«Bibliotime», anno VII, numero 2 (luglio 2004)


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Il parente povero della pubblicazione



Che le biblioteche siano condizionate dalle diverse forme attraverso cui sono diffuse le informazioni è cosa ovvia e persino banale, essendo da sempre a mutuo contatto con i supporti fisici di queste informazioni, ossia degli unici "beni" che la biblioteca gestisce a vantaggio della propria utenza. Basti pensare al millenario percorso che esse hanno affrontato per averne una chiara riprova: un percorso che ha inizio con le tavolette d'argilla - il più antico supporto scrittorio a noi pervenuto - e che attraversa i lunghi secoli del papiro e della pergamena, fino ad arrivare alla stampa a caratteri mobili e alle odierne forme editoriali, anche immateriali e virtuali; e in questo itinerario le biblioteche sono state costrette ad adattare la propria attività ai diversi supporti con i quali le informazioni sono state disseminate nel corso del tempo, dando vita a conseguenze decisamente rilevanti tanto sulla visione biblioteconomica quanto l'organizzazione bibliotecaria.

Si può peraltro affermare che, con l'avvento della stampa, la vicenda delle biblioteche diventi più complessa da un lato, più semplice dall'altro: complessa perché l'aumento esponenziale dei documenti rende necessari criteri più sofisticati di riconoscimento e di recupero dei documenti (non è un caso se nei secoli successivi all'invenzione di Gutenberg si affermano tanto i cataloghi quanto gli schemi di classificazione); semplificata perché, dal punto di vista dei supporti, tutto si riduce a una sola tipologia "merceologica", quella del libro a stampa. Quest'ultimo infatti, anche se prodotto in diversi formati, si configura come qualcosa di definito e di univoco, e in quanto tale chiaramente gestibile dalle biblioteche: al punto che anche il nuovo, importante strumento che nasce in questo periodo, il periodico, sotto il profilo esteriore non appare per nulla diverso dal formato-libro, non venendo così a incidere sulle modalità di trattamento in biblioteca.

Le cose cambiano, com'è noto, a partire dal secolo diciannovesimo quando, insieme con la nascita della stampa meccanica, si registra la presenza di nuove forme di trasmissione delle conoscenze (brevetti, rapporti tecnici, comunicazioni interne, etc.), la cui affermazione si deve alla necessità di disporre di strumenti agili e svincolati dai tradizionali percorsi editoriali. A ciò si aggiunge lo sviluppo sempre più intenso della comunicazione scientifica, che mette in circolazione una pluralità di materiali volti a soddisfare le esigenze di celerità negli scambi informativi che è propria della scienza moderna.

Ed è per questo che, alla fine dell'Ottocento, i due avvocati belgi Otlet e La Fontaine avvertono come qualcosa di vitale e di improrogabile la costruzione di un archivio che sia in grado di raccogliere e indicizzare tutte le pubblicazioni fino ad allora prodotte: una scommessa, come sappiamo, che riuscì secoli prima a Conrad Gesner, ma che non può essere vinta dai due generosi ma utopistici avvocati, proprio a causa della immensa mole di pubblicazioni che già alla loro epoca si è accumulata.

Il tentativo tuttavia rimane di grande interesse non solo perché dimostra l'esigenza di pervenire a ciò che in seguito si sarebbe chiamato "controllo bibliografico universale", ma proprio perché mette in rilievo la quantità e la diversità delle forme di pubblicazione esistenti: le categorie merceologiche infatti si sono moltiplicate a dismisura, dando vita a non pochi problemi di gestione per le biblioteche. Non è un caso dunque se proprio in questo periodo si assiste alla nascita di nuove strutture, dotate di criteri di organizzazione e di gestione decisamente diversi rispetto alla consolidata tradizione biblioteconomica: ci riferiamo alle biblioteche speciali e ai centri di documentazione, il cui avvento determina una rilevante divaricazione fra il tradizionale approccio bibliotecario e le nuove e più duttili forme di trattamento che queste strutture mettono in atto.

Peraltro tale situazione è destinata a complicarsi ulteriormente a partire dal secondo dopoguerra, non solo per la presenza di strumenti editoriali sempre più sofisticati, ma proprio per la diffusione di inedite forme di comunicazione tecnica e scientifica, le quali rimettono in discussione i criteri di gestione - tradizionali e non - che biblioteche e i centri di documentazione hanno finora messo in campo: la proliferazione della letteratura non convenzionale (o "grigia", come da allora si chiamerà) è infatti tale da richiedere tecniche di organizzazione e di distribuzione innovative e d'avanguardia, e in quanto tali capaci di mobilitare l'interesse di bibliotecari e studiosi.

Ed è proprio a questo livello che si colloca la riflessione di Luisella Goldschmidt-Clermont, bibliotecaria al CERN di Ginevra, che già nel 1965 comprende la necessità di dare ordine alla pluralità di strumenti che gli scienziati producono con velocità e intensità crescenti, fino a ipotizzare un'organizzazione che sia in grado di trattare e diffondere, in tempi sempre più rapidi, questo fondamentale materiale documentario. L'autrice così condensa queste osservazioni in un articolo che, per motivi misteriosi, resterà inedito per più di tre decenni, finché verrà recuperato da un gruppo di studiosi del CERN e pubblicato sulla rivista elettronica di questa istituzione. Il presente numero di "Bibliotime" pubblica ora la versione italiana di questo articolo, curata da Fiorella Paino con la supervisione di Antonella De Robbio, la quale correda il testo di una interessante nota esplicativa.

L'importanza di questo contributo risiede nella visione decisamente anticipatrice che Luisella Goldschmidt-Clermont manifesta riguardo alle numerose forme di letteratura (convenzionale e non) prodotte in ambito scientifico, ed alle possibilità di una loro diversa organizzazione e distribuzione. L'autrice - ci tiene a precisarlo - è una sociologa di formazione, che si è trovata ad operare in un ambito assai particolare qual è quello della fisica delle alte energie: anche se, come sottolinea esplicitamente, il suo "scopo" non è certo "la scienza pura, ma il servizio". Ed è proprio in questa ottica di servizio che l'autrice prende in esame le varie forme documentarie che in questo ambiente vengono prodotte, mettendone in luce le caratteristiche specifiche e la loro rilevanza ai fini della comunicazione scientifica: una comunicazione che, proprio per le sue finalità, deve essere il più possibile celere e dinamica, e deve quindi adottare tattiche di disseminazione che si differenziano in modo sostanziale da quelle canoniche.

Così, in uno stile brillante e ricco di metafore, Luisella Goldschmidt-Clermont intreccia i temi della ricerca scientifica con quelli della necessità di una rapida comunicazione dei suoi risultati, associandovi gli aspetti tipicamente biblioteconomici del trattamento, dell'organizzazione e della diffusione di questi documenti.

L'autrice ci presenta dunque una serie interessante e diversificata di prodotti: dalle lettere che gli studiosi si scambiano reciprocamente ai più tradizionali articoli su periodici scientifici e tecnici, dalle informazioni inviate agli editors di tali periodici ai cosiddetti letter-journals, riviste cioè che raccolgono appunto queste forme di comunicazione. Ma sono presi anche in esame i reports, le lecture notes, i rapporti interni, gli abstract-journals, fino ad arrivare ai preprints, ossia quei contributi che gli autori inviano ai periodici per la pubblicazione "ufficiale", ma che sono comunque immessi in modo informale nel circuito comunicativo allo scopo di "colmare il gap di tempo creato dai ritardi del processo di pubblicazione".

Ed è proprio questa forma documentaria (una sorta di "parente povero della pubblicazione", per dirla con l'autrice) ad attirare le critiche maggiori: da più parti infatti i preprints vengono accusati "di essere usati in maniera non appropriata come strumenti per la costituzione di priorità non eque". Siamo di fronte a un aspetto - quello dei riconoscimenti accademici dei risultati delle ricerche - di rilevanza essenziale per l'ambito scientifico, e intorno al quale nei decenni successivi si innescherà un'accesa discussione, volta a stabilire la validità dei preprint in formato elettronico proprio a scopi di accreditamento e di acquisizione di priorità: un argomento che la nostra bibliotecaria ha anticipato di almeno tre decenni.

Ma non è solo in questo che si manifesta la visione acuta e lungimirante di Luisella Goldschmidt-Clermont, se è vero che essa tende a inquadrare le diverse forme di pubblicazione scientifica nel più vasto contesto dell'organizzazione bibliotecaria. L'autrice infatti non solo intravvede una diversa gestione di tali materiali a seconda del tipo di biblioteca (generale, cioè di facoltà o di ateneo, o specializzata, cioè di dipartimento o laboratorio) che sia in grado di accoglierli, ma si spinge a ipotizzare una "rete" a livello internazionale che consenta un adeguato trattamento bibliografico ed una ottimale disseminazione di queste forme documentarie. Ed è per questo che Antonella De Robbio ritiene che la priorità del famoso server "ArXiv", che di Paul Ginsparg ha creato nel 1991 rendendo possibile l'archiviazione di preprint in formato elettronico, debba quanto meno essere ridiscussa alla luce delle idee che emergono dal contributo della bibliotecaria del CERN.

Ma l'aspetto forse più importante, e quello che più resta impresso, è proprio l'attitudine squisitamente bibliotecaria che emerge da questo articolo, dal momento che l'intera l'analisi di Luisella Goldschmidt-Clermont, come si è visto, è connotato da un forte spirito di servizio e da una speciale attenzione agli utenti, che sono poi gli elementi distintivi ogni valida realtà bibliotecaria.


Michele Santoro




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