore, possono essere distribuite su Internet ma anche attraverso i telefoni cellulari, cosa che permette un utilizzo assai ampio delle immagini digitali senza lesioni del copyright.

L'intervento seguente è stato quello di Giovan C. Profita, Direttore Generale per il Cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che si è concentrato sui problemi della conservazione e del restauro dei documenti cinematografici, lamentando i ritardi che impediscono a questo settore di operare celermente come avviene in altri ambiti documentari. Difatti non tutti i paesi europei si sono dichiarati d'accordo sulla necessità di sviluppare progetti su vasta scala di conservazione e di restauro di tali materiali, sia per ragioni economiche, sia perché le nazioni più piccole non hanno un patrimonio cinematografico paragonabile a quello delle maggiori. Dal punto di vista tecnico il problema è assai rilevante, perché ogni volta che una "pizza" viene proiettata, va incontro a deterioramento e a rischi di perdita, mentre la creazione di copie positive comporta costi piuttosto elevati. D'altra parte la digitalizzazione ha dato vita a ulteriori problemi, primo fra tutti quello della pirateria, dal momento che una copia digitale è molto più facile da riprodurre e da distribuire, e questo ha contribuito ad un rallentamento nell'evoluzione delle tecnologie cinematografiche.

Tutto centrato sui problemi tecnici attinenti alla conservazione degli archivi sonori è stata la relazione di Dietrich Schüller, Direttore del Phonogrammarchiv dell'Österreichische Akademie der Wissenschaften. In questo settore il problema della conservazione appare assai delicato per il fatto che i documenti sonori sono soggetti a un rapido deterioramento: i nastri in acetato, ad esempio, sono assai difficili da riprodurre, emettono fruscii e rumori di fondo e spesso si smagnetizzano; in ogni caso, la loro durata di vita non supera i venti anni.

D'altra parte la densità dei dati diventa via via maggiore quanto più ci avviciniamo ai nostri giorni e questo, sostiene il relatore, è nemico della sicurezza, poiché basta una piccola lesione per prourre perdite assai elevate di informazioni. Inoltre questi materiali hanno bisogno di attrezzature perché possano essere utilizzati, cosa che costituisce un grosso problema; al giorno d'oggi è già difficile leggere i formati più antichi (quali ad esempio i cilindri di cera) per cui è necessario - anche se non facile - conservare le attrezzature originarie.

I supporti più moderni hanno cicli di vita molto brevi: in questo risiede il problema dell'obsolescenza tecnologica, altrettanto grave del problema del degrado dei supporti. Gli studiosi hanno compreso che non esisterà mai un supporto in grado di durare per sempre, così come non può esistere un magazzino capace di contenerlo. Dunque il cambiamento di paradigma di cui tanto si parla risiede proprio in questo: non la conservazione del supporto ma la conservazione del contenuto; quando i contenuti si avvicinano a una soglia che appare problematica, allora si deve procedere a trasferimenti dei dati, attraverso meccanismi di refreshment o di migrazione; questa idea ha sollevato molte polemiche, ma alla fine si è affermata a livello internazionale.

L'accento dunque non va posto sulla conservazione dei supporti ma su una nuova dimensione di accesso ai contenuti; in questo quadro, occorre chiedersi quali siano gli standard necessari e quali strategie vadano intraprese per poter gestire con efficacia le diverse attività di conservazione. Al riguardo il relatore cita alcuni tra gli standard più importanti, proposti o fatti propri da diverse istituzioni fra cui l'Unesco, e ricorda il progetto Safeguarding Documentary Heritage (<http://www.unesco.org/webworld/virtual_exhibition/index.shtml>), che ha stimato in circa 100 milioni le ore di documentazione sonora da selezionare e digitalizzare, ma che allo stesso tempo ha riconosciuto che, se per decidere cosa digitalizzare si dovessero ascoltare tutti questi documenti, ciò richiederebbe 100.000 anni di lavoro-uomo. Per questa ragione si sono adottate una serie di procedure automatiche che permettono di individuare i nastri danneggiati. Naturalmente progetti di queste dimensioni richiedono costi assai elevati; d'altra parte, un problema spesso trascurato è quello dell'accesso, che deve essere garantito per un numero il più possibile ampio di utilizzatori.

Molto interessante anche l'intervento di Jacqueline Slats, Responsabile del Digitale Duurzaamheid olandese, che ha tracciato un quadro assai circostanziato sulle diverse strategie di conservazione dei materiali in formato elettronico, in primo luogo discutendo del concetto di "longevità digitale", ossia di accessibilità nel lungo termine dell'informazione. Per raggiungere questo obiettivo, il Ministero dell'Interno e gli Archivi Nazionali d'Olanda hanno messo in atto un interessante testbed (<http://www.digitaleduurzaamheid.nl/index.cfm?paginakeuze=181&categorie=2>) teso a verificare i problemi dell'obsolescenza tecnologica, dei tempi di trasferimento dei dati e dell'accessibilità dei documenti digitali. Il testbed ha preso in esame le tre strategie più praticate per la conservazione del digitale, e cioè la migrazione (il criterio più usato, ma che spesso si risolve in un semplice back-up delle versioni precedenti); l'utilizzo del linguaggio di marcatura XML, e infine l'emulazione o, come dice il progetto olandese, la creazione di un "Computer Virtuale Universale".

Il testbed ha realizzato una serie di esperimenti relativi a diversi tipi di hardware, di software e di file, dando vita a risultati molto interessanti: si è verificato infatti che tutte e tre le strategie sono efficaci per la conservazione a breve termine, anche se migrazioni ripetute possono dar vita a notevoli cambiamenti. L'XML appare più adatto per la conservazione dei fogli di calcolo, mentre per questo tipo di programmi l'emulazione non sembra dare buoni risultati, soprattutto a causa dei formati proprietari dei software. Per quanto invece riguarda i database non vi sono state risposte univoche: difatti, per lo stesso tipo di database, la migrazione va bene sempre nel breve termine; l'XML va bene in generale, ma è necessario memorizzare l'intera documentazione, inclusa quella per il monitor, mentre l'emulazione potrebbe dare buoni risultati, ma non è stata ancora del tutto sviluppata. La conclusione della studiosa è che l'unico approccio che ha dato risultati soddisfacenti per ogni tipologia di materiale è quello basato sull'XML, ed è dunque su questo che occorre puntare per il futuro.

Ancora centrato sulla conservazione dei documenti audiovisivi è stato l'intervento di Barbara Scaramucci, Direttore delle Audiovideoteche RAI, che ha messo l'accento sul progetto, sviluppato da alcuni anni dal nostro ente radiotelevisivo e teso al recupero ed alla catalogazione dell'intera gamma di materiali audiovisivi da esso prodotti (<http://www.teche.rai.it/>). Tale recupero non è finalizzato alla mera conservazione, ma al riutilizzo di questi documenti - che assommano a 800.000 ore di trasmissioni radiofoniche e televisive - così come prescrivono le finalità del servizio pubblico. Si sta inoltre procedendo alla creazione di un catalogo integrato di supporti cartacei (fotografie, autografi, copioni radiofonici, etc.), di cui manca il corrispondente nastro registrato, e che di conseguenza rappresentano documenti unici e importantissimi.

A partire da questi presupposti è stato creato un catalogo digitale, residente su Internet, che evita di dover visionare tutti i materiali prima di poterli utilizzare. Diversa è l'attività di catalogazione digitale per la radiofonia, e ciò a causa della carenza di finanziamenti, e perché di norma la scelta cade sui documenti televisivi. Il progetto è diviso in tre rami: "Octopus", che va a interrogare tutte le banche dati sulla base di un'interfaccia assai semplice; "Teca veloce", utilizzabile per le trasmissioni giornalistiche; e "Archivio digitale del suono" per la radiofonia. La tecnologia che è sottesa al progetto è molto pesante e impegnativa, ed è significativo, conclude la relatrice, che si sia riuscita a svilupparla interamente all'interno dell'azienda.

L'ultimo intervento della mattina è stato quello di Cristina Magliano, Responsabile del Gruppo Nazionale sui Metadati dell'ICCU, che ha ricondotto la discussione a un tema assai dibattuto nel mondo delle biblioteche, ossia quello della descrizione dei documenti digitali: un tema che, negli ultimi anni ha prodotto una quantità di studi sulla compatibilità fra le tradizionali regole di catalogazione e i nuovi standard di descrizione per le risorse digitali, insistendo in particolare sui metadati, che vanno a inserirsi in un panorama che ha visto l'emergere di criteri di descrizione radicalmente nuovi com'è il caso di FRBR, e intorno a cui è assai vivo l'interesse a livello internazionale.

In particolare l'IFLA ha rilasciato di recente un "core" di metadati, che tiene conto delle diverse famiglie di metadati oggi esistenti, e che è in grado di contemperarle tutte per arrivare a una definizione il più possibile univoca: si tratta, a parere della relatrice, di un "core di core", ossia di una sintesi dei diversi set minimi di metadati attualmente in uso.

In Italia c'è un forte interesse per questo discorso; in particolare l'ICCU ha dato vita a un gruppo di esperti per l'applicazione dei metadati ai progetti di digitalizzazione, creando un apposito osservatorio e dando vita a un questionario che ha dimostrato come il set di metadati più utilizzato sia senz'altro il "Dublin Core", seguito da quello della Library of Congress, mentre per le strategie di digitalizzazione e di conservazione è ritenuto più appropriato il modello proposto dall'OAIS. Il gruppo di lavoro si è dunque costituito come referente tecnico per l'applicazione dei metadati, pecie per le attività sviluppate all'interno del progetto "Biblioteca Digitale Italiana".

La tavola rotonda che ha concluso il convegno, efficacemente condotta da Paolo Galluzzi, Direttore dell'Istituto e Museo di Storia della Scienza, da un lato ha tentato di fare il punto sulle opinioni espresse nelle precedenti sessioni, dall'altro di individuare i punti più rilevanti della "Agenda di Firenze" (<http://www.iccu.sbn.it/PDF/Firenze-agenda-17-Oct_ITAL.pdf>), elaborata, come si è visto, proprio nelle due giornate del convegno, e volta a individuare una serie di azioni da porre in atto a livello europeo: e cioè, in estrema sintesi, creare consapevolezza e meccanismi cooperativi; scambiare buone pratiche e sviluppare punti di vista in comune; dar vita a politiche e strategie di lungo termine .

Tra gli interventi più rilevanti ricordiamo quello di Seamus Ross, Direttore del Progetto Erpanet ed uno fra i maggiori esperti europei del settore, che ha tracciato un quadro meno sconfortante rispetto a quello offerto da altri relatori, osservando come vi sia, da parte delle istituzioni interessate, una sensibilità crescente per i temi della conservazione del digitale; una dimostrazione è data dal progetto Erpanet (<http://www.erpanet.org/>), volto a migliorare l'accesso e sviluppare "buone pratiche" per l'archiviazione del patrimonio in formato elettronico. Ross ritiene valide le idee contenute nell'Agenda di Firenze, ed afferma che esse si possono sviluppare anche grazie all'attività di progetti come Erpanet e Delos.

Interessante anche l'intervento di Gianbruno Ravenni, Responsabile del Servizio Biblioteche, Musei e Attività Culturali della Regione Toscana, che accoglie positivamente le proposte dell'Agenda, sottolineando come anche le Regioni siano coinvolte in attività relative alla conservazione delle memorie; i punti in cui questo ruolo si può esercitare sono in primo luogo la produzione standard e di linee guida in quanto filtri per decidere se finanziare o meno un progetto, e quindi la creazione di un vero e proprio "governo dei processi".

Rossella Caffo, Responsabile del Progetto Minerva per il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ha riferito dello stato di avanzamento di questo importante progetto europeo (<http://www.minervaeurope.org/>), che si affianca ai progetti Erpanet e Delos per lo sviluppo di linee guida e raccomandazioni per la digitalizzazione nell'ambito di archivi, biblioteche e musei. Il progetto ha dato vita ad una "rolling agenda", comune a tutti gli stati membri ma attualmente coordinato dall'Italia, la cui prima "azione" è stata rivolta proprio alla conservazione del materiale digitale.

Molto incisivo è apparso l'intervento di Antonia Ida Fontana, Direttore della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che ha sottolineato come la mission delle biblioteche nazionali sia finalizzata alla raccolta e all'offerta delle pubblicazioni prodotte entro il territorio di una nazione: una mission che si mantiene integra anche se i supporti sono diversi da quelli tradizionali. L'avvento del digitale ha tuttavia provocato una serie di problemi di cui tener conto maggiore, fra cui il maggiore è senz'altro quello della selezione, ossia dell'individuazione dei criteri più validi per la conservazione della molteplicità di oggetti digitali oggi disponibili.

Difatti di assoluto rilievo è il problema legato alla visibilità ed alla provvisorietà delle informazioni presenti su Internet: al riguardo la relatrice sottolinea il fenomeno del "deep web", ossia della quantità di siti che non sono ad accesso pubblico, in quanto parte di fanno circuiti commerciali o comunque riservati, e che proprio per questo possono contenere documenti di grande importanza, che sarebbe assai utile conservare. Un'esperienza del tutto opposta è invece quella di Internet Archive (<http://www.archive.org/>), volta a conservare nella misura più ampia tutto ciò che è presente sulla rete Internet; si tratta di un archivio che cresce con un ritmo di 12 terabyte al mese, corrispondente a una mole davvero enorme di informazioni.

D'altra parte occorre rilevare che l'archiviazione effettuata dai tradizionali motori di ricerca non tiene conto delle modificazioni intervenute nell'intervallo di tempo fra due "harvesting", ossia fra due raccolte di dati sulla rete, e che questi motori non sono in grado di raggiungere e indicizzare il "web profondo": entrambi aspetti, afferma la relatrice, che conducono perdite informative assai gravi.

Questi problemi sono acutamente avvertiti dalle biblioteche nazionali, specie nel momento in cui si accingono ad effettuare un'attività di conservazione del patrimonio nazionale in forma digitale: un'attività che non può aver luogo se non sulla base di criteri molto rigorosi, come avviene per l'australiano Pandora Archive, (<http://pandora.nla.gov.au/index.html>), il quale applica in maniera assai rigorosa il principio di selezione.

Sulla base di tali presupposti la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, in collaborazone con il progetto Nedlib (<http://www.kb.nl/coop/nedlib/>), ha dato vita a una procedura che permette il deposito legale di pubblicazioni in formato elettronico; inoltre la BNCF fa parte di un consorzio, insieme con altre grandi biblioteche nazionali e con il progetto Internet Archive, per la creazione di un protocollo comune volto all'archiviazione del web. Difatti, afferma la relatrice, quello della conservazione digitale non è soltanto un problema di mera salvaguardia delle memorie, ma coinvolge una serie di aspetti tecnici molto rilevanti; come istituzione della memoria, la BNCF deve avere una chiara consapevolezza dei problemi, e in questo l'Agenda di Firenze si può rilevare uno strumento prezioso, specie per ciò che attiene alle politiche e alle strategie di lungo termine.

Le conclusioni del convegno sono state affidate a Luciano Scala, Direttore dell'Istituto Centrale per il Catalogo Unico, che nel ringraziare tutti i relatori e il pubblico intervenuto al convegno, ha ribadito l'importanza di questa iniziativa, sottolineando la necessità di mettere in pratica le proposte contenute nell'Agenda di Agenda al fine di dare una risposta efficace e coordinata, da parte delle maggiori istituzioni europee, a un problema così rilevante qual è quello della conservazione del patrimonio in formato digitale.

Michele Santoro, Biblioteca del Dipartimento di Scienze economiche - Università di Bologna, e-mail: santoro@spbo.unibo.it




«Bibliotime», anno VI, numero 3 (novembre 2003)

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