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Alberto Petrucciani

Nascita e affermazione della professione bibliotecaria in Italia
(1861-1969)*

Per affrontare il tema della nascita e dell'evoluzione della professione bibliotecaria in Italia occorre soffermarsi preliminarmente, anche se in breve, su cosa questa espressione significhi. Professione è un termine d'uso comune nel linguaggio ordinario, ma esprime un concetto piuttosto complesso e anche discusso, oggetto di studi molto interessanti da parte di diverse discipline (in primo luogo la sociologia, l'economia e il diritto) o da diverse prospettive1.
Condizione necessaria perché si possa parlare di professione, anche se non sufficiente, è che una data attività costituisca un'occupazione, un lavoro quotidiano, normalmente a tempo pieno, con il quale una persona può provvedere a mantenere se stessa e magari anche una famiglia, e attraverso il quale viene di solito individuata la sua posizione sociale. Il bibliotecariato2 è invece nella maggior parte dei casi, prima del periodo su cui ci soffermeremo, un incarico onorifico o quasi, talvolta un titolo di prestigio o una sinecura, una mansione integrata con altre o supplementare, più che una vera e propria occupazione.
Tra le occupazioni, si parla di professioni per quelle che comportano di norma conoscenze specializzate e sono esercitate a beneficio di un fruitore (utente, cliente), al quale il professionista presta la propria competenza e capacità di giudizio, assumendo quindi inevitabilmente una certa responsabilità. Ormai da tempo gli studi sulle professioni hanno individuato questo modello funzionale, facendo passare in secondo piano la concezione tradizionale, ottocentesca, dell'attività libero-professionale come quella esercitata a pagamento per il singolo cliente. Nel Novecento, infatti, le professioni si sono - come dice la letteratura specializzata - "burocratizzate", o istituzionalizzate. Anche nelle più classiche, quelle forensi o sanitarie, per non parlare di quelle tecniche (ingegneri, architetti, ecc.), prevale di fatto, almeno sul piano quantitativo, l'esercizio all'interno di organizzazioni pubbliche (istituti ospedalieri, avvocatura dello Stato e uffici legali, uffici tecnici e del genio, ecc.) o private (grandi imprese, ma anche grandi studi professionali, legali, di consulenza o progettazione, ecc.), con regimi molto vari quanto a rapporti di lavoro o contrattuali e forme di retribuzione.
La teoria sociologica tradizionale delle professioni, che si può chiamare "teoria dei tratti", ha teso appunto a censire empiricamente e descrittivamente gli elementi caratteristici delle professioni riconosciute: la costituzione di una base di conoscenze specifiche, la definizione di percorsi di formazione e di certificazione della capacità professionale (non necessariamente sanciti dalla legge), lo sviluppo delle forme di diffusione dell'informazione e di confronto delle teorie e delle pratiche (manualistica, stampa specializzata, convegni, ecc.), la nascita e il consolidamento di forme associative (collegi, ordini, associazioni di varia natura), la definizione di norme di condotta, di codici deontologici e più in generale di un'etica professionale. Sono elementi in parte comuni a qualsiasi occupazione specializzata, o a qualsiasi campo di studio, ma che nelle professioni tendono a legarsi organicamente fra loro.
Come hanno mostrato gli studi sui processi di professionalizzazione e sulle "semi-professioni", l'affermazione di una professione si configura essenzialmente come iniziativa delle frange più qualificate e impegnate, finalizzata a mettere in evidenza, far conoscere, valorizzare la funzione sociale di quell'attività, da una parte garantendone il miglioramento qualitativo e la "serietà", nell'interesse del fruitore, e quindi dall'altra richiedendo alla società stessa e ai poteri pubblici un riconoscimento di ruolo, di autonomia (concetto inevitabilmente legato alla responsabilità), e naturalmente anche di prestigio e di remunerazione. Da qui la particolare importanza che hanno per una professione "in cammino" lo sviluppo del proprio sapere specifico, la sua trasmissione attraverso una formazione sistematica, il suo affinamento attraverso la pubblicazione e discussione di esperienze, teorie e metodi, e soprattutto la dimensione collettiva: i fenomeni associativi e di autoorganizzazione, l'ampiezza del consenso raggiunto fra gli operatori e l'autorevolezza dei loro rappresentanti, l'omogeneizzazione verso l'alto delle pratiche professionali, la larga condivisione di identità e valori che è determinante per la credibilità del processo stesso.
La teoria contemporanea delle professioni, in effetti, ha superato l'approccio meramente descrittivo, puntando non più a censire singoli tratti caratteristici ma piuttosto a individuare il "nocciolo" dell'essere professione: una specifica e complessa modalità di controllo collegiale di una occupazione, che si realizza in forme più o meno compiute e soprattutto non è definita una volta per tutte ma costituisce un equilibrio sempre soggetto ad aggiustamenti o tensioni. Professionalizzazione, in sostanza, è rivendicazione collettiva (ed efficace, ossia riconosciuta dagli interlocutori) di una funzione sociale specializzata, utile alla collettività oltre che al singolo fruitore, delicata per le conoscenze che richiede, il giudizio che comporta e le possibili conseguenze negative della cattiva pratica (tre ingredienti in quantità variabile). Una funzione che richiede quindi di essere svolta in autonomia, perché non può essere pienamente compresa, preordinata e valutata né dall'alto, da norme giuridiche, poteri pubblici, vertici amministrativi o datori di lavoro, né dal basso, dai fruitori stessi, che non dispongono della competenza necessaria per valutare correttamente la qualità di questa o quella prestazione e i suoi risultati, non sempre immediatamente percepibili e talora a lungo termine. L'autonomia non diventa arbitrio individuale, socialmente inaccettabile, in quanto poggia su un controllo collettivo, il consenso della comunità professionale che nel suo complesso, non a livello individuale, deve garantire lo sviluppo delle competenze specifiche e il loro consolidamento, la formazione e la selezione degli operatori, le eventuali sanzioni morali o materiali della pratica incompetente o scorretta. Non arbitrio ma autogoverno della propria sfera di attività e di responsabilità, insomma, con le inevitabili possibilità di conflitto con il potere e/o con il mercato. Questo quadro, in sostanza, costituisce anche la ragion d'essere, implicita o esplicita, della tutela legislativa delle professioni, fino alle vigenti direttive europee e al disegno di legge di riforma che da alcuni anni, dopo un avvio promettente, giace nel nostro Parlamento.

Se tutti abbiamo almeno una vaga impressione di cosa fosse il bibliotecario erudito del Settecento (e ancora del primo Ottocento), l'abate che è spesso anche storiografo ufficiale, professore, oratore, compilatore di iscrizioni ed epitaffi, ecc., è nella seconda metà dell'Ottocento che, non solo in Italia, quella del bibliotecario inizia a configurarsi come una vera e propria occupazione, con caratteristiche professionali.
La rappresentazione migliore dell'evento, con scene spesso gustose, si può indicare nei verbali delle audizioni della Commissione d'inchiesta sul British Museum del 1847-18493: alla sfilata di gentiluomini e letterati di prestigio che contestavano aspetti dell'organizzazione bibliotecaria introdotta da Antonio Panizzi (o peggio, suggerivano i loro "metodi"), l'esule italiano rispondeva non solo con notevole disinvoltura e ironia, ma dimostrando una straordinaria competenza specialistica, si trattasse delle modalità di consultazione del catalogo da parte del pubblico nelle grandi biblioteche d'Europa, del pregio di questa o quella edizione, o della durata dei diversi tipi di pelle per le legature. Come concluse lapidariamente William Hamilton, uno degli amministratori del British Museum, «he was a professional man, and we were only amateurs» 4.
Antonio Panizzi da Brescello (1797-1879), per sua fortuna e nostra sfortuna, il bibliotecario lo faceva a Londra, dove lo aveva portato l'esilio dal ducato modenese con sul capo una condanna a morte per cospirazione carbonara. E dal Risorgimento vengono anche tanti dei migliori (o meno validi) bibliotecari della "nuova Italia". Molti dei testimoni dei coups de théâtre di Panizzi e della prima organizzazione di una grande biblioteca con un adeguato staff di bibliotecari preparati e specializzati erano ancora attivi allo scoccare dell'annus mirabilis della biblioteconomia non solo statunitense, quel 1876 che vide il primo grande congresso dei bibliotecari americani, con la fondazione dell'American Library Association, l'uscita di quella che è ancora la più prestigiosa e diffusa rivista professionale d'oltre Atlantico, il newyorkese Library journal, del ponderoso rapporto sulle biblioteche promosso dal governo federale, in cui videro la luce le famose regole di catalogazione di Charles A. Cutter, e della prima edizione della Classificazione decimale di quel Melvil Dewey che di molti di questi eventi fu promotore e organizzatore. L'anno dopo seguirono i cugini britannici, con la fondazione della Library Association of the United Kingdom (divenuta nel 1896 "The Library Association" tout court), di cui fu primo presidente John Winter Jones, già braccio destro di Panizzi al British Museum e quindi suo successore.
Cominciarono quindi i contatti internazionali, non solo fra le due sponde dell'Atlantico. Già si era parlato di biblioteche in una sessione del Congresso internazionale di statistica tenuto a Firenze dal 29 settembre al 5 ottobre 1867; alcuni italiani parteciparono al congresso di fondazione della Library Association, tenuto a Londra nel 1877 e definitosi anche come primo Congresso internazionale dei bibliotecari, e a quello del 1879; al World's Congress of Librarians organizzato a Chicago nel 1893 l'Italia contribuì con un pregevole volume sulle biblioteche governative e vi svolse una comunicazione (letta però in sua assenza) Giulia Sacconi5. Guido Biagi partecipò al secondo Congresso internazionale dei bibliotecari, tenuto a Londra nel 1897, a quello che si svolse a Parigi nel 1900 in coincidenza con l'Esposizione universale e a quello di St. Louis del 1904; lui stesso, la Sacconi e Ugo Balzani pubblicarono interventi sul «Library journal» e in altre sedi di rilievo internazionale.
Doveva passare mezzo secolo, però, perché dal promettente avvio prendesse corpo stabilmente la federazione mondiale delle associazioni bibliotecarie, l'IFLA: proprio l'ALA per il congresso del cinquantenario, tenuto ad Atlantic City nel 1926, inviterà rappresentanti di 26 nazioni, fra le quali anche l'Italia, che in quell'occasione convocarono per l'anno successivo (il cinquantenario britannico, a Edinburgo) la riunione costitutiva del Comitato internazionale delle biblioteche e di bibliografia. Il Comitato, insediatosi nel 1928 a Roma, convocò proprio nella capitale italiana il primo Congresso mondiale delle biblioteche e di bibliografia (15-30 giugno 1929), in cui vennero approvati denominazione e statuto della Federazione e che costituì quindi la prima pietra miliare di un percorso poi non più interrotto, salvo per gli anni del secondo conflitto mondiale.

In Italia gli ultimi decenni dell'Ottocento sono quelli della costruzione dello Stato unitario, con i gravissimi problemi a tutti noti, e quindi il percorso di professionalizzazione dei bibliotecari cade in un periodo molto particolare, difficile per tanti versi - con un processo di unificazione non ancora concluso, un'estrema arretratezza socioeconomica in gran parte del paese e un erario esausto - ma per altri singolarmente coerente. Si chiude davvero l'"antico regime", inizia la costruzione della "nuova Italia", di uno Stato nazionale liberale (costituzionale) e laico, moderno, a cui dovrà corrispondere un nuovo profilo e una nuova leva di funzionari pubblici e di intellettuali tecnici. Possiamo citare ancora il famoso monito di Pasquale Villari: «Bisogna però che l'Italia cominci col persuadersi, che v'è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell'Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impassibili, i generali incapaci, l'operaio inesperto, l'agricoltore patriarcale e la rettorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi»6.
Bisogna riconoscere che i primi governi unitari sentirono precocemente l'interesse per interventi nel campo delle biblioteche. Fin dal 1860 (ministro Terenzio Mamiani) si avvertì l'esigenza di una rilevazione delle condizioni delle biblioteche italiane e la prima indagine statistica d'insieme venne svolta con riferimento al 1863 (ministro Michele Amari) e pubblicata nel 1865 (ministro Giuseppe Natoli), per programmare successivi interventi anche legislativi. Già a pochi mesi dall'insediamento del primo Parlamento italiano era stata costituita, con decreto del 22 dicembre 1861, la Biblioteca nazionale di Firenze.
La statistica del 18637 riuscì a censire solo 210 biblioteche - esclusi ovviamente i territori non ancora annessi al Regno, Venezia e Roma - delle quali 33 governative (non tutte aperte al pubblico, come avveniva anche in altre categorie), 100 di enti locali (Comuni e Province), 71 di istituti scientifici o ecclesiastici e sei di carattere misto. Le regioni meglio dotate, tutte con 28 biblioteche censite, erano l'Emilia-Romagna, la Toscana, le Marche e la Sicilia, seguite da Piemonte e Lombardia, ma a parte la Sicilia e Napoli il Mezzogiorno si presentava più o meno come un deserto. Il patrimonio censito ammontava a circa 4,1 milioni di volumi, dei quali 1,6 milioni nelle governative, 1,2 in quelle di enti locali, circa mezzo milione ancora di proprietà ecclesiastica.
Gli addetti risultavano 565, di cui 234 bibliotecari («direzione»), 177 impiegati esecutivi («distribuzione») e 154 custodi e subalterni («servizio»). In media, su 210 biblioteche, meno di tre addetti per ciascuna: se consideriamo che già risultano varie biblioteche piuttosto grandi e ben dotate di personale (la Nazionale di Napoli con 30 addetti, Torino con 24, Firenze con 18, ecc.), la condizione più comune è di un bibliotecario e un subalterno per biblioteca, nei casi migliori con l'aggiunta di un impiegato d'ordine.
Se i primi decenni di storia unitaria, dal punto di vista delle biblioteche, si possono prestare a valutazioni severe, è bene prendere obiettivamente le misure del passo compiuto alla data della seconda grande rilevazione statistica nazionale, quella del 1889, edita in tre volumi dal 1893 al 18968. Il numero delle biblioteche censite, 1831, è cresciuto di nove volte dal 1863, e solo in piccola parte l'aumento è dovuto alle nuove regioni annesse: anche il dettaglio dei dati raccolti conferma che, insieme alle biblioteche, è sicuramente cresciuta l'amministrazione, se non altro nella sua capacità di acquisire ed elaborare informazioni. Gli squilibri territoriali sono sempre fortissimi, forse cresciuti: ora ai primi posti troviamo Lombardia e Piemonte (con 219 e 188 biblioteche), ancora quarta la Sicilia, mentre le regioni più depresse arrivano appena a una ventina di biblioteche. Il patrimonio censito è più che triplicato, quasi 13 milioni di volumi, dei quali un terzo nelle biblioteche di enti locali (4,3 milioni di volumi in oltre 600 istituti, rispetto ai cento del 1863) e 3,1 milioni nelle biblioteche governative. Una conferma della crescita viene anche dai dati, per quanto solo indicativi, del pubblico: risultano triplicate le presenze annue, da 937.470 a 2.879.633. Il personale, invece, non è nemmeno raddoppiato: 1049 addetti, dei quali 454 con mansioni direttive, ossia bibliotecari, 328 impiegati d'ordine e amministrativi, 267 subalterni. Impossibile dividere il personale per il numero delle biblioteche: otterremmo poco più di mezzo addetto per ciascuna.
Nei primi trent'anni di storia unitaria non mancarono, quindi, le iniziative, anche se non sempre perseguite con costanza - attraverso la girandola di governi, più di trenta fino alla fine del secolo, quasi mai durati più di un anno o due - e mai adeguatamente finanziate, e pur se mancò sempre la capacità - ma forse anche la concreta possibilità politica - di metter mano seriamente all'architettura del sistema bibliotecario e quindi all'accoppiata perdente tra mancato sviluppo di funzioni pienamente nazionali e pletora di istituti ereditati dal nuovo Stato e da esso direttamente gestiti, con evidente dispersione di risorse e di attenzione.
Fra gli interventi compiuti molti riguardano, naturalmente, il personale delle biblioteche, e in primo luogo la sua fusione in un corpo unico e l'unificazione del relativo trattamento anche economico (1869 e 1873), la definizione delle carriere ed il reclutamento (1876 e 1885), sia sul piano normativo sia su quello pratico. In effetti, come dimostra il contributo di Simonetta Buttò pubblicato di seguito, il secondo dei due piani fece evidentemente aggio sul primo, rimasto solitamente lettera morta, pura manifestazione di buone (ma talvolta troppo astratte) intenzioni, mentre erano i provvedimenti occasionali a costituire in questi decenni, realmente, un corpo non tanto esiguo e abbastanza unitario di "bibliotecari governativi".
Qui è il caso invece di soffermarsi sul nostro annus mirabilis, il 1885/86 (a ridosso, come si vede, di quello d'Oltreoceano), ossia sulla «primavera fortunata» legata ai nomi di Ferdinando Martini e Guido Biagi9.
Al Governo c'è da quasi dieci anni la Sinistra, ed è stata quindi bruscamente archiviata l'esperienza di Ruggero Bonghi, generosa e alla fine di non poca incisività, nonostante evidenti aspetti di approssimazione. All'epoca della "primavera" primo ministro è ancora Agostino Depretis, all'Istruzione c'è Michele Coppino (successore di Bonghi nel marzo 1876, con il primo gabinetto Depretis, poi alternatosi con De Sanctis e Guido Baccelli). Tornato a reggere il dicastero a fine marzo 1884, Coppino vi rimarrà per quasi quattro anni, fino al febbraio 1888, resistendo a tre rimpasti: un record per questo dicastero, che verrà battuto di pochi giorni da Luigi Credaro (1910-1914) e poi solo da Bottai in pieno fascismo (1936-1943) e da Guido Gonella (1946-1951) e Luigi Gui (1962-1968) nel dopoguerra. Ma secondo tradizione - e per quanto l'interessato lo neghi col suo abituale humour - l'uomo che conta per le biblioteche è piuttosto il sottosegretario (allora ancora col titolo di "segretario generale"), Ferdinando Martini.
Fiorentino, brillante giornalista (Fantasio, collaboratore del «Fanfulla» e fondatore e direttore dal 1879 al 1882 del «Fanfulla della domenica», che si occupò più volte di biblioteche) e giovane uomo politico della sinistra moderata (era nato nel 1841), Martini fu segretario generale dell'Istruzione dal 27 aprile 1884 al 31 gennaio 1886 (sostituito poi, nel seguito della gestione Coppino, da Filippo Mariotti) e vi tornò più tardi, questa volta da ministro, dal 16 maggio 1892 al 14 dicembre 1893. Martini chiamò con sé, come segretario e poi capo di gabinetto, Guido Biagi, allora giovane bibliotecario della Nazionale fiorentina (era entrato nell'ottobre 1880, a venticinque anni, alla Vittorio Emanuele, tornando nel 1882 nella sua città; diventerà poi nel 1886 direttore della Marucelliana). All'origine della "primavera" troviamo quindi, forse, un catalizzatore politico, capace di coinvolgere i propri funzionari migliori, giovani e meno giovani, e di dare - o render possibile con il suo appoggio - un impulso che avrà nelle stagioni successive ben pochi esempi paragonabili.
Comunque sorga e si sviluppi questo disegno, quello che a noi interessa qui è il suo peso, il suo ruolo probabilmente decisivo, nello sviluppo della professionalizzazione del bibliotecariato italiano. In primo piano, anche nel nostro annus mirabilis, troviamo gli strumenti professionali, quelli che rappresentano nel mondo biblioteche e biblioteconomia di un paese, e che all'interno identificano gli standard di professionalità accettati e che si vorrebbe dare per acquisiti, archiviando definitivamente il bricolage individuale, di migliore o peggiore qualità, e smuovendo l'isolamento delle tradizionali istituzioni erudite.
Nel gennaio del 1886, inizialmente con periodicità quindicinale, esce il «Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa dalla Biblioteca nazionale centrale di Firenze», voluto e realizzato da un altro uomo chiave di questa primavera, Desiderio Chilovi. Un bibliotecario meno giovane, già consigliere del Bonghi, ormai arrivato al vertice della carriera: l'anno precedente, in cui aveva compiuto cinquant'anni, era passato dalla direzione della Marucelliana a quella della Nazionale e aveva dato un contributo determinante a un'altra realizzazione di rilievo, il nuovo regolamento delle biblioteche governative. A ridosso del «Bollettino» - il primo numero è datato gennaio-febbraio 1886 - esce il BOMS, il «Bollettino delle opere moderne straniere acquistate dalle biblioteche pubbliche governative del Regno d'Italia», curato dalla Nazionale romana, che però subirà poi varie traversie.
Con il 1886 vengono posti, quindi, quelli che oggi definiremmo i fondamenti del sistema del controllo bibliografico e della disponibilità delle pubblicazioni a livello nazionale. Già nel 1885 era stata varata la collana «Indici e cataloghi», il cui primo volume conteneva, con prefazione dello stesso Martini, l'Elenco delle pubblicazioni periodiche ricevute dalle biblioteche pubbliche governative d'Italia nel 188410. Insomma il catalogo collettivo nazionale dei periodici, un altro architrave del sistema, che si sperava di estendere rapidamente anche alle maggiori biblioteche non statali e che avremmo invece dovuto attendere per quasi un secolo.
Se «Bollettino» e BOMS sono pietre miliari usuali anche nella periodizzazione bibliografica, forse è meno ovvio cogliere l'importanza di «Indici e cataloghi» e comprendere perché la sua continuazione e il suo rilancio abbiano a più riprese interessato tanto i bibliotecari e gli studiosi11. Non si trattava semplicemente di finanziare con denaro pubblico la stampa di qualche libro, complicato e costoso, di limitato smercio. Si trattava, piuttosto, di promuovere e organizzare - piuttosto precocemente se guardiamo al quadro internazionale - la catalogazione dei fondi antichi e di pregio, a partire da quelli manoscritti, con tutto quello che ciò comporta: formare - e far lavorare - una Commissione che dettasse criteri, norme e priorità, individuare in tutti i maggiori centri esperti anche in campi di alta specializzazione (la catalogazione di manoscritti greci, ebraici, arabi e persiani, di codici miniati, della cartografia antica, ecc.) e gestire elasticamente incarichi e comandi, costituire una struttura redazionale che controllasse il lavoro, attrezzarsi per la realizzazione di prodotti complessi quanto a caratteri, impaginazione, illustrazione. Una impresa, quindi, piuttosto lontana dalla filosofia dell'"adempimento" che tende costantemente a dominare la pubblica amministrazione.
Una mentalità che verrebbe da definire quasi imprenditoriale emerge anche dai bandi per concorsi bibliografici (da un'idea, a quanto pare, del Chilovi). Un decreto del 10 febbraio 1885 indisse quattro concorsi, con i relativi premi (la Commissione giudicatrice venne composta da Chilovi, Domenico Gnoli, Gilberto Govi, Cesare Guasti ed Emilio Teza), due dei quali hanno qui particolare rilievo: quello per un'opera che dettasse norme razionali e pratiche per la catalogazione, vinto da Giuseppe Fumagalli con l'opera poi pubblicata come Cataloghi di biblioteche e indici bibliografici (Firenze: Sansoni, 1887), e quello per una bibliografia delle opere bibliografiche italiane, prorogato al 1888 e aggiudicato ancora al Fumagalli, in collaborazione con Giuseppe Ottino, per la Bibliotheca bibliographica italica (Roma: L. Pasqualucci, 1889, con supplementi successivi).
Il giovanissimo Fumagalli (era nato nel 1863) era entrato nelle biblioteche, come Biagi, nel 1880, appena conseguita la maturità classica, attraverso l'alunnato a Firenze, e aveva poi rapidamente girato varie biblioteche (Lucca, quindi la Riccardiana e l'Universitaria di Padova, dal 1885 la Vittorio Emanuele). La sua "dittatura" nella manualistica biblioteconomica e bibliografica e nei repertori di riferimento, anche per la storia del libro, comincia da questi concorsi e si svilupperà poi col volume sulla Collocazione dei libri nelle pubbliche biblioteche del 1890 (che, con l'altro sulla catalogazione, sarebbe dovuto confluire in un Trattato generale di biblioteconomia promesso ancora negli anni Trenta per l'Enciclopedia del libro), con il Lexicon typographicum Italiae del 1905, il rifacimento del manuale Hoepli di Bibliografia (1916) già del solo Ottino (1885), l'agile repertorio La bibliografia preparato per la Fondazione Leonardo nel 1923, il primo Annuario delle biblioteche italiane (1933), fino al Vocabolario bibliografico, incompiuto, pubblicato postumo nel 1940 (Fumagalli era morto l'anno precedente, ma già al principio del 1921 aveva lasciato il servizio, per contrasti con il Ministero).
Ma procediamo con ordine, e teniamo presente che qui non si tratta di tracciare per l'ennesima volta una rassegna di una vivace stagione di pubblicazioni, ma di inviduare i capisaldi posti l'uno dopo l'altro a costituire un sistema di riferimento professionale, in cui i bibliotecari potessero riconoscersi (e magari anche formarsi) e gli studiosi trovare piste sicure, larghe e ben mantenute, per avanzare nelle loro ricerche.
All'altezza della "primavera", infatti, di strumenti propriamente professionali l'Italia non disponeva, o quasi. Una certa pubblicistica biblioteconomica era esistita, d'accordo, e aveva toccato anche punte di notevole interesse (come il saggio del Chilovi Il governo e le biblioteche pubblicato sul «Politecnico» nel 1867), ma l'unico isolato tentativo di produrre uno strumento di una certa organicità, pur se a spettro forse troppo ampio e talora farraginoso, era stato quello compiuto con le Letture di bibliologia di Tommaso Gar (Torino: Unione tipografico-editrice, 1868).
L'iniziativa ufficiale venne subito seguita da quella privata, che vide spesso in prima fila le stesse persone. Nel 1887 Biagi avviò presso Sansoni la «Biblioteca di bibliografia e paleografia», collana preziosa ma di vita breve, in cui uscirono le regole catalografiche di Karl Dziatzko (tradotte da Angelo Bruschi nel 1887) e di Charles Jewett (tradotte dallo stesso Biagi l'anno seguente) e i due volumi già citati del Fumagalli (1887 e 1890)12. La sezione dedicata alla trattatistica biblioteconomica generale, poverissima nel primo volume dell'Ottino-Fumagalli, sarà rimpinguata nel secondo: nel 1893 Loescher pubblicò la traduzione del manuale del Gräsel, nel 1894 uscì nei manuali Hoepli quella del Petzholdt (curata da Biagi e Fumagalli, dopo le poche pagine anticipate da Filippo Garbelli nel 1880), e alle scarse opere italiane si aggiunse l'agile saggio del giovane Giuliano Bonazzi (Dell'ordinamento delle biblioteche, Parma: Battei, 1889).
Ancora al Biagi, fuori dai canali ufficiali, si deve un'altra iniziativa di grande importanza, la nascita - nel gennaio-febbraio 1888 - di un periodico che poteva adeguatamente rappresentare bibliotecari e biblioteche italiani, la «Rivista delle biblioteche» (poi dal 1895 «Rivista delle biblioteche e degli archivi»). Su questo piano, infatti, troviamo solo un modesto precedente, il «Giornale delle biblioteche» (1867-1873) dell'avvocato genovese Eugenio Bianchi, oltre a un'iniziativa di tipo diverso - ma con qualche ambizione di poter coprire anche questo spazio - come «Il bibliofilo» (1880-1890) di Carlo Lozzi13. Per confronto, solo nello stesso 1888 nacque il «Giornale della libreria» (inizialmente «Giornale della libreria, della tipografia e delle arti e industrie affini», staccatosi dalla «Bibliografia italiana») e nell'aprile 1899 inizierà le pubblicazioni «La bibliofilia» di Leo Samuel Olschki.
Tornando alle collane e raccolte, a «Indici e cataloghi» va collegata un'altra iniziativa importante di carattere non istituzionale, quella degli Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, avviata nel 1890 da Giuseppe Mazzatinti, professore nei licei e dal 1887 anche direttore della Biblioteca comunale di Forlì. Per incarico del Ministero il Mazzatinti aveva già compilato i tre volumi dell'Inventario dei manoscritti italiani delle biblioteche di Francia, uscito in «Indici e cataloghi» dal 1886 al 1888; nel 1887, presso l'editore Loescher, aveva pubblicato un primo fascicolo, rimasto senza seguito, della serie italiana.
Una maniera semplice e lampante per misurare la crescita dell'ultimo quindicennio del secolo ce la offre la preziosa Bibliotheca bibliographica italica. Vediamone qualche dato. Il primo volume dell'opera, uscito nel 1889, copre tutti i lavori italiani o relativi all'Italia (non solo di biblioteconomia, ma di bibliografia anche speciale e di bibliologia e storia della stampa, settori che sono quantitativamente prevalenti) dalle origini all'anno 1887, per un totale di 4339 numeri che corrispondono in pratica (con notizie collettive, aggiunte, annotazioni, ecc.) a circa 6000 segnalazioni. Con il secondo volume (edito nel 1895 e definito anche come primo Supplemento) e i quattro aggiornamenti successivi che arrivano a tutto l'anno 1900 (dovuti prima al solo Ottino, per gli anni 1895 e 1896, e poi ad Emilio Calvi) le schede vengono quasi raddoppiate: 4339 per i secoli anteriori all'Unità e i primi 27 anni del Regno, 3920 per gli ultimi tredici anni. In media, circa trecento nuove pubblicazioni all'anno, qualcosa di più per il periodo 1888-1896, qualcosa di meno per gli anni 1897-1900. Dovremmo sottrarre dai supplementi, a rigore, i casi di recupero retrospettivo di segnalazioni relative ad anni precedenti e a suo tempo sfuggite, ma il risultato non cambierebbe di molto. In sostanza, la produzione biblioteconomico/bibliografica italiana, nel quindicennio che va dalla "primavera" alla conclusione del secolo, raddoppia tutto quanto era stato realizzato in questo campo dall'erudizione sei-settecentesca e primoottocentesca e nel primo quarto di secolo di storia unitaria, collocandosi per quantità e qualità di nuove pubblicazioni annue a un livello consistente e più che dignitoso.
Tutti gli elementi qui ricordati convergono a indicare una consistente crescita e un promettente consolidamento della professione. Il segnale che più da vicino riguarda il filo di questa analisi è forse la nascita di un periodico professionale indipendente, la «Rivista delle biblioteche» del Biagi, che dal 1888 accoglie ampie e qualificate collaborazioni: non solo tutti i più noti e rappresentativi bibliotecari statali, ma anche impiegati di grado inferiore appassionati di lavori bibliografici, direttori di biblioteche civiche come Andrea Moschetti, Albano Sorbelli e Ippolito Isola, ecclesiastici come Ambrogio Maria Amelli e Franz Ehrle, archivisti come Eugenio Casanova, Luigi Fumi e Antonio Panella, paleografi come Cesare Paoli, editori come Piero Barbera e Leo Olschki, bibliografi come Achille Bertarelli, studiosi vicini alle biblioteche come Tommaso Casini, Alessandro D'Ancona e Vittorio Rossi. Non resta che un passo, ma difficile e determinante, la costituzione di un'associazione professionale, come quelle americana (1876), britannica (1877), tedesca (1900), francese (1906) e di altri paesi europei. Ma l'esito sarà, come vedremo, piuttosto diverso.

In una sala della Biblioteca Marucelliana di Firenze, non la più insigne ma la più moderna e vivace della città, si riunirono, in un pomeriggio di fine settembre del 1896, quindici bibliotecari e un bibliografo (il medico livornese Diomede Bonamici), per costituire la Società bibliografica italiana14. Dieci fiorentini (l'ex prefetto Torello Sacconi - non il suo successore Chilovi - e quattro funzionari della Nazionale, Angelo Bruschi direttore della Marucelliana e due suoi sottobibliotecari, Guido Biagi e Bartolomeo Podestà della Laurenziana), due milanesi (Giuseppe Fumagalli, fiorentino ma allora direttore della Braidense, e il bibliotecario dell'Istituto lombardo), Gennaro Buonanno dell'Universitaria (oggi Nazionale) di Torino, Attilio Pagliaini direttore dell'Universitaria di Genova (autore del ben noto Catalogo generale della libreria italiana), Alfonso Miola vicedirettore della Nazionale di Napoli. Aderivano, senza poter essere presenti, il direttore della Nazionale romana Domenico Gnoli, quello dell'Universitaria di Padova Luigi De Marchi, quello della Governativa di Cremona Filippo Salveraglio15.
Più precisamente, erano presenti tredici bibliotecari e due bibliotecarie: partecipavano all'eletta congrega Giulia Sacconi Ricci, la figlia di Torello, allora in Marucelliana, e Anita Castellano, entrata diciannovenne alla Nazionale fiorentina e poi sposata col conte Bruto (alias Giulio Cesare) Teloni, braccio destro del prefetto Chilovi. Poiché Anita e Giulia erano le due prime bibliotecarie entrate nelle biblioteche governative italiane, nel 1889 (solo sette anni prima), e l'intero ruolo ne annoverava soltanto quattro (Teresa Bari, entrata nel 1890 alla Nazionale romana, e Fanny Manis, fresca di nomina - febbraio 1896 - ancora alla Nazionale fiorentina, dopo alcuni anni d'insegnamento nelle scuole normali) la partecipazione femminile era proporzionalmente schiacciante.
L'intenzione, tuttavia, non era quella di costituire un'associazione bibliotecaria, ma una società di studi bibliografici aperta a bibliografi puri, bibliofili, editori e librai antiquari, studiosi ed eruditi interessati al libro e alla sua storia.
Un anno dopo, con la prima Riunione generale tenuta a Milano (23-25 settembre 1897) e l'elezione degli organi direttivi ordinari, la Società poteva esibire adesioni di tutto rilievo non solo sul piano quantitativo (oltre 250 soci) ma ancor più su quello del prestigio: il senatore e bibliofilo Pietro Brambilla eletto presidente, nel Comitato direttivo un luminare degli studi letterari come Alessandro D'Ancona, due studiosi più giovani ma già alla ribalta come Francesco Novati e Benedetto Croce, monsignor Achille Ratti futuro papa e allora dottore dell'Ambrosiana, l'editore Ulrico Hoepli come tesoriere. Fra gli aderenti, autorevoli parlamentari come Ferdinando Martini e Giustino Fortunato, letterati come Arrigo Boito, Anton Giulio Barrili e Alfredo Panzini, studiosi come Graziadio Ascoli e Cesare De Lollis, monsignor Giovanni Mercati e Achille Bertarelli, gli editori Barbèra, Bemporad, Bocca, Ongania, Treves, Vallardi (dal 1899 anche Leo Olschki, Paravia e Zanichelli, poi Loescher, Sansoni e altri). Altre adesioni di grande prestigio seguirono negli anni successivi, come quelle di Carducci, Vittorio Rossi, Rodolfo Renier, Vittorio Cian, Adolfo Venturi e Luigi Rava nel 1899, del senatore Pompeo Molmenti che ne fu presidente dal 1900 al 1906, di D'Annunzio, Fogazzaro e Ugo Ojetti nel 1901, del conte Alessandro Casati - futuro presidente dell'AIB -, del principe Scipione Borghese e del barone Leopoldo Franchetti nel 1906, di Pio Rajna, Raffaello Bertieri e Matteo Campori nel 1908, di Stefano Jacini, Leone Caetani e Santorre Debenedetti nel 1911. Non era da meno l'elenco dei soci corrispondenti, a partire dal 1899: da Léopold Delisle amministratore generale della Bibliothèque nationale a Herbert Putnam librarian of Congress, da Melvil Dewey a Karl Dziatzko, dal principe d'Essling a Marcelino Menéndez y Pelayo.
I soci, complessivamente, arrivarono a superare i cinquecento (521 nel 1901), iniziando poi a calare, prima leggermente e poi più vistosamente, fino all'estinzione delle attività con la grande guerra e la scomparsa dell'ultimo presidente, Francesco Novati, nel dicembre 1915.
Uno sguardo alle statistiche dei soci compilate dalla stessa Società dal 1897 al 190316 ne indica già, in pochissimi anni, la parabola. Tutti bibliotecari tranne uno, si è detto, i fondatori, e anzi tutti (salvo Agostino Locatelli) bibliotecari di biblioteche governative, ossia appartenenti a una stessa amministrazione, con ordinamento e inquadramento omogenei, frequenti trasferimenti da una sede all'altra o almeno contatti abituali con i colleghi. Questo era ancora il nocciolo della Società al suo primo congresso, nel 1897: la metà dei soci erano bibliotecari (precisamente 128 su 258), e tra questi 80 (quasi un terzo del totale) bibliotecari delle biblioteche governative, con componenti più ridotte di bibliofili e bibliotecari "dilettanti" di raccolte private, eruditi e studiosi, bibliografi, editori e librai.
Nel giro di due anni il nocciolo bibliotecario si incrementò di poche unità (142 soci al 1899, di cui 85 "governativi"), mentre aumentò molto rapidamente il numero degli eruditi, dei bibliofili e delle altre categorie e iniziarono le adesioni di biblioteche e altre istituzioni culturali. Nel 1901, quando il numero complessivo dei soci raggiunse la cifra più alta, i bibliotecari erano già in sensibile flessione (119 iscritti, di cui 70 "governativi") e l'emorragia continuò negli anni successivi, estendendosi via via ad altre categorie.

I soci della Società bibliografica italiana (1896-1915)17

  1897 1899 1901 1903 1906 1908 1911
bibliotecari governativi   80857068  30
altri bibliotecari48574944  28
bibliofili, collezionisti40818392
bibliografi20363935
eruditi, studiosi55129212175
editori, librai15323945
archivisti00718
biblioteche, altri enti0142224  40
totale258434521501511470389

Per avere un'idea della capacità di penetrazione iniziale della SBI e del relativo declino confrontiamo queste cifre con i ruoli di anzianità dei bibliotecari governativi. Nel 1902 risultano in servizio 36 bibliotecari (divisi in 6 classi), 91 sottobibliotecari (in 4 classi più i reggenti), 19 ordinatori (in due classi): nel complesso, distributori esclusi, 146 persone, rispetto alle quali gli aderenti alla Società bibliografica negli anni migliori sfiorano i due terzi, con un radicamento ancor più forte nei gradi più elevati. I trenta soci del 1911, invece, rappresentano meno di un quarto dei 126 bibliotecari e sottobibliotecari elencati nei ruoli ministeriali dello stesso anno (pur escludendo gli ordinatori, confluiti in una categoria unica con i distributori). È più difficile valutare la penetrazione della Società fra i bibliotecari delle biblioteche non statali: si tratta di un numero abbastanza contenuto, ma da molte località anche minori e un po' isolate, a indicazione dell'esigenza largamente sentita di collegamenti fuori dai confini municipali o regionali. Con molta cautela, si può stimare intorno al 50%, negli anni migliori, l'adesione alla Società di bibliotecari non statali per i quali si disponga almeno di qualche notizia biografica e professionale. Complessivamente, la massima penetrazione raggiunta dalla Società fra i bibliotecari (142 soci nel 1899) non è da poco se la poniamo in rapporto con i 454 bibliotecari censiti nella statistica del 1889.
Lo spoglio attento dell'elenco dei soci con i relativi anni di iscrizione ci mostra che il declino non si deve a ricambi (o mancati ricambi) generazionali - i bibliotecari che cessano di rinnovare l'iscrizione sono ancora regolarmente in servizio - né a particolari settori: si distaccano già dal 1900 sottobibliotecari governativi, direttori di biblioteche civiche, perfino soci fondatori come il Buonanno e altri personaggi di rilievo come Enrico Rostagno, Luigi Torri (dal 1901), Pietro Nurra e Giuseppe Lando Passerini (dal 1903). Molti altri soci vengono perduti nella presidenza Novati, dal 1906, forse non senza relazione con lo sganciamento della Società dalla «Rivista delle biblioteche»18: Domenico Gnoli dopo il 1906, Biagi, Morpurgo, Pagliaini e tanti altri dopo il 1908. Qualcuno, soprattutto fra stimati direttori di biblioteca (Bonazzi, Bruschi, Capra, Giorgi, Emidio Martini, Sacconi, ecc.), rimarrà iscritto fino alla fine, talvolta anche a riposo, si aggiungerà qualche bel nome più giovane (per esempio Luigi Ferrari dal 1903, Albano Sorbelli dal 1906), ma evidentemente la funzione del sodalizio, almeno nell'ambiente bibliotecario, si andava esaurendo.
Il sondaggio sui dati degli iscritti al 1911, pur se parziale, conferma anche in termini numerici che il prestigio della Società bibliografica aveva favorito numerose iscrizioni di enti, che in tal modo ricevevano la sua rivista, di bibliofili e mecenati del libro e delle biblioteche, mentre si era fortemente erosa la componente bibliotecaria. Un po' meno drastico il calo fra i bibliotecari non governativi (segno forse di una maggiore rispondenza agli interessi di bibliotecari isolati, o di meno pronunciata professionalizzazione), più clamoroso fra i governativi, sia ai livelli più alti (senza dimenticare defezioni "storiche" come quella del Chilovi, che risulta iscritto solo per l'anno 1903, in cui era vicepresidente e relatore della Riunione bibliografica tenuta nella sua Firenze) sia e forse ancor più a quelli intermedi, dove invece evidentemente esistevano interessi biblioteconomici e bibliografici - spesso di tipo tecnico-informativo più che storico-erudito - che si erano espressi nelle prime larghe adesioni.
Questa impressione può essere confermata dall'analisi dei temi congressuali e di quelli trattati nel bollettino della Società. Nelle tre riunioni della presidenza Novati non mancarono in effetti interventi su temi bibliotecari (nelle prime due, fra l'altro, una relazione venne affidata ad Ettore Fabietti e anche altre toccarono le biblioteche popolari o problemi di politica bibliotecaria attuale), ma probabilmente mancava il senso di un reale dibattito professionale, nel merito e fra competenti, che attirasse la partecipazione.
Appare evidente, insomma, che la funzione di collegamento e discussione su temi biblioteconomici (ma anche tecnico-bibliografici), dopo un promettente inizio nel quale fra l'altro ci si occupò intensamente di problemi di catalogazione e di classificazione, non si era realizzata, né d'altra parte aveva trovato strade per concretizzarsi l'aspirazione a fare della Società una fucina di imprese bibliografiche (come la progettata bio-bibliografia generale italiana), strada che - insieme all'affinarsi del dibattito metodologico sugli studi bibliografici e bibliologici - venne percorsa all'incirca negli stessi anni dalla tuttora viva e attiva Bibliographical Society britannica, fondata nel 1892. Nata a colmare un vuoto assai sentito, dai promotori e forse ancor più dai numerosi aderenti, nel giro di pochi anni la Società bibliografica italiana lo riprodusse, venendo meno alle aspettative - giuste o sbagliate che fossero - che aveva suscitato.
Una specie di necrologio di questa stagione, tra luci ed ombre, venne tracciato in uno degli ultimi interventi di Guido Biagi, l'editoriale che avviava nel 1923 la nuova serie della sua rivista: «Parve allora che un nuovo fervore di opere e di studi si andasse preparando [...]. È di quegli anni, o poco dopo, la fondazione di una Società Bibliografica Italiana che promosse congressi e adunanze, nei quali si discussero le più importanti questioni che si riferivano a libri o a biblioteche, dai quali dibattiti poteva un savio governo trarre norme per perfezionare gl'istituti esistenti o per nuove utili preveggenze. [...] Più tardi, quando la Presidenza della Società Bibliografica venne nelle mani del Prof. Francesco Novati, egli volle dare a quel sodalizio un organo proprio, Il libro e la stampa, e ridurlo più che altro una società di bibliofili e d'amatori. Il periodico, bello ed elegante, non rispecchiò più la vita e gl'interessi delle biblioteche e dei bibliotecari e cessò presto quando la Società, per la deplorata perdita del suo illustre Presidente, si disciolse senza lasciar traccia di sè»19.

Non è qui possibile seguire passo passo difficoltà e tentativi del lungo arco di tempo che va dal declino del progetto della Società bibliografica italiana (vita spesso stentata, peraltro, condusse anche la rivista del Biagi, con due interruzioni e notevoli ritardi) alla fondazione della prima Associazione dei bibliotecari italiani, l'odierna AIB, nel 1930. Pur in un clima politico spesso disinteressato o sfavorevole, si rinnovarono e infoltirono le file dei bibliotecari statali (una sessantina di immissioni in ruolo dal 1901 al 1913, da Luigi De Gregori e Domenico Fava a una nuova leva di brillanti bibliotecarie-studiose come Itala Santinelli, Maria Ortiz, Anita Mondolfo e Teresa Lodi) e si svilupparono le biblioteche locali.
La guerra e le condizioni difficilissime dell'immediato dopoguerra imposero una cesura: stagnarono le iniziative, altri apparvero i problemi più urgenti, chiusi erano gli accessi alla carriera almeno nelle biblioteche statali (dopo il 1913 passeranno vent'anni senza un concorso per bibliotecari direttivi) e si spense la generazione più anziana (nel 1905 era morto Chilovi, nel 1915 Gnoli, nel 1924 sarà la volta di Biagi e Ignazio Giorgi, nel 1922-1923 avevano lasciato le biblioteche Fumagalli, Carta e Morpurgo). Nel corso degli anni Venti, però, la questione delle biblioteche venne riportata all'attenzione dell'opinione pubblica, per esempio con alcuni noti interventi di Prezzolini, la riforma Gentile stimolò la creazione delle prime scuole universitarie per la preparazione dei bibliotecari e si ripropose l'esigenza di forme associative.
Già prima della guerra, nel 1903, si era costituita un'Associazione fra gli impiegati delle pubbliche biblioteche governative, presieduta da un parlamentare e con finalità essenzialmente sindacali, che si estinse dopo «vita breve e ingloriosa» verso il 190920. Esperienza assai più significativa era stata quella dell'Associazione nazionale fra i funzionari delle biblioteche e dei musei comunali e provinciali, costituita nel giugno 1911 in un convegno tenuto a Bologna, per iniziativa soprattutto di Ada Sacchi Simonetta, battagliera direttrice della Comunale di Mantova, con l'aiuto di Albano Sorbelli, dal 1904 direttore della Biblioteca dell'Archiginnasio21. L'Associazione, presieduta inizialmente dalla Sacchi (per qualche anno con Ivanoe Bonomi come presidente onorario), poi a partire dal 1921 dal Sorbelli e infine da Giuseppe Agnelli, direttore della Comunale di Ferrara, condusse un'azione di sensibilizzazione sia verso le amministrazioni locali che verso il Ministero della pubblica istruzione. Particolare risonanza ebbero i suoi due convegni nazionali, tenuti nel 1925 a Padova e nel 1928 a Bologna22.
Ma per un salto di qualità, verso un'associazione di tutti i bibliotecari italiani, bisognava attendere le condizioni favorevoli aperte nel 1926 dalla costituzione della nuova Direzione generale delle accademie e biblioteche. Nell'ottobre di quello stesso anno il Ministero sosteneva la partecipazione di Luigi De Gregori e Vincenzo Fago al convegno internazionale di Atlantic City, per il cinquantenario dell'American Library Association; l'anno dopo ad Edinburgo, per il cinquantenario britannico, l'intraprendenza dei due delegati italiani permetteva di fissare a Roma la prima seduta del Comitato internazionale delle biblioteche (1928) e, grazie all'appoggio governativo, il Congresso mondiale del 192923. Nel frattempo, dal luglio-agosto 1927, la Direzione generale si era dotata di una propria rivista, «Accademie e biblioteche d'Italia», che prendeva il posto - con tutte le differenze che comportava la sua appartenenza al vertice amministrativo - della rivista di Biagi, sopravvissuta poco più di un anno alla scomparsa del suo fondatore.
In questo clima, e a seguito del Congresso del '29, matura nel 1930 la costituzione dell'Associazione dei bibliotecari italiani (dal 1932 Associazione italiana per le biblioteche). L'Associazione nasce solida, con larghe adesioni (circa 300 soci nel corso del primo anno, oltre 500 nel 1937, per più di quattro quinti bibliotecari), anche se entro le pareti strette di una politica totalitaria e spesso ingombrante e di un vertice amministrativo energico che, pur giovandosi largamente delle migliori professionalità bibliotecarie e a volte valorizzandole con lungimiranza, intendeva fermamente tenere nelle proprie mani ogni reale potere decisionale.
Sulle vicende della costituzione e dello sviluppo dell'AIB fino alla caduta del fascismo mi sono soffermato altrove24: qui vorrei invece ripercorrerne solo un aspetto, quello della rappresentanza. Professione, l'abbiamo detto al principio, significa autonomia collettiva, quindi capacità di associazione e di consenso. Non basta costituire un'associazione, obiettivo tante volte accarezzato, bisogna che essa raccolga davvero le energie che ci sono e riesca ad esprimere una leadership riconosciuta, sia all'interno che all'esterno, una leadership che sia capace di rappresentarla efficacemente. Con questa chiave di lettura, le vicende della ricerca di una leadership associativa e quindi professionale - che potrebbero sembrare dettagli di una cronaca autoreferenziale - sono invece, a mio parere, specchio efficacissimo di una ricerca d'identità. Leggere la ricerca di un presidente per l'Associazione, insomma, come ricerca di un'identità collettiva.
Il disegno del primo organigramma dell'Associazione dei bibliotecari italiani, al di là della condizione formale e sostanziale di gradimento da parte del Ministro dell'educazione nazionale (e quindi, s'intende, anche del direttore generale del settore), ricalca solo in parte lo schema della Società bibliografica italiana. Per la Società, che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto saldare autorevole patronato per le biblioteche e dialogo nella più ampia comunità del libro e degli studi, se bibliotecari erano i fondatori e il "regista", Giuseppe Fumagalli, la presidenza doveva essere assunta, terminato il primo rodaggio, da un personaggio di spicco della società civile, che fu inizialmente il senatore Pietro Brambilla (1897-1900), poi Pompeo Molmenti (1900-1906), storico e uomo politico, e infine il professor Francesco Novati (1906-1915). Fino al 1908 una delle due vicepresidenze rimase al Fumagalli; nel comitato direttivo troviamo al massimo due o tre bibliotecari di particolare prestigio (ne fecero parte per qualche anno Biagi, Ratti, Luigi Frati, Morpurgo e Sorbelli), fra autorevoli studiosi, bibliografi e mecenati.
Più complesso il quadro che avevano di fronte i promotori dell'AIB: un'associazione in primo luogo professionale, che si proponeva però non solo di «tutelare gli interessi delle Biblioteche» ma anche di «cooperare alla diffusione del libro e della cultura» 25. Sembrò impraticabile, evidentemente, porne a capo un bibliotecario in servizio, per la difficoltà di interagire in questa veste con un direttore generale e un ministro, o un sottosegretario, che ne sarebbero stati contemporaneamente i superiori gerarchici, nel caso di un bibliotecario statale, o a cui era comunque indirettamente soggetto anche un bibliotecario locale, sottoposto alla vigilanza del soprintendente. Sarebbe stato comunque difficile formalizzare una leadership professionale, scegliendo tra le figure più stimate della vecchia guardia (come un Bonazzi o un Rostagno) o tra i più autorevoli esponenti della generazione più giovane (come Luigi De Gregori e Domenico Fava).
La scelta dell'onorevole Pier Silverio Leicht rappresentò una efficace quadratura del cerchio: da una parte autorevole patrono politico, in quanto parlamentare (deputato e dal 1934 senatore) e già sottosegretario all'Istruzione, quindi in grado di interloquire efficacemente con Parlamento, Governo e Direzione generale (che aveva avuto solo pochi mesi prima alle sue dipendenze), dall'altra persona «che fu già uno dei nostri»26, essendo stato in gioventù, dal 1900 al 1902, direttore della Biblioteca comunale di Udine. Il Leicht era inoltre apprezzato studioso e influente accademico (allora ordinario di storia del diritto italiano a Bologna, poi preside della Facoltà di giurisprudenza, membro di numerose accademie e commissioni ministeriali) e nell'organizzazione del Congresso mondiale del 1929, di cui aveva presieduto la Giunta esecutiva, aveva potuto allacciare quelle relazioni con la comunità internazionale dei bibliotecari che costituivano una delle principali motivazioni per la costituzione dell'Associazione. Leicht poteva quindi incarnare una rappresentanza indipendente dalle gerarchie amministrative e politicamente ascoltata, ma nello stesso tempo vicina all'ambiente professionale, informata e competente, a mio avviso non tanto per la lontana e breve esperienza di direttore di biblioteca, a cui darei un valore soprattutto simbolico (ma anche questo ha la sua importanza), quanto per quelle di studioso e amministratore (fu anche vicepodestà di Bologna, con delega alle istituzioni culturali) particolarmente attento e interessato ai problemi specifici delle biblioteche.
La composizione dei primi organi direttivi dell'Associazione va letta, naturalmente, guardando accanto ai nomi e cognomi gli istituti di appartenenza, che spesso costituiscono più delle qualità individuali l'elemento decisivo. Un terzo fattore, la qualifica e la funzione ricoperte, è a quest'altezza praticamente fisso: negli organi entrano i direttori delle biblioteche (mentre più tardi emergerà spesso, al contrario, una tendenziale e informale "incompatibilità" fra direzione di istituti importanti e cariche associative).
Il primo Consiglio direttivo vede, dopo il presidente Leicht, due vicepresidenze assegnate rispettivamente al direttore generale (Francesco Alberto Salvagnini) e al bibliotecario più autorevole per posizione e carriera, Giuliano Bonazzi direttore della Nazionale romana. Alle cariche di segretario e di tesoriere, politicamente meno esposte ma più determinanti per l'operatività quotidiana, Antonio Boselli e Luigi De Gregori, di una generazione successiva a quella del Bonazzi, rispettivamente direttori dell'Universitaria di Bologna e della Casanatense, quindi collocati in due sedi "strategiche", uno nel capoluogo emiliano dove risiedeva e insegnava il Leicht e l'altro nella capitale.
Gli altri quindici membri del Consiglio direttivo erano attentamente ripartiti. Dieci, per Statuto, dovevano provenire dai ranghi bibliotecari: sei vennero scelti tra i direttori di biblioteche governative e gli ispettori bibliografici (Angelo Bruschi della Nazionale fiorentina, Gaetano Burgada di quella napoletana, Domenico Fava dell'Estense, Pietro Nurra dell'Universitaria di Genova, Guido Calcagno e Alfonso Gallo), due fra i direttori di biblioteche civiche, autorevoli sia per qualità personali che per peso dei relativi istituti (Agnelli e Sorbelli)27, più un bibliotecario della Vaticana (monsignor Enrico Carusi28) e il vecchio Fumagalli, da tempo via dal servizio, ma direttore dell'Istituto italiano del libro di Firenze e sempre ascoltato anche in diversi ambienti professionali e politici. I tre consiglieri non bibliotecari vennero individuati in settori di primario interesse per l'azione dell'Associazione: il senatore Antonio Cippico, già presidente del Comitato esecutivo del Congresso del 1929 e autorevole membro del Consiglio superiore dell'educazione nazionale e della Commissione italiana per la cooperazione intellettuale, oltre che appassionato bibliofilo, il professor Guido Mancini, vicinissimo ai vertici del Partito nazionale fascista (poi fiduciario nazionale della Sezione Biblioteche dell'Associazione fascista della scuola, della Sezione Professori e assistenti universitari e quindi dell'intera Associazione, vicepresidente dell'Istituto nazionale di cultura fascista e membro della Camera dei fasci, oltre che tessitore delle relazioni fra regime e grande editoria, a partire da Mondadori), e Luigi Suttina, anche lui - come il Leicht - in gioventù bibliotecario alla Comunale di Udine, suo collaboratore di vecchia data in iniziative culturali nel Friuli e a Roma, capo ufficio stampa della Banca d'Italia. Gli ultimi due membri del Consiglio erano designati direttamente dal Partito e dall'Associazione fascista del pubblico impiego, per il primo triennio nelle persone degli onorevoli Carlo Emanuele Basile e Aldo Lusignoli, che non risultano però avere in nessun modo partecipato alle attività dell'AIB; dal 1933 in poi queste rappresentanze vennero assunte rispettivamente da Sorbelli e da Mancini.
Già il Comitato promotore dell'Associazione aveva prefigurato questo organigramma, con Leicht alla presidenza, Salvagnini vicepresidente e una più ampia rappresentanza di bibliotecari e istituti: i direttori di tutte le Nazionali (anche Torino, rappresentata da Luigi Torri, Milano con Tomaso Gnoli, Venezia con Luigi Ferrari, Palermo dove era ancora Boselli), un'altra governativa di alto prestigio (la Laurenziana, rappresentata da Rostagno), tutte le biblioteche statali romane di rilievo, anche non facenti capo alla Direzione generale (con Gulì direttore dell'Alessandrina, Vitale dell'Angelica, Pecorini-Manzoni della Vallicelliana, la Ortiz di Archeologia e storia dell'arte, la Caputi della Medica, oltre a Menghini per la Biblioteca del Risorgimento, Gabrieli per quella dell'Accademia dei Lincei e Pintor per il Senato, anche se già in veste di "bibliotecario onorario", essendogli subentrato dal 1929 il Chelazzi). Completavano il gruppo il già ricordato Mancini e Vincenzo Fago, tessitore delle relazioni internazionali fino al Congresso del '29, mentre si sarebbero aggiunti solo a formalizzazione avvenuta il Carusi, il Cippico e il Suttina.
I ritocchi successivi non modificarono sostanzialmente il quadro, pur accentuandone alcune caratteristiche. La "promozione" di Mancini a vicepresidente, dal 1933, tolse ai bibliotecari in senso stretto l'unica carica di formale rappresentatività, ponendo vistosamente ai fianchi di Leicht Direzione generale e Partito, in veste che potremmo dire di "tutori", ossia controllori e patrocinatori (più la prima funzione della seconda, ma anche questa talvolta utile per aggirare ostacoli alle attività associative). Il vero staff di Leicht, invece, era costituito dalle due figure "tecniche", segretario e tesoriere, affiancati a partire dal 1933 da due vicesegretari: Guglielmo Passigli vicedirettore della Vittorio Emanuele e Guido Zacchetti professore di liceo comandato alla Casanatense (ossia da Luigi De Gregori), a cui si aggiunse poi Renato Intendente, impiegato al Ministero dell'educazione nazionale e pure collaboratore di De Gregori, con la "promozione" del primo e poi dell'ultimo a secondo segretario. Nel Consiglio, sempre nel 1933, vediamo entrare per la prima volta una donna (Maria Ortiz, seguita nel 1936 da Nella Vichi) e un funzionario amministrativo della Direzione generale (Ettore Apollonj, che incontreremo ancora), mentre con l'addio di Giuseppe Agnelli resterà il solo Sorbelli a rappresentare i bibliotecari degli enti locali (soltanto nel 1940 sarebbe entrato Luigi Guasco, della Biblioteca Romana annessa all'Archivio Capitolino, insieme a Enrico Damiani della Camera dei deputati, ribattezzata dei fasci e delle corporazioni). Insomma una certa chiusura - probabilmente inevitabile con la guerra alle porte e poi in atto - in cui nel massimo organo (come del resto fra gli iscritti in regola) crescono i direttori di biblioteche governative e i funzionari ministeriali e si rarefanno un po' la rappresentatività territoriale e l'apertura all'esterno29. Del resto una parabola si va chiudendo: i contrasti del 1932-1933 tra Associazione e Direzione generale hanno portato a sviluppare una segreteria effettiva, a stretto contatto personale col presidente, che ha abbastanza svuotato il ruolo del Consiglio, sempre più necessario è divenuto l'appoggio organizzativo del Ministero, con la contiguità operativa giocata o subita come condizione di agibilità dell'Associazione, mentre l'azione politica all'esterno e verso l'opinione pubblica è evidentemente tarpata dal vortice rovinoso in cui è stato cacciato il paese30.
Il crollo del fascismo e la Liberazione rappresentarono inizialmente, almeno per i bibliotecari più impegnati, l'aprirsi di una fase diametralmente opposta alla precedente, da un occhiuto e muscoloso totalitarismo (anche se poi rivelatosi tragicamente incapace ed imbelle, a confronto con la pretesa Italietta liberale che nonostante Caporetto aveva vinto la grande guerra) a una piena democratica libertà d'idee e d'iniziative. Ma a ben guardare non cambiavano più di tanto gli elementi del quadro, almeno per quel che riguarda la nostra linea di indagine.
Le prime iniziative di autoorganizzazione dei bibliotecari, ancora sotto l'occupazione tedesca, rientrano in quelle sotterranee (quando non strettamente clandestine) attività di solidarietà e di agitazione antifascista e antinazista, centrate da una parte sulla resistenza al giuramento di fedeltà alla Repubblica di Salò, dall'altra sull'aiuto a rifugiati e perseguitati. In quest'ambito nasce la prima esperienza organizzata di cui si abbia notizia, quella dell'Unione italiana archivi biblioteche e belle arti (UIABBA)31, e si sviluppano iniziative minori, anch'esse di carattere soprattutto sindacale. Nelle difficilissime condizioni del momento, particolarmente sensibili erano infatti le esigenze di carattere materiale, accanto a quelle più propriamente professionali, ma la ricerca di unità d'azione su questo terreno con i colleghi facenti capo a rami vicini della stessa amministrazione (come le soprintendenze alle antichità e belle arti) o a professionalità tecniche affini (come gli archivisti di Stato), o tra bibliotecari appartenenti ad amministrazioni diverse (statali, di enti locali o di enti diversi, per non parlare di posizioni ancora più lontane, fuori dalle amministrazioni pubbliche o addirittura dal lavoro dipendente in senso stretto), non poteva non infrangersi, entro un'ottica sindacale, contro le barriere dei comparti, sulle quali questa si basava.
Non si poteva che ripartire, insomma, dall'associazionismo professionale, pur se mutatis mutandis. Intorno a questo nodo ruotano le riflessioni e le discussioni anche aspre - per quanto è possibile ricostruire dai carteggi conservati - che vedono come protagonisti Francesco Barberi, coinvolto nell'UIABBA ma distaccatosene già nel settembre 194432 e impegnato soprattutto a riallacciare i contatti con i colleghi fiorentini, Enrico Jahier, il più convinto ed energico fra questi ultimi, l'anziano e malandato ma ancora attivissimo Luigi De Gregori, a cui i più giovani guardavano come migliore rappresentante della tradizione prebellica, e il figlio Giorgio, già legato da una profonda amicizia con i primi due. Non possiamo ripercorrere qui nei dettagli questa vicenda, ma i punti salienti sono a mio avviso i seguenti: la convinzione, sia in Barberi che in Jahier, che la rifondazione dell'Associazione dovesse avere carattere professionale, basarsi su una solida alleanza e pari dignità fra bibliotecari statali e degli enti locali ed essere impostata in sintonia, fin dal principio, fra i due nuclei più consistenti (e sempre tacitamente sentiti come in competizione), quello romano e quello fiorentino; la necessità di un contatto con i referenti politici e i vertici amministrativi, rispetto ai quali si voleva mantenere una piena autonomia di principio e di pensiero, ma senza i quali - piacesse o no - una politica bibliotecaria incisiva non si poteva portare avanti (e, d'altra parte, delicati non potevano non essere anche i rapporti diretti e personali, per la circostanza di fatto - su cui non si può puramente sorvolare in nome di una teoria astratta dell'associazionismo professionale - che parecchi dei leader dell'Associazione erano e sarebbero stati funzionari di grado elevato di quella stessa amministrazione)33.
Due elementi variabili, invece, erano il coinvolgimento di forze esterne alla professione e il rapporto con l'associazione prebellica. Riguardo al primo di questi punti, in una fase di rifondazione della società civile e non solo dell'Associazione era ovviamente indispensabile guardare anche all'esterno della comunità professionale, sollecitare ascolto e sostegno nell'opinione pubblica e nel mondo della cultura e dell'informazione, insomma cercare - come scriveva Barberi - «di creare nel paese quella diffusa coscienza bibliotecaria, che là dove esiste è il primo fattore d'uno sviluppo democratico delle Biblioteche»34. Come precedente non si poteva additare che la lontana e idealizzata esperienza della Società bibliografica italiana, nei suoi primi dieci anni, a cui si contrapponeva un giudizio seccamente negativo, per questo aspetto, sull'AIB prebellica: entrambe le valutazioni, negli scritti di Barberi e di Jahier che appartengono a quella stagione, appaiono però oggi sovradeterminate dalle generose speranze che li animavano e dal comprensibile impulso a dar voce liberamente alle delusioni del passato recente richiamando, per contrasto, un punto di riferimento prefascista e liberale, di cui era invidiabile l'albo delle adesioni, ma molto meno nutrito quello dei risultati.
La vecchia AIB prebellica, di fatto in panne ma non formalmente estinta, carente di legittimazione democratica (perché le sue cariche non erano elettive) e caratterizzata da una contiguità un po' imbarazzante col regime e con i vertici amministrativi, sembra in effetti ignorata o quasi nelle prime iniziative e discussioni del dopoguerra, e solo nel corso del 1946, mentre tramontano soprattutto per l'intransigenza fiorentina le ipotesi di un'organizzazione con scopi anche sindacali, i contorni di una nuova associazione bibliotecaria cominciano a delinearsi in consapevole ripresa - o altrettanto consapevole rifiuto - di tratti di quella del 1930. Sarà in effetti la Direzione generale delle accademie e biblioteche a porre nella primavera del 1947 e poi nuovamente nell'estate del 1948 il problema della sussistenza della vecchia Associazione, preoccupandosi evidentemente del carattere indipendente della nuova. Nella seconda occasione vennero riuniti presso la Direzione generale, per un improvvisato e informale colloquio con Jahier, alcuni membri degli ultimi organi della vecchia Associazione, compreso il Leicht; poi il Comitato provvisorio della nuova Associazione, ormai in attività da un paio d'anni, accettò pro bono pacis di cooptare due membri del Consiglio direttivo prebellico, così da sancire anche formalmente la continuità fra le due organizzazioni35.
Nel frattempo infatti i bibliotecari fiorentini, sollecitati dall'Unione romana, avevano tenuto nel luglio 1945 un prima riunione, in cui era stata scartata l'ipotesi di un'organizzazione di carattere soprattutto sindacale in favore di un'associazione prevalentemente professionale, e avevano diffuso il 18 febbraio 1946 un appello per la ricostituzione su nuove basi di una «Associazione delle biblioteche italiane». L'appello si era incrociato con il progetto romano, ispirato da Luigi De Gregori e portato avanti da Giorgio e da Virginia Carini Dainotti, di dar vita a un nuovo periodico professionale, una rinata «Rivista delle biblioteche», indipendente, che colmasse il vuoto lasciato da «Accademie e biblioteche d'Italia», sospesa nell'estate del 1943. Alla fine di marzo era stato quindi diffuso un nuovo appello, concordato con i colleghi romani e che vedeva come primo firmatario Luigi De Gregori, col quale aveva inizio la raccolta delle adesioni alla nuova Associazione.
Convenuto che il centro organizzativo della rifondazione sarebbe stato a Firenze - per l'attivismo di Jahier, probabilmente, ma anche per marcare meglio la discontinuità politica e la distanza dalla cittadella dell'Amministrazione - la formula istituzionale fu quella di una specie di "tavola rotonda", un Comitato centrale provvisorio costituito dai direttori delle principali biblioteche fiorentine: al principio, a quanto pare, le quattro governative (Nazionale, Marucelliana, Laurenziana e Riccardiana), poi anche il Vieusseux, la Biblioteca e Archivio storico del Comune, la Biblioteca della Facoltà di lettere dell'Università e la Biblioteca americana. Il Comitato fu presieduto dalla direttrice più anziana, Teresa Lodi della Laurenziana36, e animato e gestito di fatto da Jahier, direttore della Marucelliana e segretario. Per la prima volta, quindi, un bibliotecario alla carica più elevata, la presidenza, oltre che alla segreteria, e anzi una bibliotecaria, sia pure - come per Fumagalli agli esordi della Società bibliografica italiana - in via transitoria.
La soluzione transitoria - che durò poi di fatto quasi cinque anni, fino al febbraio 1951 - evidenzia tratti interessanti e indicativi della difficoltà del "guado" da passare. Da una parte, infatti, si prefigura un'associazione professionale autonoma, costituita da bibliotecari che dovunque operino si sentono membri di una stessa comunità e pari fra loro, in linea di principio, come non possono non essere in un'associazione di professionisti, con una leadership che è quindi liberamente scelta da loro e fra loro. Ma poi la difficoltà di mettere in pratica questa visione di piena rappresentanza democratica - giustificata anche dalle difficoltà che, nelle condizioni del paese, comportava la raccolta delle adesioni e l'avvio di corrette procedure elettorali - si tradusse in un organo costituito su un formale piede di parità fra persone che però ne facevano parte solo in quanto incarnavano la funzione di direzione di uno degli istituti bibliotecari presi in considerazione. Il massimo di parità, insomma - per questo ho suggerito l'immagine di una arturiana "tavola rotonda" - ma anche di dipendenza dalla posizione ricoperta non nell'associazione o nella professione, ma negli organigrammi degli enti di appartenenza. La formula che sarebbe stata appropriata, insomma, a un gruppo di cooperazione o di coordinamento fra istituti (come, molto tempo dopo, il Consiglio interbibliotecario toscano), piuttosto che a una libera associazione di persone.
Caratteristica qualificante della rifondazione dell'AIB fu anche la sua articolazione territoriale, in Sezioni fin dal principio denominate «regionali» (con evidente e documentato riferimento alle speranze connesse al nuovo ordinamento costituzionale, anche se per non urtare troppo la suscettibilità dei vertici ministeriali fu diramata nel 1947 una smentita ufficiale della lettura politica di questa articolazione, presentata come rispondente a una banale prassi organizzativa). Di fatto, però, le Sezioni assunsero i contorni che avevano allora le circoscrizioni delle Soprintendenze bibliografiche, svincolandosene solo con l'attivazione delle Regioni a statuto ordinario, nel 1972. Le libere elezioni fra i soci, quindi, si sperimentarono inizialmente solo a livello territoriale, a partire dal 1948, in qualche caso anche prima dell'approvazione dello Statuto, che avvenne il 15-16 novembre di quell'anno nell'Assemblea dei delegati regionali tenuta a Palermo37. I risultati in effetti suscitarono qualche delusione, in quanto pur portando per la prima volta i bibliotecari ad esprimere direttamente loro rappresentanti, si disponevano quasi sempre - difficile dire se spontaneamente o perché pilotati - secondo un rigido mosaico di funzioni e di istituti, piuttosto che in base all'impegno e al consenso dei singoli. Esemplificando, alla presidenza veniva chiamato quasi sempre il soprintendente (che poi era nella maggior parte dei casi la soprintendente), alla vicepresidenza il direttore della più prestigiosa biblioteca civica della regione (ma poteva anche trattarsi, in regioni con insediamenti schiaccianti delle biblioteche governative, del direttore di una di esse), e a completare il comitato i direttori delle biblioteche principali dei capoluoghi di provincia (o di altre grandi biblioteche del centro maggiore, in regioni dominate da una metropoli).
Il disegno anticentralistico e formalmente egualitario (ma nello stesso tempo elusivo dei problemi di una rappresentanza davvero libera) si espresse nello Statuto del 1948, forse insieme ai dubbi sulla effettiva praticabilità di un'elezione nazionale diretta, con la formula di un Consiglio direttivo costituito dai presidenti dei Comitati regionali, che poi avrebbero eletto un presidente nazionale (anche esterno al Consiglio stesso) e due vicepresidenti (necessariamente scelti al proprio interno) e nominato un segretario e un tesoriere. La formula statutaria riguardo alla presidenza rispecchiava, pur se in maniera non vincolante, l'orientamento a riproporre, in sostanza, il modello Leicht (e, prima ancora, quello della Società bibliografica italiana dopo il primo anno di rodaggio): un presidente cercato all'esterno, fra personalità della cultura o della politica che potessero portare la voce di biblioteche e bibliotecari fuori dal loro spazio chiuso e intervenire autorevolmente in loro favore. Al principio, a quanto pare, si era ipotizzato che un bibliotecario potesse assumere finalmente e stabilmente questa carica: Jahier aveva pensato a Luigi De Gregori, la cui autorevolezza e credibilità democratica erano fuori discussione, ma questi, e poi Barberi ed altri, avevano riproposto invece come più praticabile e opportuna la ricerca di una figura esterna. La scelta, come si sa, cadde infine sul conte Alessandro Casati (deputato alla Costituente e poi senatore, già rappresentante liberale nel CLN e ministro nel 1944-1945), dopo qualche scaramuccia procedurale con alcuni bibliotecari di spicco, come Giraldi e Papò, che non concordavano sulla nomina di un esterno o, più probabilmente, intendevano contestare la regia dell'operazione38. Di fatto, con un Consiglio direttivo pletorico e inconvocabile - tanto più nelle condizioni di allora - e un presidente assorbito da molti altri e non minori ruoli, oltre che anziano e sofferente, era inevitabile - anche se è difficile dire quanto se ne fosse consapevoli - che il timone dell'Associazione restasse totalmente o quasi nelle mani del segretario, che allora rispondeva al nome prestigioso di Francesco Barberi, ma mancava - come spesso gli fu fatto notare - di attribuzioni formalmente sue e di una piena legittimazione rappresentativa39.
Non si vuole negare, naturalmente, che fosse difficile e delicato affidare la rappresentanza formale dell'Associazione a un bibliotecario che - posto entro l'Associazione nella condizione di principio di piena libertà individuale e parità con gli altri soci - fosse poi nella sua vita professionale coinvolto in una ragnatela di rapporti gerarchici o comunque di soggezione di fatto con altri colleghi e con gli interlocutori politici ed amministrativi. Inconvenienti di questo genere si verificano ancora e sono in qualche misura inevitabili, anche se non è il caso di arrendervisi supinamente. Ma non si può non notare che queste considerazioni potevano funzionare da efficacissimo alibi alle tensioni interne, ai veti reciproci o di gruppo, insomma all'incapacità o renitenza ad accettare fino in fondo il gioco del consenso e della rappresentanza, riparandosi piuttosto in equilibri bloccati e manovre poco trasparenti: il sistema di contrappesi fra le cariche, i ruoli operativi fondamentali affidati a figure sottratte alla legittimazione diretta, il ricorso a "sponde" esterne - nell'amministrazione o nella politica - in alternativa al confronto aperto dentro l'Associazione o per surrogare l'insufficienza dei consensi raggiunti.
Volgendo al termine il mandato del primo Consiglio direttivo e di Casati, la riforma statutaria del 1953 ridefinì la composizione del massimo organo associativo e la sua elezione, che divenne diretta e in sede congressuale (a scrutinio segreto fra i soci presenti o rappresentati per delega), con vincoli di voto e di rappresentanza legati alla distinzione che era nel frattempo venuta in primo piano, quella tipologica. Il Consiglio direttivo, composto da nove membri, doveva infatti rispecchiare una proporzione prestabilita fra i rappresentanti di bibliotecari e impiegati di biblioteche statali (fra i quali almeno un soprintendente bibliografico), bibliotecari e impiegati di biblioteche pubbliche di enti locali e morali, bibliotecari di istituti scientifici ed ecclesiastici, e soci che non rientrassero nelle tre precedenti categorie (in genere non bibliotecari). Questa proporzione, non fissata una volta per tutte nello Statuto, era stabilita per il primo turno elettorale da una norma transitoria, approvata nel 1954, che prevedeva 4 bibliotecari statali, 3 di enti locali e uno per ciascuna delle altre due categorie. Il Consiglio poteva eleggere un presidente al proprio interno oppure cooptarlo dall'esterno, come decimo membro: il meccanismo era quindi analogo a quello stabilito nel 1948, per questo aspetto, anche se diversa era la base di partenza.
In pratica anche nelle elezioni dell'ottobre 1954 prevalse la scelta di una figura esterna alla professione, il papirologo Aristide Calderini, professore all'Università cattolica di Milano, già eletto pochi mesi prima presidente della Sezione lombarda ed entrato nel Consiglio come rappresentante dei soci non bibliotecari. I due mandati di Calderini (1954-1957 e 1957-1960), molto più presente di Casati e piuttosto autoritario, conservatore e clericale, deciso a non fare - sono parole sue - il "presidente di parata", furono caratterizzati da alcuni risultati significativi (la crescita delle adesioni, l'avvio di una rivista autonoma col titolo di «Notizie AIB», ecc.) ma anche da varie tensioni, sia con i bibliotecari degli enti locali, riunitisi nel 1949 nel Comitato d'intesa (una sorta di coordinamento fra i direttori dei maggiori istituti, piuttosto battagliero nelle sue rivendicazioni), sia con le frange più impegnate e politicamente aperte dei bibliotecari statali. Queste tensioni, aggravatesi dopo il rinnovo delle cariche del 1957 (in cui uscirono dal Consiglio direttivo Giorgio De Gregori, Anna Saitta Revignas e il vicepresidente Alberto Serra Zanetti, sostituiti da colleghi più "docili", mentre Barberi lasciò la segreteria a Michelangelo Gallo), si concentrarono sulla questione del rifacimento dello Statuto e sfociarono nella crisi dell'Assemblea straordinaria di Chianciano (1960).
A Chianciano le proposte del Consiglio direttivo uscente si scontrarono in apertura di seduta con un ordine del giorno, esposto da Giovanni Cecchini (direttore fino al 1959 dell'Augusta di Perugia e presidente del Comitato d'intesa fra i bibliotecari degli enti locali), che indicava come principi guida da seguire nella riforma statutaria il carattere primariamente professionale dell'Associazione, garantito dal riservare ai soli bibliotecari il ruolo di soci ordinari con diritto di voto, e l'articolazione tipologica della rappresentanza in Consiglio, divisa paritariamente fra le tre categorie dei bibliotecari statali, di enti locali e delle biblioteche speciali, con autonomia riconosciuta a ciascun settore per il trattamento delle questioni di proprio interesse. Nella maratona assembleare prevalse largamente questa posizione, sostenuta dai più autorevoli esponenti delle diverse categorie (Barberi e De Gregori, Balsamo e Papò, Bottasso e Piersantelli, ecc.), ma con contrasti procedurali che portarono alle dimissioni immediate del Consiglio direttivo uscente, con successivi strascichi legali, e all'elezione un po' avventurosa di un Comitato direttivo provvisorio che gestisse l'Associazione fino al congresso successivo40.
Con la svolta di Chianciano venne dunque definitivamente archiviata l'idea (l'illusione?) di una leadership scelta all'esterno ma "pilotata" e l'AIB, pur mantenendo il proprio orientamento in favore delle biblioteche prima che dei bibliotecari e l'apertura al contributo e alla partecipazione di non bibliotecari, si connotò definitivamente come organizzazione a guida professionale. Tuttavia, se questa era la linea chiaramente prevalsa e se nel concitato dibattito si erano spesi tutti i bibliotecari più noti e rappresentativi, la presidenza del Comitato provvisorio eletto in quell'occasione, e quindi quella dell'Associazione nei mandati 1961-1964, 1964-1967 e 1967-1969, venne affidata a un personaggio "esterno a metà" e poco o nulla coinvolto nel travaglio dell'Associazione, Ettore Apollonj. Ultrasettantenne, entrato nell'amministrazione dell'Istruzione nel lontanissimo 1911 e nella Direzione generale alla sua costituzione, transitato un po' indigestamente da capodivisione a ispettore generale bibliografico (ossia a un ruolo tecnico normalmente ricoperto da bibliotecari e a loro "scippato") nel pure lontano 1941, scavalcato dopo il 1945 nell'aspirazione alla poltrona di direttore generale, a riposo da diversi anni, Apollonj era dal 1955 presidente dell'Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche, carrozzone del defunto regime fulmineamente (e non senza successo) convertito nel nuovo a una politica moderata e assistenziale, un po' "buonista" e un po' clientelare. Quindi una figura di equilibrio non solo fra professione e apparato amministrativo, ma anche fra predominio dei bibliotecari statali e nuove istanze delle biblioteche pubbliche e della diffusione della cultura. Ancora una volta, insomma, una scelta elusiva, che si poteva presentare come al di sopra delle parti ma rischiava di rimanerne al di sotto.
Pur con qualche contrasto, qualche "siluramento" o defezione che farà discutere (l'uscita di Barberi dal Consiglio direttivo nelle elezioni del 1967 e, nella stessa occasione, la sostituzione di De Gregori come segretario) e una certa inerzia soprattutto negli ultimi anni, ma non senza consensi e collaborazioni significative (come quella di Pagetti, consigliere dal 1964 e vicepresidente dal 1967), si arriva quindi alla svolta del 1969, quella del congresso di Porto Conte. Gli scontri di quel congresso, che spesso richiamano Chianciano (e le assemblee del '68), non erano però, in quell'occasione, rivolti un po' troppo facilmente all'esterno, ma chiaramente focalizzati su due proposte programmatiche apertamente esposte e rappresentate da gruppi di colleghi41. Vincerà nettamente la lista guidata da De Gregori e Pagetti, chiudendo la strada all'ennesima riproposizione della presidenza Apollonj.
Renato Pagetti, direttore della Biblioteca civica di Milano, sarà il presidente dell'Associazione dal 1969 al 1975 (rieletto, dopo il primo triennio, nel 1972). Il primo presidente che potesse dirsi pienamente un bibliotecario, e nello stesso tempo il primo presidente che venisse da una biblioteca pubblica, di ente locale. Se non fu facile a tutti digerire di essere per la prima volta rappresentati da un bibliotecario come loro e fra loro (invece che da persona che si presumesse "fuori dalla mischia"), e da quel bibliotecario (comunale, milanese, politicamente impegnato), si trattava di nuovo di un passo irreversibile.
Dopo di lui, potrà trattarsi di una donna (come Angela Vinay, che gli successe nel 1975) o di un uomo, di un direttore o di un funzionario, statale, di ente locale o di qualsiasi altra amministrazione (perfino non italiana, come l'Università europea), ma comunque di un bibliotecario fra bibliotecari, e la sua collocazione sarà un elemento importante del suo profilo - insieme agli interessi professionali, all'orientamento politico e alla provenienza geografica - ma non determinante e, tanto meno, una conditio sine qua non per rappresentare la comunità professionale. Più o meno brillante e più o meno amato, sarà comunque uno fra i soci di volta in volta scelto e accettato (anche un po' obtorto collo, va da sé) da tutti per rappresentare tutti.


Questo contributo e il successivo, di Simonetta Buttò, riprendono in parte i temi trattati in due conferenze tenute presso l'Università degli studi di Udine, per iniziativa del Dipartimento di storia e tutela dei beni culturali, il 16-17 gennaio 2001. Siamo lieti di ringraziare qui l'Università di Udine e, in particolare, gli amici Mauro Caproni ed Angela Nuovo, per il loro gentile invito. A questa ricerca fanno da ideale premessa le riflessioni su "storia delle biblioteche", "storia della biblioteconomia" e "storia dei bibliotecari" esposte nella mia relazione Per una storia della professione bibliotecaria al 46° Congresso dell'Associazione italiana biblioteche (Oltre confini e discontinuità: atti del XLVI Congresso nazionale, Torino, 11-13 maggio 2000, Roma: AIB, 2001, in corso di stampa).

1 Per una discussione più ampia rinvio alle mie due rassegne Una strategia per la professione: spunti da una indagine sulle professioni in Italia, «Bollettino d'informazioni AIB», 28 (1988), n. 4, p. 403-408, e Il bibliotecario tra servizio e mercato: tre studi sulla professione, «Bollettino d'informazioni AIB», 31 (1991), n. 2, p. 166-175.

2 Questo termine, attestato occasionalmente da più di un secolo, non ha avuto fortuna in Italia. Lo si incontra per esempio nella traduzione, dovuta ad Arnaldo Capra, del Manuale di biblioteconomia di Arnim Gräsel (Torino: Loescher, 1893, p. 93, 327, 328). Lo riprese il Biagi nel famoso intervento del 1906 Per una legge sulle biblioteche, «Nuova antologia di lettere, scienze ed arti», n. 838 (16 nov. 1906), p. 207-216, in cui notava che «da noi il bibliotecariato non esiste, e comincia appena ora ad affermarsi» e auspicava che, attraverso formazione ed abilitazione, «il bibliotecariato sia riconosciuto come professione»; sul «bibliotecariato» come «professione per la quale occorrevano, non soltanto attitudini, ma cognizioni speciali e una idonea preparazione» tornò in un editoriale del 1923 (Dopo trenta e più anni, «Rivista delle biblioteche e degli archivi», n.s., 1 (1923), n. 1/2, p. 1-4). Di «riconoscimento del bibliotecariato come "professione", e, perchè tale, bisognoso di una preparazione culturale-tecnica particolare» riparlò Enrico Rostagno, direttore della Biblioteca Medicea Laurenziana e docente alla Scuola per bibliotecari e archivisti paleografi di Firenze, nella sua relazione Le scuole per i bibliotecari in Italia al Congresso del 1929 (Primo Congresso mondiale delle biblioteche e di bibliografia, Roma-Venezia 15-30 giugno MCMXXIX-A. VII: atti, Roma, Libreria dello Stato, 1931-1933, vol. 5, p. 56-67: 58). Troviamo il termine impiegato da Luigi De Gregori almeno nel 1934 (ma traducendo il titolo di una relazione di Fritz Milkau: cfr. [Luigi De Gregori], Le riunioni internazionali di Chicago e di Avignone, «Accademie e biblioteche d'Italia», 7 (1933/34), n. 3/6, p. 222-238: 229) e poi al centro del suo ultimo intervento, Il bibliotecario, «Rivista delle biblioteche», 1 (1947) n. 1, p. 3-13. Più tardi lo userà, per esempio, Virginia Carini Dainotti, Appunti sull'ideologia della biblioteca pubblica e sulla deontologia del bibliotecario-animatore di cultura, in: Studi di biblioteconomia e storia del libro in onore di Francesco Barberi, Roma: AIB, 1976, p. 147-171: 165; cfr. anche Attilio Mauro Caproni, Virginia Carini Dainotti e il tema della formazione dei bibliotecari, «Bollettino AIB», 39 (1999) n. 4, p. 436-442. Virginia Carini Dainotti l'aveva già introdotto, con l'espressione «scuole di bibliotecariato», nella parte quinta degli Standard per le biblioteche pubbliche del 1965, da lei stesa (Associazione italiana biblioteche, La biblioteca pubblica in Italia: compiti istituzionali e principi generali di ordinamento e di funzionamento, Roma: AIB, 1965, p. 50).

3 Cfr. Report of the Commissioners appointed to inquire into the constitution and government of the British Museum, with minutes of evidence, London: HMSO, 1850.

4 Ivi, Q. 10469.

5 Cfr. Elisabetta Francioni, Giulia e le altre: donne bibliotecarie in Italia tra Ottocento e Novecento, «Copyright», 1997-2001, p. 59-73.

6 Pasquale Villari, Di chi è la colpa?, o sia La pace e la guerra, Milano: Tipografia di Zanetti Francesco, 1866, p. 31. Ho corretto nella citazione due probabili sviste: «burocratici» e «impossibili».

7 Statistica del Regno d'Italia. Biblioteche, anno 1863, Firenze: Tip. dei successori Le Monnier, 1865.

8 Statistica delle biblioteche, Roma: Tip. nazionale di G. Bertero, 1893-1896.

9 Cfr. Giuseppe La bibliografia, Roma: Fondazione Leonardo, 1923, p. XXII, LXXVI-LXXVII.

10 «Accomunare il lavoro scientifico, agevolarne la conoscenza, procurare che il patrimonio delle verità ormai acquisite possa a tutti soccorrere pronto, in ogni parte d'Italia, è l'assunto che si propone questo Elenco delle Pubblicazioni Periodiche, da servire alla maggior diffusione del prestito fra biblioteche e biblioteche, e fra biblioteche e istituti di pubblica educazione»: così si legge nella prefazione (A sua eccellenza il comm. Michele Coppino ministro della pubblica istruzione, p. V-XVII: VI), che comprende un'approfondita ed esemplare analisi delle raccolte accompagnata in appendice da tabelle statistiche. Dietro la firma del Martini Anita Mondolfo (Guido Biagi, «Accademie e biblioteche d'Italia», 24 (1956), n. 2/3, p. 109-128: 122-123) vi ha riconosciuto la penna del Biagi.

11 Cfr. per esempio Carlo Lucchesi, Sulla pubblicazione degli inventari dei manoscritti delle biblioteche italiane, «Accademie e biblioteche d'Italia», 3 (1929/30), n. 3, p. 240-242 (relazione al secondo Congresso nazionale dei bibliotecari e direttori di musei e archivi comunali e provinciali, Bologna, 16-18 giugno 1928); Anita Mondolfo, Indici e cataloghi delle biblioteche d'Italia, «Accademie e biblioteche d'Italia», 12 (1938), n. 3/6, p. 254-262 (relazione al 5° Congresso nazionale dell'AIB, Bolzano-Trento, 14-16 maggio 1938); Ettore Apolloni, Lo stato dei lavori della pubblicazione "Indici e cataloghi" delle biblioteche d'Italia, «Accademie e biblioteche d'Italia», 14 (1939/40), n. 5/6, p. 399-402 (relazione al 6° Congresso nazionale dell'AIB, Napoli, 15-18 maggio 1940); Anita Mondolfo, Indici e cataloghi delle biblioteche d'Italia, «La vita del libro», 1 (1947) n. 1, p. 6-12.

12 Nella collana uscirono anche le Giunte e correzioni inedite alla Bibliografia dantesca di Paul Colomb de Batines, curate sempre dal Biagi (1888), le Indicazioni di bibliografia italiana di Curzio Mazzi a integrazione della Bibliotheca bibliographica italica (1893) e i tre volumi del Programma scolastico di paleografia latina e di diplomatica di Cesare Paoli (1888-1900), mentre non andò a buon fine l'annunciata traduzione delle regole di catalogazione di C. A. Cutter.

13 Cfr. ora Maria Iolanda Palazzolo, "Il bibliofilo", 1880-1890: un precedente di breve durata, «La bibliofilia», 101 (1999), n. 3, p. 293-304.

14 Cfr. Carla Giunchedi - Elisa Grignani, La Società bibliografica italiana, 1896-1915: note storiche e inventario delle carte conservate presso la Biblioteca Braidense, Firenze: Olschki, 1994.

15 Per la maggior parte dei personaggi citati si rimanda a Giorgio De Gregori - Simonetta Buttò, Per una storia dei bibliotecari italiani del XX secolo: dizionario bio-bibliografico 1900-1990, Roma: Associazione italiana biblioteche, 1999, e alle integrazioni presenti nella versione in rete, Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari italiani del XX secolo, a cura di Simonetta Buttò, https://www.aib.it/aib/editoria/dbbi20/dbbi20.htm.

16 Carla Giunchedi - Elisa Grignani, La Società bibliografica italiana cit., p. 19-20.

17 Ivi, p. 20, per i dati 1897-1903; quelli per il 1911 sono ricavati da un mio conteggio sulla lista degli iscritti, escludendo i soci corrispondenti ma comprendendo i bibliotecari già a riposo.

18 La Società bibliografica aveva dato vita nel 1898 a un proprio «Bollettino», uscito dall'anno seguente come allegato - poi supplemento - alla rivista del Biagi. Dopo relazioni già non facili, nel 1906 Società e rivista si separarono definitivamente e la prima avviò l'anno successivo, come proprio organo ufficiale, il bimestrale «Il libro e la stampa».

19 Guido Biagi, Dopo trenta e più anni cit., p. 2.

20 Giuseppe Fumagalli, La bibliografia cit., p. XLII-XLIII. Tuttavia Albano Sorbelli accenna all'esistenza anche dopo la guerra di un'Associazione del personale delle biblioteche governative, coinvolta nel 1921-1923 in iniziative comuni con quella dei bibliotecari degli enti locali (cfr. L'insegnamento della bibliologia e biblioteconomia in Italia: con notizie sull'insegnamento all'estero, «L'Archiginnasio», 21 (1926), n. 1/3, p. 26-65: 47-48).

21 Cfr. Associazione tra gli impiegati delle biblioteche e dei musei comunali, «L'Archiginnasio», 6 (1911), n. 3, p. 106. Nella rada documentazione edita che la riguarda l'Associazione figura con numerose denominazioni varianti. Sulla Sacchi (1872-1944), direttrice della Biblioteca comunale di Mantova dal 1902 al 1925 e poi presidente della Federazione italiana per il suffragio e i diritti della donna, cfr. Paolo Camatti, Una donna dimenticata: Ada Sacchi, «Padania: storia, cultura, istituzioni», n. 15 (1994 [ma pubblicato nel 1998]), p. 203-218.

22 I° Congresso tra funzionari di biblioteche musei ed archivi comunali provinciali e di enti locali, Padova XVI-XVIII giugno MCMXXV, «Bollettino del Museo civico di Padova», n.s., 2 (1926), n. 1/4, p. 103-222; Secondo Congresso nazionale dei bibliotecari e direttori di musei e archivi comunali e provinciali, «Accademie e biblioteche d'Italia», 3 (1929/30), n. 2, p. 141-157, n. 3, p. 239-252, e n. 5, p. 456-466.

23 Cfr. Giorgio De Gregori, Vita di un bibliotecario romano: Luigi De Gregori, Roma: AIB, 1999, p. 125-133.

24 Cfr. Alberto Petrucciani, Per la storia dei bibliotecari italiani: note dal libro di cassa dell'Associazione italiana biblioteche 1930-1944, «Bollettino AIB», 40 (2000), n. 3, p. 365-384, in particolare p. 371-374. Ulteriori informazioni e documenti sono ora disponibili nella sezione di Materiali per la storia dei bibliotecari italiani in AIB-WEB, a cura di chi scrive, https://www.aib.it/aib/stor/stor.htm.

25 Così si esprimeva l'istanza del Comitato promotore al ministro Balbino Giuliano, del 27 marzo 1930 (Associazione dei bibliotecari italiani, Roma: Stabilimento A. Staderini, 1930, p. [5]).

26 Così l'appello del Comitato promotore Ai bibliotecari d'Italia, del 18 giugno 1930 (Associazione dei bibliotecari italiani cit., p. [4]).

27 Giuseppe Agnelli, direttore della Comunale di Ferrara, presiedeva allora l'Associazione dei funzionari delle biblioteche e dei musei comunali e provinciali e ne guidò nel 1931 la formale confluenza nell'AIB. Sorbelli, già tra i promotori e presidente della stessa Associazione, aveva fatto parte fra l'altro del "triumvirato" che aveva rappresentato le biblioteche civiche in un incontro con ministro e direttore generale dopo il congresso padovano del 1925: degli altri due esponenti designati in quell'occasione, monsignor Sebastiano Rumor era scomparso improvvisamente nel 1929 e Andrea Moschetti, direttore della Biblioteca, dell'Archivio e del Museo civico di Padova, era stato inserito nel Comitato promotore dell'AIB ma, più storico dell'arte che bibliotecario, appariva orientato verso iniziative congiunte degli istituti culturali e artistici civici piuttosto che verso un'associazione strettamente bibliotecaria e, in quanto tale, allora inevitabilmente dominata dai vertici statali (siamo - non lo si dimentichi - ai tempi della coincidenza personale fra direzione di grandi biblioteche governative e carica di soprintendente bibliografico per una o più regioni).

28 Questo caso, come si vede, costituisce una comprensibile eccezione: a rappresentare la Biblioteca non era il prefetto, il futuro cardinale Giovanni Mercati, né Eugenio Tisserant, che sarebbe diventato pro-prefetto e direttore effettivo dal novembre dello stesso anno. Tisserant aderirà all'AIB e parteciperà ad alcuni suoi congressi, ma per l'impegno diretto negli organi associativi era stato evidentemente preferito uno "scrittore", già largamente inserito nei circoli bibliotecari ed eruditi romani.

29 Nell'ultimo Consiglio direttivo d'epoca fascista, peraltro non noto con certezza (e di cui è dubbio se si sia mai effettivamente insediato e riunito), dieci erano i direttori di biblioteche governative o ispettori bibliografici (se vi includiamo Apollonj transitato nel 1941 dalla carriera amministrativa) e vi figuravano poi il direttore generale in carica Scardamaglia e quello a riposo Salvagnini, Intendente come vicesegretario, Mancini e Suttina, tre bibliotecari romani (Carusi, Damiani e Guasco) e il Sorbelli, che dal 1933 occupava formalmente il posto riservato al rappresentante del PNF. L'ultimo posto, per un "esterno", era ricoperto dal deputato Felice Felicioni, gerarca e presidente della Dante Alighieri, di cui non risulta però alcuna partecipazione.

30 Per un'analisi meno sommaria rimando ancora al mio Per la storia dei bibliotecari italiani: note dal libro di cassa dell'Associazione italiana biblioteche 1930-1944, cit.

31 L'UIABBA fu costituita a fine marzo 1944, pochi giorni dopo l'azione di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine, d'intesa col CLN romano, con cui alcuni promotori erano in contatto tramite Meuccio Ruini. L'iniziativa partiva da alcune bibliotecarie della Nazionale (Marta Friggeri, Olga Pinto, Fernanda Madia, ecc.) e da colleghi di altri istituti romani, fra i quali Francesco Barberi e Vittorio Camerani, con alcuni archivisti e funzionari delle Belle arti. Dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944, l'Unione cercò di estendersi sul territorio nazionale non occupato dai tedeschi e promosse attività di carattere essenzialmente sindacale, modificando la sua denominazione in USIABBA (Unione sindacale italiana archivi biblioteche e belle arti) e poi in SIABBA (Sindacato italiano archivi biblioteche e belle arti). Il SIABBA ebbe però vita travagliata sia nell'ambito bibliotecario, per il dissenso di molti alla sovrapposizione di attività professionali e attività sindacali, sia in quello sindacale, per le difficoltà opposte dalla CGIL e dalle Camere del lavoro a inquadrare un'organizzazione che voleva riunire dipendenti di più ministeri (gli archivi facevano allora capo agli Interni), di enti locali e di altre amministrazioni, e chiuse la sua attività alla fine del 1946, confluendo nel Sindacato nazionale dei dipendenti del Ministero della pubblica istruzione. Si trattò comunque di un'esperienza non priva di interesse, su cui mi riprometto di tornare in altra sede, sulla base della documentazione conservata nell'Archivio storico AIB; per una sintesi della vicenda si veda Marta Friggeri, Attività del sindacato, «Rivista delle biblioteche», 1 (1947), n. 1, p. 103-107.

32 Approfitto dell'occasione per correggere quando accennavo in Per la storia dei bibliotecari italiani cit., p. 382 nota 27: la lettera di Barberi del 17 settembre 1944 riguardo all'UIABBA era certamente diretta a Marta Friggeri, non a Maria Ortiz come allora ipotizzavo. La Friggeri contattò anche Jahier; la corrispondenza è ora conservata nell'Archivio storico dell'AIB fra le carte relative alla rifondazione dell'Associazione.

33 Cfr. Francesco Barberi, Vecchie e nuova Associazione per le biblioteche, «Rivista delle biblioteche», 1 (1947), n. 1, p. 99-103; Enrico Jahier, Vita associata del libro, «La vita del libro», 1 (1947), n. 1, p. 44-47, e L'Associazione italiana delle biblioteche [1947], «Bollettino AIB», 37 (1997), n. 4, p. 467-470.

34 Francesco Barberi, Vecchie e nuova Associazione per le biblioteche cit., p. 101.

35 Alla prima richiesta di chiarimenti da parte ministeriale, anche su altri aspetti della nuova Associazione, fa riferimento il comunicato emesso dal Comitato centrale provvisorio dopo la seduta del 17 maggio 1947 (Archivio storico AIB, A.I.2; pubblicato con minime varianti in Enrico Jahier, L'Associazione italiana delle biblioteche cit., p. 469-470). Nella seduta del 13 luglio 1948 il comitato (qui Consiglio provvisorio centrale) prese in esame la richiesta dei «superstiti» dell'Associazione prebellica (proprio così erano stati definiti nell'incontro romano) di entrare in blocco nel comitato promotore stesso, deliberando di aggregare solo due consiglieri, che una successiva comunicazione del direttore generale Arcamone individuò in Ettore Apollonj e Nella Vichi. Fu quindi escluso che tra i rappresentanti dei vecchi organi nel nuovo Comitato potesse esservi il presidente Leicht, formalmente perché sottoposto ad epurazione in quanto compromesso col regime, ma nella sostanza - dato che nessuno contestava la sua probità personale - perché la sua presenza, come il richiamo di tutti i membri del Consiglio direttivo prebellico, avrebbe portato inevitabilmente alla delegittimazione del Comitato stesso e dell'intero processo di rifondazione. L'anziano presidente - mi piace farlo notare qui - aderì comunque alla nuova Associazione, seguendone le attività con discrezione, soprattutto tramite Barberi con cui era in relazione anche per comuni ricerche di storia della stampa, e versando la sua quota fino alla morte. Non è una semplice coincidenza, a mio avviso, che la questione dell'Associazione prebellica sia stata trattata dalla Direzione generale e dal Comitato provvisorio parallelamente a quella dell'organizzazione insieme al Ministero, e con il suo sostegno finanziario, del congresso di Palermo del novembre 1948, in cui doveva essere sancita la costituzione della nuova AIB.

36 La carica sarebbe forse spettata ad Anita Mondolfo, che aveva raggiunto la direzione cinque anni prima della Lodi (nel 1928, alla Marucelliana); dal 1926 però quest'ultima, più giovane, l'aveva scavalcata in ruolo. La bibliotecaria di Senigallia, destituita per ragioni politiche nel 1937 dalla direzione della Nazionale e poi licenziata per le leggi razziali, era stata reintegrata nella sede fiorentina nel giugno 1945. Del Comitato provvisorio comunque fece parte, pur non essendo più direttrice, anche Anna Saitta Revignas, che aveva retto la Nazionale durante la guerra.

37 Nella stessa occasione fu approvata la denominazione di «Associazione italiana per le biblioteche», conforme a quella d'anteguerra, proposta dalla Sezione di Roma e sostenuta particolarmente da Francesco Barberi, mentre nell'attività del Consiglio provvisorio dal 1946 in poi era stata impiegata la dizione «Associazione delle biblioteche italiane».

38 Erano stati presi in considerazione anche altri personaggi, dal linguista Giacomo Devoto - molto attivo nelle istituzioni culturali fiorentine - al senatore Stefano Jacini, dal pedagogista Giovanni Calò allo storico dell'arte Mario Salmi. Il Casati, che era stato anche socio e consigliere della Società bibliografica italiana ai primi del secolo e che già nel 1949 aveva accettato la vicepresidenza (di fatto solo onoraria) della Sezione di Milano dell'AIB, per i suoi molti impegni e le delicate condizioni di salute, pur non declinando l'offerta della presidenza, non poté per molti mesi darvi seguito e il suo contributo si limitò quasi soltanto all'insediamento del Consiglio direttivo e alle funzioni di rappresentanza nel primo Congresso, tenuto a Milano nel 1951. Anche in quell'occasione, peraltro, non c'è traccia di un suo specifico interesse per le tematiche trattate, o di interventi non meramente formali. A distanza di molti anni, rievocando quei tempi in una lettera del 21 febbraio 1975 a Renato Pagetti, Jahier commentava: «Ero tuttavia convinto che, anche per ragioni di dignità, l'Associazione avrebbe dovuto esser presieduta da un Bibliotecario e mi compiaccio che finalmente questo ovvio principio abbia potuto farsi strada». Il ricorso a una presidenza "politica" ebbe fortuna anche in qualche Sezione regionale, come quella sarda, presieduta dal 1950 al 1955 dal sindaco di Cagliari, Pietro Leo, poi fino al 1958 da Giovanni Brotzu (già rettore dell'Università di Cagliari, assessore e poi presidente della Regione, infine sindaco) e quindi fino al 1961 da Pierina Falchi (assessore regionale alla pubblica istruzione). Ma le aspettative riposte in soluzioni di questo tipo andarono in genere deluse, mentre in pratica emersero piuttosto i rischi di paralisi delle attività.

39 Per le incombenze amministrative e finanziarie Barberi poteva contare su Giorgio De Gregori, nominato tesoriere (e artefice del recupero di un modesto fondo di cassa dell'Associazione prebellica), mentre anche le due vicepresidenze erano state assegnate in uno spirito di riconoscimento formale, senza risultare di effettivo ausilio al mandare avanti le attività associative: una era infatti andata al professor Carlo Battisti, direttore della Scuola per bibliotecari dell'Università di Firenze, come presidente della Sezione toscana che tanto aveva fatto per la rifondazione dell'Associazione, l'altra a Vittorio Fainelli, direttore della Biblioteca civica di Verona e presidente della locale Sezione, in omaggio ai bibliotecari di enti locali, pochissimo rappresentati nel Consiglio direttivo.

40 Tentata senza esito una mediazione fra le due posizioni (attraverso l'inserimento nella composizione del Consiglio direttivo di un decimo membro con voto consultivo, eletto dai soci non bibliotecari), la proposta di revisione dello Statuto in senso professionale, presentata da Giorgio De Gregori, ottenne un'ampia maggioranza, inferiore però ai due terzi richiesti per le modifiche statutarie. Dallo stallo si uscì con una seconda votazione, contestata e perciò disertata da gran parte dei sostenitori di Calderini. Cfr. Francesco Barberi, L'Assemblea straordinaria di Chianciano (7-9 ottobre 1960), «Bollettino d'informazioni AIB», 1 (1961), n. 1, p. 20-21, e Giorgio De Gregori, Cronaca di tre giorni, ivi, p. 21-26. Formalmente lo Statuto di Chianciano eliminava la possibilità di un presidente cooptato dall'esterno nel Consiglio direttivo ma non escludeva esplicitamente che venisse eletto alla massima carica il decimo membro del Consiglio stesso, pur se dotato di voto solo consultivo. La categoria dei soci aggregati, inoltre, veniva almeno in linea di principio limitata agli amministratori e dirigenti di enti titolari di biblioteche, agli ispettori bibliografici onorari e alle altre persone che esercitassero «attività legate alla produzione ed alla diffusione del libro o al funzionamento delle biblioteche», mentre in quello del 1953 si parlava più genericamente di «tutte le persone che si occupano delle biblioteche e del libro» e solo con quello del 1981 si amplierà formalmente la possibilità di adesione - ma senza diritto di voto - a «tutte le persone e gli enti italiani ed esteri interessati allo sviluppo delle biblioteche». Lo Statuto del 1960 venne modificato nel 1962 abolendo la distinzione fra soci ordinari e soci aggregati e attribuendo voto deliberativo in Consiglio anche al rappresentante dei soci non bibliotecari.

41 Cfr. G[iovanni] F[loris], Da Porto Conte, con poco amore: servizio sul XIX Congresso dell'Associazione italiana biblioteche, Porto Conte (Alghero) 10-15 maggio 1969, e discorso intorno al medesimo, «Accademie e biblioteche d'Italia», 37 (1969), n. 4/5, p. 303-338; Cecilia Cattaneo, Il XIX Congresso dell'Associazione italiana biblioteche (Porto Conte-Alghero, 10-12 maggio 1969), «Bollettino d'informazioni AIB», 9 (1969), n. 3/5, p. 87-100, con la nota redazionale (ma di Giorgio De Gregori) che segue, p. 100-105.


Riprodotto, per gentile concessione della Direzione della Biblioteca nazionale centrale di Roma, da:

Alberto Petrucciani. Nascita e affermazione della professione bibliotecaria in Italia (1861-1969). In: La professione bibliotecaria in Italia e altri studi. Roma: Biblioteca nazionale centrale di Roma, 2002, p. 5-34 (Quaderni della Biblioteca nazionale centrale di Roma; 9).


Copyright AIB 2002-09-23, ultimo aggiornamento 2012-02-09, a cura di Alberto Petrucciani
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