«Bibliotime», anno XV, numero 1 (marzo 2012)

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Riccardo Ridi

Documenti e raccolte: molteplicità e complessità delle pressioni sociali



Abstract

The basic factors on the basis of which a particular social group considers as "documents" some objects are manifold and variable. To them belong both the possible communicative intentions of their authors and the possible inclusion in institutional collections of objects with similar characteristics (often called libraries, archives or museums). Of these factors, also definable as "social pressures", an illustrative list is proposed.

Recentemente sia Alberto Salarelli (nel suo ultimo libro [1]) che Claudio Gnoli (in questo stesso numero di "Bibliotime" [2]) hanno correttamente ricordato come, nonostante le "istituzioni della memoria" (archivi, biblioteche e musei, ma anche cineteche, mediateche, centri di documentazione, ecc.) giochino un importante ruolo nell'individuazione di ciò che una determinata società (in un determinato momento storico) sceglie di trattare come un "documento" degno di costose attenzioni in termini di conservazione, catalogazione e valorizzazione, esistano peraltro certe categorie di manufatti che "nativamente" si propongono come documenti, in quanto appositamente creati per veicolare informazioni. Tali documenti "nativi" (come li chiama Gnoli) o "umani intenzionali" come li chiamo io [3] non avrebbero quindi bisogno dell'avallo delle istituzioni della memoria (ovvero dei loro responsabili ed operatori) per essere considerati tali, ma imporrebbero autonomamente erga omnes la propria natura documentaria o, per meglio dire, avrebbero già ricevuto dalla società una sorta di "certificazione di documentalità" nel momento stesso in cui sono stati creati, e non avrebbero più bisogno di superare ulteriori esami per vedersi riconosciuta tale caratteristica.

A prima vista ciò parrebbe contraddire tanto il mio "principio di indeterminazione documentaria", secondo il quale, sulla scorta di Suzanne Briet [4] e di Michael K. Buckland [5], "ogni osservatore crea i propri documenti" [6], p. 17] poiché "tutto, potenzialmente, può essere considerato documento, ma è solo quando emerge una specifica volontà di utilizzare, fruire, studiare, conservare una determinata entità come fonte di informazioni che tale entità, osservata sub specie documenti, diventa davvero un documento" [6], p. 16] quanto la "potenza costitutiva dei luoghi" evocata da Paola Rescigno [7], che permetterebbe alle istituzioni della memoria (ma anche alle aste e alle esposizioni temporanee) di effettuare delle vere e proprie "mutazioni epistemologiche", modificando lo sguardo di chi ne osserva i contenuti e trasformando così istantaneamente in opere d'arte, reperti archeologici o documenti naturalistici oggetti che, se collocati altrove, nessuno percepirebbe come tali.

La contraddizione è però solo apparente, per almeno due motivi. Prima di tutto l'approccio "relativista" e "postmoderno" [8] (gli aggettivi sono di Gnoli, ma non mi tiro indietro, accettandoli anzi molto volentieri) al concetto di documento insito nel principio di indeterminazione documentaria vale soprattutto a livello concettuale e filosofico, mentre a livello pragmatico e sociale non ho difficoltà ad ammettere che esistano numerosi fattori che suggeriscono (o talvolta addirittura impongono) di considerare qualcosa come un documento a prescindere dalle opinioni di chi gestisce archivi, biblioteche e musei. Inoltre, poiché le pratiche sociali che coinvolgono i documenti sono innumerevoli [9] e non esiste un soggetto unico adibito a censirle e confrontarle, emettendo infine per ogni oggetto esistente un verdetto inappellabile di maggiore o minore "documentalità", c'è senz'altro posto, fra le molteplici spinte sociali volte a far percepire come documenti certe categorie di oggetti, tanto per quelle a priori relative alle caratteristiche formali e alle finalità per cui gli oggetti stessi sono stati creati quanto per quelle a posteriori relative sia alla valutazione dell'eventuale utilità sociale di una loro conservazione e catalogazione da parte degli istituti della memoria che ad ulteriori valutazioni operate da altre istituzioni "documentalizzanti" come le università, i tribunali, le case editrici, ecc.

Per decidere se una determinata entità vada considerata un semplice oggetto d'uso oppure veicoli informazioni sufficientemente significative per essere inclusa nella classe dei documenti va quindi presa in considerazione sia l'intenzione di chi ha prodotto l'oggetto stesso (come ci ricordano Salarelli e Gnoli) che la valutazione di chi è deputato a selezionare, conservare, catalogare e mettere a disposizione della società una serie di oggetti simili a quello sotto esame (come abbiamo ricordato Rescigno ed io), ma contano anche tanti altri impulsi, pressioni e decisioni sociali, fra cui, ad esempio:

Inoltre io credo che vada lasciato un po' di spazio e di peso anche per le scelte personali (comunque studiabili, se cumulate in grandi quantità, dalla sociologia) di chi desiderasse conservare, ordinare e catalogare privatamente anche una qualsiasi serie di "oggetti-ricordo" di qualsiasi foggia e natura che in qualche modo (anche tramite le più bizzarre ed incomunicabili associazioni di idee) "documentino" persone, luoghi, eventi o esperienze della propria vita e delle proprie attività.

Credo che risulti dunque piuttosto chiaramente che, a causa delle molteplici pressioni sociali agenti sui "documenti potenziali", la funzione "costitutiva" delle istituzioni della memoria possa agire su di essi talvolta con maggiore e talvolta con minore potenza ed efficacia. Per decidere che un libro regolarmente pubblicato e distribuito da un prestigioso editore vada inserito nelle collezioni di una biblioteca ci vuole meno "potenza costitutiva" che per stabilire che una poltrona dal design particolarmente elegante e innovativo possa essere acquisita ed esposta da un museo di arte contemporanea.

La molteplicità delle pressioni sociali e l'intuibile complessità del loro reciproco intrecciarsi, combinate con la poliedricità delle funzioni (giuridiche, storiche, scientifiche, didattiche, ricreative, politiche, artistiche, pubblicitarie, ecc.) svolte dai documenti, impone anche qualche cautela nel recepire la pur sensata dicotomia fra le istituzioni della memoria proposta da Gnoli basandosi sul genere di documenti conservati nelle relative raccolte: da una parte "quelle che conservano (almeno prevalentemente e come scopo principale) documenti portanti in sé fin dall'origine una propria natura espressiva, come le biblioteche o le gallerie e i musei d'arte" e dall'altra "quelle che conservano oggetti di altra natura, solo successivamente assunti quali veicoli di conoscenza, come i musei archeologici e naturalistici e gli archivi" [2].

L'appartenenza di un determinato oggetto alla classe dei "documenti nativi" non è infatti sempre indiscutibile e permanente, ovvero: un conto è asserire che tale classe esista (e su questo concordo con Gnoli), un altro essere certi che tutti saremmo sempre d'accordo sul fatto che un certo oggetto vi appartenga o meno (e su questo punto ho l'impressione che lui sia più ottimista di me). Un animale impagliato o imbalsamato, ad esempio, va considerato come un documento umano intenzionale, in quanto è stato trattato da un artigiano appositamente per essere esposto in un museo o in una abitazione, oppure come qualcosa di originariamente indipendente da qualsiasi attività documentaria più o meno umana (un animale vivo e vegeto che scorrazza per il bosco) e quindi un tipico "documento non intenzionale", a cui solo lo sguardo del naturalista, la "potenza costitutiva" del museo ed il trattamento dell'artigiano aggiungono una dimensione documentaria? E un certificato di nascita o una lista della spesa non sono forse perfetti esempi di "documenti umani intenzionali", contenenti informazioni appositamente codificate e registrate da appartenenti alla nostra specie affinché altri esseri umani (o i loro stessi estensori) potessero successivamente decodificarle, anche se Gnoli colloca gli archivi che li raccolgono fra le istituzioni "che conservano oggetti [...] solo successivamente assunti quali veicoli di conoscenza"?

Inoltre un documento "non intenzionale" come un coltello, originariamente prodotto per tagliare e non per comunicare, ma utilizzato dagli storici per documentare la cultura che lo ha ideato e utilizzato e - di conseguenza - conservato in un museo archeologico, potrebbe rivelarsi "anche" intenzionale se scoprissimo che qualcuno ha inciso un testo o delle immagini sulla sua lama. Oltretutto, per complicare ulteriormente il quadro, bisogna ricordarsi che tanto la condizione di "documento intenzionale" che quella di "documento non intenzionale" possono essere intermittenti, ovvero non essere continuativamente attribuibili al medesimo oggetto nel corso del tempo perché, banalmente, una lavagna può essere riempita di segni e poi cancellata, oppure perché, meno banalmente, come ha scritto il filosofo statunitense Nelson Goodman nel suo libro del 1978 Ways of worldmaking, "un tratto saliente della simbolizzazione [...] è che può andare e venire. Un oggetto è capace di simboleggiare cose differenti in periodi differenti, e in altri magari non essere simbolico affatto. Un oggetto inerte, un oggetto puramente d'uso, può giungere a funzionare come un'opera d'arte, e così un'opera d'arte a funzionare come un oggetto inerte, un oggetto puramente d'uso" [10].

Infine non solo i singoli documenti, ma anche le loro raccolte, assumono spesso fisionomie ibride, mutevoli o comunque difficilmente classificabili rispetto all'opzione "intenzionale vs. non intenzionale". Nei musei storici e archeologici vengono infatti abitualmente ospitati documenti sia intenzionali (lapidi, steli funerarie, ecc.) che non intenzionali (utensili, armi, vestiti, ecc.) o di dubbia attribuzione (in una moneta o in un francobollo prevale la funzione d'uso o quella comunicativa?). E, in un museo naturalistico, accanto a documenti sicuramente né umani né intenzionali come fossili e cristalli, non possono trovare posto anche documenti in cui l'intenzionalità umana contribuisce almeno parzialmente (animali impagliati e imbalsamati) o integralmente (ricostruzioni ipotetiche di dinosauri ed altri animali estinti)? Ma, allora, piuttosto che di due distinte tipologie di istituzioni della memoria, non sarebbe più utile parlare di raccolte documentarie orientate in misura maggiore o minore verso i documenti "nativi", senza teorizzarne una netta dicotomia? Aggiungendo magari che man mano che i documenti "nativi" diventano prevalenti, diminuisce proporzionalmente la "potenza costitutiva dei luoghi"?

Riccardo Ridi, Dipartimento di studi umanistici - Università Ca' Foscari, Venezia, e-mail: ridi@unive.it


Note

[1] "Riccardo Ridi scrive che 'in ambito documentario, per non cadere in un soggettivismo radicale difficilmente controllabile, è auspicabile (e di fatto è ciò che in linea di massima avviene) che nella decisione relativa a cosa vada considerato un documento venga assegnato un peso importante a pratiche socialmente condivise, come ad esempio la catalogazione e conservazione da parte di enti specializzati come biblioteche, archivi, ecc.' (La biblioteca come ipertesto, cit., p. 16-17). Ciò è senz'altro vero, ma anche la dinamica contraria deve essere tenuta in considerazione. Vale a dire che una di queste pratiche sociali - la biblioteconomia - privilegia documenti ideati per essere fatti circolare come veicolo delle idee dell'autore, dunque in quanto tali già percepiti nel loro valore documentale dalla società" (Alberto Salarelli, Biblioteca e identità: per una filosofia della biblioteconomia, Milano, Editrice Bibliografica, 2008, p. 126, n. 23).

[2] Claudio Gnoli, Due categorie di documenti e raccolte: il contributo dell'ontologia, "Bibliotime", 15 (2012), 1, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-xv-1/gnoli.htm>.

[3] Riccardo Ridi, Il mondo dei documenti: cosa sono, come valutarli e organizzarli, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 101-104.

[4] Suzanne Briet, Qu'est-ce que la documentation, Paris, EDIT, 1951; dal 2008 disponibile integralmente anche a <http://martinetl.free.fr/suzannebriet/questcequeladocumentation/>. La traduzione inglese What is documentation?, translated and edited by Ronald E. Day and Laurent Martinet with Hermina G. B. Anghelescu, Lanham-Toronto, The Scarecrow Press, 2006 è integralmente disponibile dal 2008 anche a <http://ella.slis.indiana.edu/~roday/briet.htm>.

[5] Michael K. Buckland, What is a "document"?, "Journal of the American society for information science", 48 (1997), 9, p. 804-809; disponibile anche, in versione pre-print, a <http://www.ischool.berkeley.edu/~buckland/whatdoc.html> e ristampato in Historical studies in information science, edited by Trudi Bellardo Hahn and Michael Buckland, Medford, Information Today, 1998, p. 215-220.

[6] Riccardo Ridi, La biblioteca come ipertesto: verso l'integrazione dei servizi e dei documenti, Milano, Editrice Bibliografica, 2007.

[7] Paola Rescigno, Archivi, biblioteche, musei: potenza costitutiva dei luoghi, "Bibliotime", 12 (2009), 3, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-xii-3/rescigno.htm>.

[8] Approccio al quale, del resto, parrebbe aderire lo stesso Salarelli quando sostiene che "il materiale diventa documento per chi sappia riconoscere in esso il supporto di un sistema segnico" (p. 22) e che "il ricercatore dunque è il vero artefice del documento in rapporto al proprio interesse, alla propria cultura: dieci differenti analisi, dieci documenti, ma un solo 'oggetto'" (p. 19), nel volume scritto insieme ad Anna Maria Tammaro La biblioteca digitale, 2a edizione, Milano, Editrice Bibliografica, 2006.

[9] Tanto che il filosofo di scuola ermeneutica Maurizio Ferraris ha recentemente elaborato un'intera teoria del mondo sociale basata su entità denominate "tracce", "registrazioni", "iscrizioni", "documenti" e "opere", anche se non sempre esattamente corrispondenti a ciò che comunemente viene associato a tali termini negli ambienti archivistici, bibliotecari e museali; cfr. Maurizio Ferraris, Documentalità: perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, Laterza, 2009.

[10] Nelson Goodman, Vedere e costruire il mondo, traduzione di Carlo Marletti, introduzione di Achille C. Varzi, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 82-83.

Gli URL sono stati verificati fino al 18 febbraio 2012.




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