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"17. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
conservare il futuro

Tavola rotonda
Consumare il presente o conservare il futuro?

Andrea Granelli, Consigliere del Ministro per i Beni e le Attività culturali


Mi occupo di nuove tecnologie e di processi legati all'innovazione e sono probabilmente il meno esperto di problematiche archivistiche. Ciò mi permette di affrontare il tema oggetto del Convegno da una prospettiva diversa, più legata agli scenari aperti dal dirompente sviluppo della tecnica e dal suo entrare in ogni aspetto della nostra vita, anche quella culturale.
Vorrei quindi riportare, per un momento, la discussione sugli scenari legati ai grandi temi della conservazione e della valorizzazione del patrimonio culturale resi possibili dalla nuova ondata di tecnologie digitali.
Leggendo il titolo del Convegno, volutamente provocatorio, sono stato stimolato (e mi sono esercitato) nel provare a trovarne uno simile - una sorta di 'contro titolo' - che mi aiutasse però a introdurre il mio intervento. Più che 'conservare il presente o conservare il futuro', io tenderei a dire 'progettare il futuro vivificando il passato e contestualizzandolo al presente'.
Mi spiego meglio. Ritengo che oggi il vero tema sia non tanto la conservazione del futuro ma la sua progettazione, il suo orientamento. Gary Hamel della London School of Economics, affermò una volta che "il miglior modo per prevedere il futuro è (...) costruirlo". Questa affermazione è sempre stata vera (per chi crede nel libero arbitrio...) ma diventa ancora più importante, una sorta di imperativo categorico, quando si vive in una scenario in cui il futuro è particolarmente incerto. E questo è proprio lo scenario in cui stiamo vivendo, dove i cambiamenti economici e sociali che vanno sotto il nome di de-industrializzazione ed economia post industriale richiedono davvero un ruolo attivo nel provare a costruire un futuro. Per citare una famosa massima di Paul Valèry, "il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta". La rinuncia a questo compito, un vero dovere dell'uomo contemporaneo, che non va confuso con l'arroganza della tecnica esposta alla ubris divina, è un vero pericolo, quello di assumere quella forma mentis descritta in maniera folgorante da Ennio Flaiano: "delusi dal futuro, faremo i nostri progetti sul passato".

Per cui il tema da dibattere è quale ruolo possono giocare presente e passato in questa costruzione del futuro; dobbiamo trovare il modo di creare dei ponti tra passato e presente: questo a mio parere deve essere il punto di partenza. Facendoci ancora aiutare dalla saggezza antica, Confucio soleva dire "studia il passato se vuoi prevedere il futuro".
La domanda non è quindi se è giusto conservare, ma piuttosto come conservare per fare in modo che il passato sia elemento vivificante per orientare (o almeno comprendere) il futuro e non semplice occasione di ripiegamento nostalgico.
Queste considerazioni sono in qualche modo legate all'attuale dibattito sull'(apparente) declino italiano. Ho partecipato a molti convegni su questo tema e ogni volta tutti gli interlocutori, politici, giornalisti, imprenditori, accademici, si lamentavano dello stato attuale in cui versa l'Italia ma nessuno si sentiva mai responsabile, nessuno ha mai fatto pubblica ammenda di qualche errore commesso che ha contribuito a farci arrivare a dove siamo. Ma di chi è la colpa di questo declino? Costoro che si lamentano non sono semplici comprimari, sono gli attori principali del nostro sistema economico. Sembra quindi non tanto un'analisi oggettiva dello stato di fatto quanto una lettura infantile originata da un senso di colpa. La colpa del declino sembra appartenere ad una entità misteriosa (la politica, la burocrazia, la corruzione, la Cina) altro da noi, che ci consente di sentirci vittime e non responsabili: una vera e propria proiezione verso una entità superegoica. È da questa errata diagnosi che uno studio maturo e consapevole della storia ci può aiutare a progettare il futuro. Quanto queste riflessioni contemporanee sono vicine al o tempora o mores di antica memoria...

Volendo seguire una analogia psicoanalitica, ogni terapia per costruire una guarigione parte da una elaborazione del nostro senso di colpa, da una accettazione anche delle nostre responsabilità. Come non ricordare la famosa frase pronunciata da John Kennedy durante il suo discorso di insediamento: "non chiedetevi che cosa può fare il Paese per voi; chiedetevi che cosa potete fare per il Paese". È in questa prospettiva che la storia può essere vivificante, stimolante, incoraggiante, orientante; e quindi le tecnologie digitali devono aiutare a rileggere gli archivi del passato in questo modo, creando ponti ed agganci al presente e suggerimenti per il futuro.
D'altra parte la storia della conservazione non facilita i compiti: vi sono infatti tanti modi per conservare, uno si chiama addirittura imbalsamazione. Pertanto la scelta del processo di conservazione è anche legata all'utilizzo che si vuole fare del bene conservato. Ciò va contro uno dei grandi assunti di una certa cultura della conservazione del Patrimonio Culturale che tende a conservare a prescindere dalle destinazioni d'uso, semplicemente 'a futura memoria'.

Anzi la questione è ancora più ingarbugliata. Nel 1909 il governo Giolitti si fece promotore di una legge rivoluzionaria ("Per le antichità e le belle arti") che per la prima volta stabilì che un manufatto artistico di pregio, se in mani private, possiede alcuni vincoli in quanto patrimonio dell'intera nazione. Il suo proprietario non ha solo diritti, ma anche alcuni doveri e limitazioni, tra cui non vendere l'opera d'arte all'estero (o perlomeno dover seguire uno specifico iter) oppure restaurarla quando necessario. Una delle motivazioni forti all'approvazione della legge fu l'idea che il genio italico si fosse in qualche modo interrotto ("la cava non dava più marmo" come disse Rosadi, uno dei proponenti della legge). Pertanto ciò che era stato prodotto nel passato doveva essere assolutamente difeso, perché non sarebbe stato più reintegrato. Questa mentalità è certamente molto diversa dallo spirito che ha sempre attraversato l'arte italiana, che 'saccheggiava' e riutilizzava in contesti diversi il materiale artistico prodotto nei tempi precedenti (basti, per esempio, pensare a quante chiese romaniche sono state costruite con materiale di riporto proveniente dai tempi romani). La cultura della conservazione ha quindi al suo interno istanze fortemente difensive (come, d'altra parte, la parola conservazione richiama) che vanno talvolta messe in discussione. La conservazione del patrimonio è certamente un fatto importante, ma non deve essere interpretato in maniera 'letterale' (oggi diremmo 'fondamentalista'), soprattutto quando le risorse finanziarie a disposizione del settore culturale tendono ad essere particolarmente limitate.

Il semplice digitalizzare non sapendo cosa farsene dei dati digitalizzati ha causato uno sperpero di soldi, come non ricordare i 'famosi' Giacimenti Culturali. Ma legato ad ogni processo di digitalizzazione vi sono molte decisione da prendere, legate ai futuri utilizzi, come per esempio il tipo di risoluzione e la tassonomia classificatoria da utilizzare.
Ciascuno di noi deve cominciare a riflettere su come gestire i processi di conservazione non utilizzando questi approcci 'tradizionali'. L'economista dell'innovazione Schumpeter coniò uno slogan molto importante, caposaldo dei modelli di innovazione economica: l'innovazione è distruzione creatrice; se non si distrugge non si liberano le risorse per creare; noi viviamo in un ecosistema, caratterizzato cioè da energia finita, non illimitata: se non si rendono disponibili al sistema le energie incorporate nel vecchio oramai inutilizzabile, non si possono creare cose nuove. Esiste pertanto un processo creativo anche nella distruzione. Anche Tommaso Marinetti nel suo manifesto incitava, provocatoriamente, alla distruzione di Roma Venezia e Firenze: "distruggiamo il nostro opprimente passato". Spogliato del linguaggio futurista volutamente provocatorio, la riflessione mette in luce uno dei possibili rischi derivanti da un luminoso passato: il suo essere castrante verso ogni forma di innovazione, sempre inferiore nel suoi confronti con gli autorevoli antenati.

Sono stato di recente in Cina con la delegazione italiana e ho avuto un esempio concreto di come il passato possa essere 'ingombrante'. Alla fiera di Canton, dove l'economia italiana si doveva raccontare al nascente ed esuberante mercato cinese, vi erano prevalentemente stand regionali; sopra il nome di ogni regione, scelto in maniera creativa grazie alle libertà concesse dal titolo V (alcune scritte erano in italiano Umbria, altre in inglese Tuscany, infine la 'straordinaria' The Lazio Region of Rome); vi erano dei disegni di Leonardo, poco rilevanti in quanto si trattava di una fiera economica, ma che dovevano richiamare, secondo i progettisti degli stand, i fasti dell'Italia. È possibile che ancora oggi ci dobbiamo appoggiare al nostro glorioso passato artistico per costruirci una credibilità verso il presente?
Una via ad una corretta conservazione ci viene da una riflessione di Gaston Bachelard: "si conserva solo ciò che é stato drammatizzato dal linguaggio". Non è infatti la loro semplice digitalizzazione che salverà gli archivi dall'oblio. La narrazione (contrariamente all'approccio alla storia che richiede di conservare tutto) seleziona i fatti per assicurargli una vera sopravvivenza, e mischia il nuovo con l'antico, il generale con il particolare, l'oggettivo con il soggettivo in un plot appassionante e memorabile.
D'altra parte l'odierna scarsa attenzione verso il passato va di pari passo con una vera e propria paura del futuro. Osserva Remo Bodei nel suo Libro della memoria e della speranza che "viviamo in un'età in cui il fascino dell'oblio è più forte di quello della memoria. Lo spessore del tempo tende a comprimersi sul presente: accanto alla memoria del passato perde senso e importanza l'attesa del futuro, e quindi la speranza (...) Il punto di giuntura del senso, il nostro presente, appare indebolito e sguarnito (...) il presente pare ridursi a un punto evanescente, a uno spazio inospitale, non più sorretto né dagli insegnamenti della tradizione, né da una polarizzazione verso il futuro. In effetti però, essendo più libero da vincoli pregressi, spalanca anche "finestre di opportunità" più numerose e più ampie, altri spazi possibili all'agire e al pensare".

Bisogna partire da queste considerazioni per riflettere sui processi di conservazione del futuro: tenere cioè ben presente i desideri e le paure dei giovani, le loro aspirazioni, piuttosto che limitarsi ad affermare in maniera critica che si deve conservare tutto. Altrimenti i giovani (i cittadini di domani) non comprenderanno l'importanza delle biblioteche e degli archivi e, progressivamente, ridurranno i fondi per la loro gestione.
Si diceva che conservare il passato è un tema contemporaneo. Paradossalmente si sta sviluppando un problema di conservazione dell'arte contemporanea che tende ad essere addirittura più complicato rispetto alle opere del passato: conservare le opere di artisti come Burri sta diventando un problema, perché spesso gli artisti contemporanei sperimentano nuovi materiali, nuove tecniche creative di fatto creando processi instabili nei materiali utilizzati. Lo stesso vale per i primi video di artisti come Nam June Paik o Bill Viola. Le loro opere usano televisori oggi fuori produzione. Una loro riparazione diviene sempre più difficile.
La gestione e tutela del Patrimonio Culturale sta inoltre sviluppando un fiorente mercato caratterizzato da piccole e medie aziende dai forti contenuti tecnologici. Nuovi materiali, tecniche costruttive innovative, strumenti di misurazione e diagnostica, modellistica 3D, piattaforme digitali, sono esempi tangibili. Il nostro Patrimonio Culturale sta diventando un vero e proprio laboratorio per lo sviluppo di tecnologie, materiali e metodologie molto innovative; si pensi ai batteri 'mangia-patine', al cemento bianco contenente nanomolecole di titanio che non si sporca, agli acceleratori di neutroni in grado di radiografare le statue e ricostruirle dall'interno, fino alle recenti innovazioni del settore digitale (mappe satellitari navigabili, sistemi georeferenziati portatili, tag a radiofrequenza per marcare gli oggetti, ...).
I settori che contribuiscono a questo aggregato non sono solo il restauro e i portali web. Pensiamo alla strumentazione diagnostica, ai nuovi materiali e tecnologie per le costruzioni che consentono la creazione di edifici avveniristici, i futuri beni culturali, fino alla nautica da diporto, che sta facendo evolvere i proprio cantieri in hub turistici.
Questo know-how che il nostro Paese possiede è spesso disperso e frammentato e richiede processi di coordinamento e aggregazione. Per questo motivo la lettura di un nuovo aggregato economico che pone l'accento non sui servizi aggiuntivi museali e sui flussi turistici ma sul sistema di imprese che rende possibile la conservazione, la tutela e la valorizzazione di questo patrimonio è oggi priorità assoluta.
Un aspetto non trascurabile di questo settore è la sua esportabilità. La nostra credibilità all'estero su questi temi è altissima, ma non ha avuto la possibilità di svilupparsi come invece ha fatto il made-in-Italy e questo è certamente un potenziale da cogliere. Solo una visione sistemica consente di sfruttare questa grande opportunità.

Fare emergere una nuova filiera economica come opzione concreta per rilanciare l'economia italiana. Cuore di questo sistema, e definito dalle due dimensioni (integrate in maniera indissolubile) di natura (Ambiente) e paesaggio antropizzato (Beni Culturali), è il territorio, che sta riacquistando quella centralità economica che l'economia industriale prima e la New Economy dopo gli avevano negato. Strumenti fondamentali di questo rilancio sono l'innovazione tecnologica e un nuovo utilizzo del design e della cultura di progetto.
Una riflessione finale: le straordinarie potenzialità offerte dalla tecnologia, per essere sfruttate appieno, devono però essere allineate ai rischi connessi ad un loro errato utilizzo. Il discorso sulla tecnica è sempre molto polarizzato: o mette in luce, in maniera acritica, il suo potere taumaturgico o le sua possibilità onnipotenti, oppure rievoca angosce e paure. Il timore che la tecnologia possa 'scappare di mano' è infatti sempre in agguato ed ha radici profonde: basti pensare al mito di Prometeo, responsabile di avere commesso ubris verso le divinità, sostituendosi a loro nell'atto di creare, o a figure come il Golem o Frankenstein.
È raro che i profeti delle nuove tecnologie parlino del loro lato oscuro, ma è però indispensabile; non si può infatti lasciare questo importante compito ai demonizzatori e ai catastrofisti. Non solo il nucleare, la chimica, la manipolazione genetica possono essere pericolose: anche le tecnologie digitali. Il web 2.0 favorisce infatti la dimensione onnipotente del suo utilizzatore. Avere il mondo a portata di click, poter apparire come si desidera, poter produrre contenuti 'personali' attingendo facilmente al grande serbatoio della rete spacciando per propri lavori di altri, poter raccontare a un audience mondiale i propri fatti personali, sono elementi che possono essere molto delicati su personalità fragili.
Vediamo alcuni aspetti poco frequentati legati allo sviluppo della tecnica: ad esempio l'esplosione informativa. La Biblioteca di Alessandria conservava probabilmente 700.000 rotoli di papiro e pergamena, tutto il sapere del mondo occidentale antico. La Biblioteca Nazionale Francese ha invece oltre 400 chilometri di scaffali. Alla sua inaugurazione, nel 1997, erano già presenti 10 milioni di volumi, 350.000 periodici, 76.000 microfilm, ... Questa moltiplicazione delle informazioni sta diffondendo sia l'anoressia informativa sia il suo speculare - l'obesità. In entrambi i casi il crescente proliferare dell'informazione riduce la capacità dell'uomo di assimilare in maniera sana nuova conoscenza spingendo i giovani a riempirsi in maniera ossessiva di informazioni 'non nutrienti'.
A ciò si aggiunge lo 'sporco digitale': le tracce che lasciamo sulla rete tendono progressivamente a diventare indelebili. I motori di ricerca registrano tutto, ma non esiste un processo condiviso che toglie dalle liste dei motori le informazioni non più attendibili o invecchiate.
Anche strumenti apparentemente democratici come l'enciclopedia online Wikipedia vanno usati con grande cautela. Poiché è la massa dei lettori che decide sulla veridicità, si tende a riportare solo fatti banali e 'sedicenti' oggettivi (come la data di una battaglia o chi ha vinto una guerra), eliminando giudizi e opinioni. Ora la separazione fra fatto e opinione non è mai molto netta: c'è chi sostiene che perfino la teoria evoluzionista di Darwin sia un'opinione. Questo processo di gestione del consenso tende a creare una unica base condivisa e massificata di conoscenza, eliminando le differenze, le ambiguità, le incertezze. Da occasione democratica, Wikipedia potrebbe trasformarsi in un pericoloso strumento di omogeneizzazione culturale.
Pertanto nell'affrontare le straordinarie potenzialità che le tecnologie ci mettono a disposizione, dobbiamo sempre avere un occhio sul loro lato oscuro, non per demonizzare la tecnica ma per utilizzarla in un modo maturo e consapevole.


Copyright AIB 2007-08, ultimo aggiornamento 2007-09-16 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
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