Di solito concludo sempre invitando tutti a essere molto buoni, ma questa
volta mi pare di essere stato preceduto, e con ben altra sostanza
di discorso, da Igino Poggiali. A questa richiesta di eticità
ha infatti saputo dare un solido impianto con l’ipotesi di lavoro dell’AIB
di cui è presidente, ponendo i principi della deontologia professionale
anche come punto di riferimento dell’ipotesi di legge quadro, e condensando
poi tutto questo in un fondamentale concetto: quello del superamento
dell’idea della pubblica lettura come un fatto assistenziale. Mi
è molto piaciuto anche il suo richiamo ai diritti dell’infanzia,
che riporta alla questione della centralità dell’utenza, rimasta
forse quest’anno un po’ sullo sfondo rispetto alle ultime edizioni del
nostro Seminario.
A me sembra che negli ultimi due anni il lavoro della multimedialità
nella biblioteca sia cresciuto in maniera impressionante, e che quindi
ormai esista, sia pure a pelle di leopardo, una notevole competenza
in quest’area; è una competenza che però si esprime in termini
di estrema separatezza delle azioni, senza cioè quel senso di comunità
che mi pare fosse ben presente al tempo della fondazione della pubblica
lettura in Italia. Noi abbiamo avuto un grande periodo, tra il 1975 e il
1985, in cui sono state create 2000 biblioteche di pubblica lettura come
conseguenza delle deleghe dallo Stato alle Regioni in materia di beni librari:
in quel periodo esisteva una sorta di comunità dei bibliotecari,
e la stessa comunità c’era quando abbiamo avviato la discussione
sulla cooperazione interbibliotecaria e sulla nascita di SBN. Direi anzi
che una delle conquiste culturali di SBN è proprio quella di aver
creato una mentalità della cooperazione che è anche una mentalità
di scambio, di correlazione tra bibliotecari.
Ebbene, quando noi spostiamo il nostro discorso sul lavoro nella
rete, rileviamo paradossalmente che là dove abbiamo il massimo della
comunicazione abbiamo anche il minimo di comunione: ognuno cioè
si inventa la sua strada, il suo piccolo lavoro, la sua soluzione ad un’area
problematica sulla quale si cimenta. Credo che questo sia soprattutto la
conseguenza del desiderio di imparare a lavorare con questo strumento,
ma mi pare sia ora di alzare la testa, di guardare che cosa fanno gli altri
e cercare di non ripetere, di non reinventare quello che è
già stato inventato altrove.
C’è stato un richiamo molto interessante di Ariane Iljon
a costruire sul passato per gestire il futuro, al quale direi che sono
state date, in qualche modo, anche delle risposte: penso soprattutto all’intervento
di Gianna Landucci o a quello di Riccardo Ridi, che hanno riaffermato
alcuni elementi fondativi della nostra professione, ricordando l’assoluta
continuità del nostro lavoro e la necessità dunque di applicare
quelle che sono le regole del gioco, anche in presenza di una nuova strumentazione.
Ariane Iljon ha chiesto anche che fosse dato più potere all’utente
e ha sottolineato come la scarsa domanda di buoni servizi in quest’area
esiga probabilmente anche un maggiore impegno nell’educazione del pubblico,
in modo da avere anche la sua spinta per un servizio migliore.
Penso quindi che queste siano le cose su cui occorrerà lavorare:
ricostruire una comunicazione fra tecnici che ci consenta di operare realmente
tutti quanti insieme; tenere sempre in evidenza la centralità dell’utente
come la finalità stessa del nostro lavoro; confidare negli
strumenti più collaudati della nostra professione, semplicemente
adattandoli all’evoluzione in atto.
Credo che in tutto quanto questo dobbiamo essere capaci di diventare
noi stessi classe dirigente, per riuscire a formare una classe dirigente
in grado di ragionare sulla necessità strategica di adeguati investimenti
per quello che riguarda non solo le reti e le attrezzature, ma anche
la notevole spesa corrente necessaria per il caricamento dei dati,
senza la quale reti e attrezzature servono a ben poco.
Sulla falsariga della storia ricostruita da Gianna Landucci, si potrebbe
qui ripensare a come è stata condotta la spesa in questi ultimi
vent’anni nell’area dei beni culturali per evitare con cura alcune
esperienze, dall’occupazione giovanile ai giacimenti culturali. Mi sembra
che si sia speso molto in direzione assistenziale e in direzione del finanziamento
grazioso al privato, e si è visto quanto ciò fosse sbagliato;
si tratta ora di autonomizzare le strutture di servizio, di dotarle di
adeguati strumenti finanziari e di obbligarle a far crescere
la formazione degli operatori, l’aggiornamento professionale dei bibliotecari
e più in generale a ogni tipo di addetti.
Altro non aggiungo, ma credo che la prosecuzione di questo lavoro,
cioè il seminario dell’anno prossimo, dovrà tenere conto
di questo tipo di indicazioni, cercando di riportare a questo punto il
discorso in sede politica: non più dunque nell’area del lavoro dei
bibliotecari, ma in quella del lavoro di chi governa, ai vari livelli di
competenza, e di chi fruisce dei servizi. Questi sono i due elementi su
cui credo dovremo spostare la nostra attenzione, per lavorare strettamente
con gli utenti da un lato e con i gestori della spesa pubblica dall’altro.