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Luigi De Gregori

Il bibliotecario

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Chi concepisce ancora la figura del bibliotecario secondo l'abusato cliché d'un occhialuto vecchio in papalina assorto da mattina a sera nella cura della conservazione e dell'incremento della sua Biblioteca, costui non conosce neppure di vista una biblioteca moderna, la sua funzione, i suoi bisogni, i suoi fini. Conservazione e incremento sono sì, anche oggi, alla base delle attività d'ogni bibliotecario, ed ancora lo ricollega a quei pittoreschi predecessori lo spirito di dedizione che, nell'esercizio dei due compiti, lo fa rinunziare ad attività più attraenti; ma altre e diverse e di più largo giro sono quelle a cui un bibliotecario è oggi chiamato. Chi non le conosce o, conoscendole, non le sente fatte per sè, costui, pel bene delle biblioteche e pel suo, scelga un altro mestiere.

Non basta esser lo studioso o il professionista d'una disciplina, o il «divoratore di libri» e neppure il bibliografo o il bibliofilo nel senso più proprio delle parole per potersi riconoscere le attitudini al bibliotecariato se, insieme, non si considerano i libri gli strumenti d'un complesso lavoro da organizzare a servizio degli altri, di quanti più altri sia possibile, nel modo più pratico possibile. Il lavoro di biblioteca, veduto dal di fuori, non dà a nessuno l'idea di quel che sia in realtà e di quel che possa costare di operosità, di esperienze, di accorgimenti, d'iniziative. Anche nel concetto di persone molto colte è raro che quel lavoro sia considerato diverso da quello del materiale mettere

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e mantenere in ordine i libri, e che il parteciparne o il dirigerlo non sia ritenuto il godimento d'una specie di otium cum dignitate. Si riconosce appena la perizia e l'utilità del bibliotecario quando si ricorre a lui d'urgenza pure a costo, certe volte, di rivelare le proprie lacune culturali. Allora, sì, che par d'aver fatto la scoperta del bibliotecario! Ma passato il momento del pronto soccorso si torna a credere irraggiungibile la propria superiorità dottrinale e a sentirsi a un livello molto più alto di quello dei bibliotecari.

Qui scit ubi sit scientia, scientiae est proximus dice un vecchio adagio. Questa prossimità, accresciuta quotidianamente dalla padronanza che s'acquista della propria biblioteca e dal contatto che si prende con libri del più vario scibile, rende al bibliotecario così familiare l'uso delle fonti da farlo diventare l'abituale intermediario, spesso addirittura il collaboratore degli studi altrui. E tutti sanno che la competenza professorale in questa o quella disciplina più che da profondità speculativa viene per lo più dalla conoscenza pronta e aggiornata della bibliografia che la riguarda. Perciò le esercitazioni pratiche che si fanno tra i libri delle biblioteche di Facoltà o dei Gabinetti scientifici sono più essenziali per la formazione dei futuri docenti che il volo del verbo lanciato dalle cattedre e l'imparaticcio delle dispense.

Tuttavia, una delle doti più tipiche del bibliotecario è, o dovrebbe essere, la modestia. L'immensità dell'apparato di scienza da cui egli si vede circondato sviluppa generalmente in lui questa dote ricordandogli in ogni momento, meglio che a chiunque altro, quanto sia grande il vuoto del proprio sapere: cioè, come confessava Socrate, quanto sia grande la propria ignoranza. Chi non ambisce alla superiorità che questa cosciente modestia può conferirgli non ha l'animo di bibliotecario. Sia detto ciò con buona pace di qualche giovane bibliotecario che appena entrato in biblioteca s'atteggia a piccolo «grand'uomo» quasi che il semplice contatto con l'ambiente libresco bastasse a infondergli il sapere che non ha; e ostenta arie di sufficienza per certe inevitabili applicazioni iniziali proprie del mestiere che ha scelto.

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Non è più possibile, oggi, che un bibliotecario legga, come faceva Magliabechi, tutti i libri che acquista: ma tra questo e il far passare un libro sotto i propri occhi senza averne guardato che il frontespizio, c'è pure grande distanza. La tendenza odierna trae piuttosto in questa seconda direzione, credendosi che basti al bibliotecario diventare il puro tecnico d'un macchinario montato per l'uso automatico e sbrigativo di tutti. Eppure, M. Herbert Putnam, l'illustre direttore della Biblioteca del Congresso di Washington, la più modernamente organizzata e pluriefficiente biblioteca del mondo, rimpiangeva i bibliotecari d'un tempo e riconosceva che «per quanto grande fosse il suo rispetto per il successo dei moderni sistemi, la sua ammirazione andava sempre al bibliotecario della vecchia scuola, l'animo del quale s'elevava al disopra della pura amministrazione e del funzionamento, e il cui occhio si appassionava più per l'interno d'un libro che per l'esteriore compiacimento di un lettore». Il nostalgico riconoscimento, espresso così simpaticamente da uno dei più illuminati bibliotecari moderni, è certamente da ammirarsi, ma anche da meditarsi da noi con molti grani di sale. Perchè questo appunto è il problema che specialmente in Italia son chiamati a risolvere i bibliotecari: introdurre il nuovo nel vecchio quanto è necessario a render possibile l'utilizzazione dell'uno e dell'altro con decoro dell'istituto e soddisfazione di chi ne ha bisogno. Ciò che, data la ricchezza atavica delle nostre biblioteche e la nostra povertà di mezzi, porta, nell'esercizio dell'ufficio, ad ogni genere di acrobatismi di cui è difficile rendersi conto dall'esterno, e pei quali spesso la biblioteca finisce, come nel buon tempo antico, per identificarsi col bibliotecario. Perchè su lui viene a gravare un complesso di mansioni di cui non può neppure parzialmente spogliarsi anche se logicamente è portato a riconoscere che son troppe per un solo, e che la sua coscienza potrebbe restar tranquilla negligendone alcune. Ma come può fare dal momento che non trova rispondente alla divisione del lavoro un personale che non s'è scelto da sè, nè può cambiare a suo giudizio, e che non è mai in numero sufficiente, e che quando anche lo fosse, manca

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generalmente della necessaria preparazione culturale o di attitudini incontrollabili nell'assunzione?

Le mansioni sono di natura diversissima: dalla scelta dei libri da acquistare, allo studio d'un loro ordinamento sempre più pratico ai fini dell'uso; dalla revisione, quando non è addirittura il lavoro stesso, della catalogazione, alla continua vigilanza sulla gestione amministrativa; dal carteggio con studiosi specialmente stranieri, frequentissimo in certe Biblioteche, alle quotidiane consultazioni verbali per informazioni, consigli, notizie, da parte dei frequentatori, alternantisi continuamente in una gamma che va dal curioso semianalfabeta in cerca di «un bel libro da leggere» al professore universitario che «non sa comprendere» perchè al catalogo non figuri ancora la quarta edizione d'un testo straniero annunziata un mese prima.

E la responsabilità della conservazione materiale del patrimonio prezioso che gli è stato affidato per esser trasmesso integro ai successori e che egli, per quanto faccia, non può garantire neppure a se stesso che non abbia subito diminuzioni dall'ieri all'oggi? Nelle Gallerie e nei Musei l'opera d'arte o l'oggetto prezioso sono al sicuro anche quando abbiano forma nella unità minima della gemma, della moneta, della miniatura. Sono chiusi nelle vetrine, non si guardano che a distanza, e a difenderli da qualche male intenzionato ci sono fedeli e numerosi guardiani che non hanno altro da fare. Ma i libri, i fogli dei libri, le tavole dei libri, gli opuscoli, i fascicoli delle riviste che quotidianamente sono in ridda dagli aperti scaffali ai tavoli di lettura, e passano per cento mani, e devono anche uscire dalla Biblioteca pel prestito a domicilio, e dalla città pel prestito esterno, e perfino dallo Stato pel prestito internazionale, chi può garantire, a sera, che sian tornati tutti al loro posto o che vi ritorneranno sicuramente un giorno?

Altro assillo che affanna continuamente i bibliotecari come un fantasma è il veder crescere ogni giorno la massa dei volumi e restar sempre quello lo spazio che deve contenerli, scaffali, pareti, piani, entro i confini invalicabili dei quattro muri d'un edificio. E, con tutto ciò, dover riconoscere, al lume delle bibliografie (esposte all'attenzione degli studiosi come menu

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di un convito di sogno) che quell'incremento di volumi non è che troppo inferiore ai veri bisogni della Biblioteca, non è che un modesto saggio di quanto gli studiosi s'aspettano di trovare in biblioteca, e che egli non può offrir loro per la deficienza combinata dei fondi, della mano d'opera, dello spazio. Com'è facile e riposante il mestiere del bibliotecario!

Per comprendere pienamente la complessità del nostro lavoro bisogna, dunque, aver vissuto a lungo nelle biblioteche, averne studiato da vicino i mezzi del funzionamento, essere stati operai di quel lavoro. Allora ci si accorge pure che è un lavoro costruttivo pieno di fascino, un potente stimolo d'ingegno, una applicazione di coltura che può dare soddisfazioni quali pochi altri lavori intellettuali sanno dare. E' difficile, così, che un vecchio bibliotecario pensi che rinascendo sceglierebbe un'altra professione.

Può immaginarsi soddisfazione simile a quella che dovè provare il nostro grande Panizzi allorchè, dopo trentaquattro anni di bibliotecariato, si sentì e fu da tutti proclamato il creatore della nuova Biblioteca del British Museum? Il giovane profugo italiano, riparato a Londra senza alcun mezzo e con pochi studi, dopo aver tentato altre vie riesce ad entrare nel Museo Britannico come assistente bibliotecario, e vi trova un istituto già ricco di possesso, ma che per la sua povertà funzionale è considerato dagli inglesi «una mostra di curiosità, una specie di giardino zoologico inanimato». La grande cultura acquistata durante i primi anni dell'esilio nel chiedere agli studi i mezzi di vita; l'esperienza maturatasi alle prove delle difficoltà superate nell'ufficio di biblioteca, nell'ambiente ostile a cui s'era affacciato straniero ed inerme; la stima crescente che a poco a poco, a reazione di quell'ostilità, comincia a circondarlo per le prove continue che egli sa dare di perizia, di dinamismo inventivo, di lungimirante visione dell'avvenire del duplice istituto a lui affidato, che era Biblioteca e Museo insieme, fanno concepire al Panizzi un grandioso radicale programma di rinnovamento: dalla costruzione dell'edificio, da lui stesso disegnata, al trasferimento nella nuova sede di 165.000 volumi «senza interrompere un solo giorno il servizio del pubblico»; da una

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attrezzatura del tutto nuova e originale dei locali per la sistemazione dei libri, alla compilazione di nuove norme catalografiche che se rappresentarono, un secolo fa, la prima normalizzazione della difficile materia, restano ancor oggi il fondamento delle regole adottate nelle maggiori e più moderne biblioteche del mondo.

L'esempio del Panizzi e di non pochi altri potrebbe dimostrare che ai più grandi bibliotecari del passato non fu necessaria alcuna «scuola» teorica per la loro preparazione professionale. Li formò la Biblioteca stessa, fu loro scuola l'esempio di qualche maestro che ebbero la ventura d'incontrare e l'esercizio volenteroso, cosciente e sagace del proprio ufficio. Ma da un pezzo, più o meno dal tempo del Panizzi, anche il mondo delle biblioteche è in evoluzione e nelle più grandi specialmente, che contano i volumi a milioni, s'impone una organizzazione funzionale che non può prescindere da dettati uniformi, da studiare non solo nell'interesse delle biblioteche singole, ma anche del comune concorso al progresso del sapere universale. Quindi l'opportunità che esistano scuole preparatorie al bibliotecariato, nelle quali i due fondamentali diversi indirizzi di conservatori e di progressisti, di chartisti e di amministratori, concorrono insieme alla formazione unitaria del bibliotecario moderno.

Esistono, infatti, queste scuole, o autonome, come sono spesso negli Stati Uniti, o aggregate ad alcune Università, e sono di differenti tipi, differenti non solo da nazione a nazione, ma anche da città a città d'uno stesso Stato1. Per noi, che possediamo quasi soltanto ricche biblioteche a fondo storicoumanistico, i programmi d'insegnamento, pur con differenze tra scuola e scuola, mirano giustamente alla formazione del bibliotecario del vecchio tipo: e sarebbe inutile, almeno per ora, insegnarvi a fare il bibliotecario per biblioteche che non abbiamo (quelle, cioè, «per tutti», che noi ci illudiamo di sostituire chiacchierando di «biblioteche popolari», che

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neppure riusciamo a diffondere); vi s'insegnasse, per esempio, la «letteratura infantile» o la «psicologia infantile» come si fa negli Stati Uniti ed in Russia dove abbondano anche le biblioteche per ragazzi (non scolastiche, come quelle che abbiamo noi, ma pubbliche: che li attirano, cioè, invece di allontanarli); o s'insegnasse l'«orientamento dei lettori» o l'«educazione sociale» come si fa nel Giappone, ove la Biblioteca pubblica, sempre più avvicinandosi al tipo del Community Club americano, mira ad affermarsi definitivamente come istituto educativo di masse.

Ci fa dunque leggermente sorridere la concezione del bibliotecario «bibliopsicologo» ossia capace di «trasferire il centro del suo lavoro dal libro nel campo della psicologia del lettore»: e ciò non solo perchè non sapremmo dove esperimentare tale capacità; ma anche perchè possiamo arrivare sempre, per la via più diretta del comune buon senso, a capire quali sono i libri meglio adatti, a confronto di altri, alle varie clientele di lettori2. Questo metodizzare tutti i possibili aspetti e sviluppi delle teorie con conseguenti montature pseudoscientifiche, creazioni di istituti, enti, centri ecc. non è, grazie a Dio, dell'indole nostra: e se ci cadiamo qualche volta anche noi, non è già per sentita necessità di cose ma per maneggi di persone interessate alla montatura, che riescono a épater le autorità incompetenti: a «incantare il burino», come si dice più pittorescamente a Roma. Ciò riusciva specialmente bene sotto il passato regime. Non è necessario del resto nè possibile che il bibliotecario sia, neppure nelle sue discipline professionali, omniscente in partenza: basta che abbia lo spirito pronto e l'intelletto aperto a far scienza sua di tutto ciò che la Biblioteca gli insegnerà. E sopra tutto sarebbe bene che in quelle nostre Università nelle quali si vuole insegnare ai futuri bibliotecari il loro mestiere, la delicatezza e la serietà se ne cominciasse a prospettare con insegnamenti impartiti da competenti e non,

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come avviene a volte, da improvvisati docenti autoinvestitisi, che delle biblioteche non hanno mai vissuto la vita.

A parte l'esercizio dell'ufficio, il bibliotecario può anche distinguersi tra i rappresentanti della cultura scientifica in quelle specializzazioni di studi che riguardano più da vicino le sue attitudini culturali. Generalmente provenienti da scuole di lettere o di giurisprudenza, essi portano a volte con sè la sicura disposizione a studi superiori, che han dovuto abbandonare per ragioni contingenti, ma che li avrebbe accompagnati con ogni probabilità alla cattedra universitaria. Se l'amore a quei loro studi e la coscienza del nuovo dovere sono così forti da poter coesistere nell'esercizio del bibliotecariato, non è detto che non possano conciliarsi senza danno. Non ne sono frequenti gli esempi, ma non mancano. Più frequente è il caso dell'abbandono tempestivo dell'una o dell'altra attività (e se non è tempestivo è a tutto danno dello studioso e dei suoi studi, e insieme del bibliotecario e delle biblioteche): o l'adozione d'una soluzione capace di accomunare lo studio personale al lavoro d'ufficio. Questa soluzione la offre oggi lo studio scientifico della bibliografia, della bibliologia, della biblioteconomia. La prima è vecchia di secoli, ma come studio rigorosamente scientifico (basta pensare alla catalogazione dei manoscritti e delle antiche edizioni) non s'è affermata che recentemente, circa il tempo in cui presero consistenza e si definirono le altre due. Ed è inutile ai lettori di questa rivista spiegare la loro essenza e la loro importanza.

 

Assai fosco si presenta oggi l'avvenire delle nostre Biblioteche. Dopo le distruzioni di guerra che, a bilancio finale, non si riveleranno nè poche nè tutte rimediabili; dopo le mortificazioni subìte durante l'infausto ventennio in cui qualche impulso materiale ottenuto indubbiamente da esse fu scontato dal prepotere dell'incompetenza e dell'intrigo sull'onesta serietà dell'opera nostra: ai giovani bibliotecari d'oggi è affidata la sorte di questi ancora invidiabili e preziosi istituti ai quali noi veterani dobbiamo dire addio. Le curino, le difendano, le amino sopra tutto, restando fedeli a una tradizione che s'è finora

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cercato di mantenere, e sentendosi orgogliosi del loro còmpito. In questa povera Italia manomessa e oscurata possono ancora le Biblioteche offrire il più efficiente contributo a quel prestigio culturale a cui sono estranei confini, partiti, fazioni. Ricostruire di esse tutto ciò che sarà da ricostruire, sarà ancora possibile. Ma quello che sopra tutto s'aspettano è la serietà dei propositi, la simpatia fattiva, la dedizione incondizionata di coloro ai quali saranno affidate.

Ci pensi il Governo, ci pensino i dirigenti di tutti quegli enti o istituti che godono il privilegio di possedere una Biblioteca: sentano la responsabilità di questo che non è tanto un possesso quanto un geloso deposito da trasmettere ai futuri non solo integro ma arricchito e perfezionato pur attraverso la sua quotidiana messa in valore ed usura: e si guardino dall'affidare una tale responsabilità a chi non è capace di sostenerla. Ma poi mostrino anche di apprezzare onestamente il valore del servizio che richiedono. Ai disconoscimenti materiali i bibliotecari, adusati al muto clima dei libri, si son dovuti finora rassegnare, più o meno in silenzio; ma le mutate condizioni di chiunque oggi lavora fanno pensare che una tale rassegnazione possa esser risparmiata anche a loro nei tempi nuovi. Niente, tuttavia, troveranno mai più mortificante dell'incomprensione dell'opera loro, del non sentirsi al posto che loro spetta nella scala dei valori professionali.

Luigi de Gregori.


1 Rôle et formation du bibliothécaire. Ètude comparative sur la formation professionnelle du bibliothécaire (Dossiers de la Coopération intellectuelle). Paris, Institut international de Coopération intellectuelle, 1935.

2 A Losanna fu creato nel 1889 un «Istituto internazionale di Psicologia bibliologica» sotto la direzione del russo Nicola Roubakine (M. Camerani Teodorova, Les tendances de la bibliopsychologie in Primo Congresso mondiale delle Biblioteche e di Bibliografia, Atti ecc., vol. V, pp. 70-82).


Fonte: Luigi De Gregori. Il bibliotecario. «Rivista delle biblioteche», 1 n. 1 (marzo 1947), p. 3-13.
La trascrizione segnala la divisione delle pagine e rispetta ortografia e maiuscole dell'originale, salvo la normalizzazione della spaziatura delle virgolette. Le note sono state numerate progressivamente.


Copyright AIB 2002-09-23, ultimo aggiornamento 2012-02-09, a cura di Alberto Petrucciani
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