[AIB]AIB. Sezione Toscana. Bibelot, n. 1 (2006)

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Biblioteca in semilibertà

Intervista a cura di Elisabetta Francioni

Nelle biblioteche italiane lavorano oggi, oltre ad una fitta schiera di cosiddetti "atipici" (che stanno diventando la maggioranza, rispetto al personale stabile), una serie di nuove figure: volontari, giovani in servizio civile, tirocinanti e stagisti di corsi di laurea e master in beni culturali, studenti delle 150 ore, disabili in inserimento terapeutico, detenuti in regime di semilibertà. Claudio C. appartiene a quest'ultima categoria. Siamo andati a trovarlo alla Biblioteca di scienze sociali dell'Università di Firenze, nel nuovo Polo di Novoli, dove presta servizio da quasi un anno.

Eccolo in mezzo agli scaffali, dove è intento a spostare una grossa collana di testi giuridici. Gli studenti che cercano un libro andato fuori posto chiedono spesso aiuto a lui, che trova tutto ed è gratificato di questo ruolo: a vederlo, coi jeans a vita bassa e qualche tatuaggio sulle braccia, si fatica a non scambiarlo per uno di loro. Quarant'anni, origini sarde, due figli, Claudio ha trascorso gran parte della sua vita prima in collegi e riformatori, poi in carcere. Da qualche anno ha intrapreso un percorso difficile ma sempre più consapevole che lo ha portato alla fede, ad un lavoro fuori dal carcere, alla lettura assidua e alla scrittura (ma sulle sue poesie, che hanno riscosso l'interesse di due editori e di cui pochi sanno, sorvola con gelosa timidezza: «sono qui per lavorare, non per fare l'intellettuale»).

Hai scelto tu di lavorare in biblioteca?

Me lo ha proposto la Cooperativa sociale "Panglos" [costituita da soci volontari del Centro di documentazione "L'altro diritto", ndr], che si occupa di reperire opportunità lavorative per i detenuti; vieni assunto da loro, che stipulano una convenzione con la struttura che ti accoglie. Ho accettato subito perché amo i libri. La Biblioteca di Scienze sociali è un posto ambito, una struttura bella e funzionale dove mi sono sentito subito parte di un gruppo, nel senso che c'è il lavoro ma anche il rapporto umano. Sono entrato a lavorare qui il 1° aprile del 2005 ma purtroppo, per carenza di fondi della biblioteca, dovrò andarmene dopo neanche un anno.

Prima di quest'ultima, avevi fatto altre esperienze di inserimento lavorativo?

Sì, il mio primo lavoro è stato in un ufficio privato dove ho fatto il segretario per 2 anni. Un'esperienza importante perché uscivo per la prima volta, ma limitata: una stanza, un'unica collega di lavoro. Poi ho fatto il volontario alla Biblioteca dell'Isolotto, per un anno. Lì c'era un gran via vai di utenti e i bibliotecari avevano parecchio da fare: io mi ritrovavo tanti carrelli pieni di libri restituiti e li dovevo mettere a posto. L'ambiente non era male, ma coi colleghi non sono riuscito a ridurre i paletti: ognuno faceva il suo, nessuna diffidenza però ciao e ciao, come va, niente di più. Mi sembrava che mi guardassero come un superficiale, perché sono un tipo allegro e mi piace scherzare (come dire: «ma che ha da scherzare, questo?!»); insomma, un'esperienza non del tutto riuscita. Ma sicuramente dipendeva anche da me: i primi giorni di semilibertà piangevo al semaforo, ora sono più sciolto.

Attualmente dove stai?

Al Carcere Santa Teresa-Sezione di semilibertà, un ex-convento in via della Mattonaia. È una struttura carceraria piccola, per poche persone: lavoriamo tutti all'esterno e dobbiamo rientrare entro le 22; chi fa un lavoro serale (ad es. il pizzaiolo) rientra a mezzanotte. Diciamo che è un posto dove "si va a dormire": tutto sommato non sto malissimo, ho una stanza tutta per me che ho riempito di libri, anche perché non c'è una biblioteca. Chi esce ha una serie di regole da rispettare, molto precise e un po'. buffe (non andare in "luoghi malfamati", non intrattenersi con "persone sospette".!); inoltre sei sempre sotto monitoraggio: devi fare dei colloqui periodici con la psicologa del carcere.

Raccontaci la tua giornata.

Esco la mattina alle 7 e mezza e vengo qui a lavorare. Ho iniziato con 8 ore, che poi mi sono state ridotte a 4. Al pomeriggio me ne vado in giro a fare le cose normali che fanno tutti, e la sera vedo gli amici. Lo stipendio è discreto, spese grosse non ne ho: niente affitto, niente bollette. Stando a quanto si sente dire a volte dalla gente («stanno benissimo, hanno anche la televisione») dovrei dire di stare proprio bene! La realtà naturalmente è diversa: alle 22 smetto di essere libero.

In quali altre strutture carcerarie sei stato?

Sono entrato in carcere che avevo 26 anni e nell'arco di 15 anni ne ho girato diversi, tra cui San Vittore e Opera a Milano, poi Alessandria, Spoleto, infine Firenze. Il peggiore è stato Spoleto: una tomba, un posto in cui applicavano le norme in maniera rigida, nessuno aveva lavoro all'esterno, c'era una biblioteca ma non era molto accessibile. Insomma, ti annullavi come persona stando passivamente davanti alla TV, a farti rovesciare addosso la spazzatura del mondo. Io, siccome già allora leggevo molto, ero quello a cui gli altri si rivolgevano per scrivere le istanze e le lettere alle varie istituzioni: ero diventato lo scrivano di tutti. Il mio incontro coi libri è avvenuto qui, grazie ad una professoressa di Lettere che ci faceva scuola, ed è stata un'esperienza meravigliosa perché ho scoperto la letteratura. Attraverso i libri ho iniziato un mio percorso, in cui la sofferenza mi ha come cambiato pelle e da disvalori ho conosciuto valori. Il direttore del carcere ha creduto in me e ho avuto il trasferimento a Firenze, a Sollicciano.

E a Sollicciano c'era una biblioteca?

Sì, c'è una biblioteca con del buon materiale, organizzato per sezioni (letteratura italiana, storia, ecc.): il direttore dell'Area trattamentale (il dottor Politi, ancora in carica) era una persona molto in gamba, che ordinava libri nuovi. Questa non è una cosa marginale, perché spesso la biblioteca del carcere è fatta di libri vecchi e polverosi, libri di cui qualcuno si è disfatto, che non hanno il minimo interesse per della gente rinchiusa che ha fame e curiosità di sapere, di leggere cose nuove e aggiornate.

I detenuti potevano recarsi liberamente in biblioteca e scegliere cosa leggere?

No, i libri dovevano essere richiesti e poi venivano recapitati in cella. Io però quest'opportunità di scelta ce l'avevo perché in biblioteca ci lavoravo, insieme ad altri due compagni.

Com'era organizzato il vostro lavoro?

Uno stava al computer per la catalogazione; gli altri due sistemavano i libri, mettevano da parte i titoli richiesti per la distribuzione, ecc. Nelle celle passavo io: c'erano persone veramente interessate che aspettavano un libro particolare; altre volte io i libri li rifilavo proprio, anche se non richiesti; oppure alcuni me li chiedevano addirittura per metterli sotto la testa, a mo' di cuscino. Ci si scambiavano anche impressioni sulle letture fatte: era un momento di socializzazione, in cui magari ti fermavi a prendere un caffè in una cella. Nella Sezione Speciale, invece, i libri li portava una guardia: noi non potevamo accedere.

Che cosa ricordi, in particolare, di quell'esperienza?

Innanzitutto i tantissimi libri che potevo tenermi in cella; poi il regolamento interno cambiò e più di 3 libri per volta non erano concessi. Questa per me era la cosa più incredibile: ti stavi appassionando a un argomento, magari trovavi delle citazioni di altri libri e non potevi andare a vederli! Tre libri sono la visione di chi sta «dall'altra parte» e non capisce cosa può voler dire una limitazione del genere; per me saltare da un libro all'altro era come fare un viaggio: a volte passava la guardia e mi chiedeva: «Dove sei, Claudio?» - e io: «In Russia, con Anna Karenina!». Ma a parte questo, la cosa più importante a Sollicciano era che la biblioteca fungeva da centro di aggregazione. Avevamo costituito la Commissione dei detenuti che organizzava il torneo di calcio, un fondo di sostegno finanziario per chi non aveva nulla e il giornale "Gutenberg", che alla fine del '99 hanno cercato di stroncare perché era troppo libero e non andava giù alla direzione del carcere [www.altrodiritto.unifi.it/gutenber/presenta.htm, nuova serie: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/gutenber/index.htm, ndr]. Un'altra cosa che mi ricordo di Sollicciano era la luce, che non potevamo accendere autonomamente: te la accendevano loro da fuori, eri quasi sempre al buio. A volte leggevo sfruttando uno spicchio di luce naturale, che dal balconcino penetrava in uno degli angoli della cella. Ora, invece, posso leggere anche tutta la notte, se mi va.

Che cosa pensi del bibliotecario in carcere, come figura professionale stabile?

In alcune regioni le strutture carcerarie hanno assunto un esterno, ma sono casi rari. Io vedrei bene la formazione degli stessi detenuti, che diventerebbero bibliotecari interni ma con la prospettiva di un inserimento lavorativo una volta usciti.

Pensi che la lettura possa essere un mezzo, come si dice, di "recupero" per chi sta in carcere?

In carcere si può leggere per piacere oppure per noia, per far passare il tempo. Per me, come ti ho detto, i libri sono stati parte di un percorso più ampio, globale, che si è portato appresso anche la scrittura: un mezzo per rappresentare le mie emozioni, per ripensare la mia vita.

A te i libri in carcere sono serviti anche per prendere un titolo di studio?

No, non ho mai voluto studiare: non amo le briglie, né leggere in modo schematico. Avevo conseguito la terza media in Germania, ma il titolo in Italia non valeva: quindi ho dovuto rifare un anno di scuola in carcere, a Spoleto.

Il tuo rapporto di lavoro con la Biblioteca di scienze sociali sta per terminare. Cosa farai, dopo?

Se non trovo qualcos'altro ho intenzione di continuare a venire qui come volontario, perché mi piace. Com'era il titolo di quel film? A volte ritornano.


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Copyright AIB 2006-05-21, ultimo aggiornamento 2006-06-19 a cura di Vanni Bertini e Paolo Baldi
URL: https://www.aib.it/aib/sezioni/toscana/bibelot/0601/b0601g.htm


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