«Bibliotime», anno IV, numero 1 (marzo 2001)


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Domenico Bogliolo

Dal reference al KM: il “caso” Lisa Guedea Carreño



Riferirò di un’esperienza che ha suscitato notevole interesse negli Stati Uniti: l’impiegata di una piccola azienda (di soli pochi milioni di dollari di fatturato, fornitrice di cancelleria e vario materiale a biblioteche, scuole, musei), che ha costruito e continua a mantenere una delle più famose, efficaci ed esemplari realizzazioni di knowledge management, “semplicemente” svolgendo, sia pur in modo particolarmente intelligente e creativo, il proprio lavoro di bibliotecaria.

Il caso ci è utile per riaffermare l’assoluta identità di questa professione (specialmente nelle sue funzioni di reference e di documentazione) con quella che ora viene ribattezzata, in ambienti aziendali, “knowledge working”.
 

1. Parole (e parolacce) del, e sul, KM

Chiedo la pazienza di volermi seguire in una forse noiosa premessa, introduttiva al knowledge management e ai suoi sviluppi. L’oggetto è di stretta attualità, come testimonia il moltiplicarsi di corsi e seminarî dedicati al tema e al quale corrispondono, anche negli ambienti della grande industria, quote incrementali di spesa per la sua attivazione.
 

1.1 Battere la concorrenza in una situazione di economia globalizzata

La nascita del knowledge management è legata, nei primi anni Novanta, a situazioni di stallo tra aziende concorrenti e a una situazione mondiale caratterizzata da penuria di risorse. Se gli anni Ottanta hanno assistito ad una razionalizzazione sempre più spinta dei flussi informativi interni e dell’organizzazione del lavoro, soprattutto grazie alla tecnologia informatica, il decennio successivo ha visto, in una sorta di passo indietro epistemologico, accentuare l’enfasi sul perché e sul come della razionalizzazione stessa. Si è cominciato a pensare che l’innovazione tecnologica non fosse, bontà loro, fine a se stessa, ma costituisse, pur nella sua pervasività, null’altro che uno degli strumenti disponibili all’organizzazione per conseguire meglio i proprî fini.
 

1.2 Informazione e conoscenza come risorse strategiche

Ci si è accorti, così (in una sorta di “scoperta dell’acqua calda”), che il fulcro di tutta l’attività era e restava l’essere umano che indirizzava le macchine e, in particolare, il valore culturale e spirituale che quest’essere umano spendeva nella propria attività.

Ci si è accorti, nel medesimo modo, che un’organizzazione coincide, in larga misura, con il suo stesso sistema informativo e che l’informazione, da sempre vista come un sottoprodotto delle attività imprenditoriali, era invece l’elemento “esterno” che dava senso e significato a tutta l’organizzazione. Molte aziende hanno perciò smesso, forse con un pizzico di filisteismo, di considerare il profitto come fine dell’impresa, sostituendogli informazione e conoscenza; il profitto era, semmai, uno strumento essenziale per continuare a produrre queste informazione e conoscenza…
 

1.3 Conoscenza tacita e conoscenza esplicita

Ci si è accorti, infine, del valore della conoscenza tacita dell’impiegato, quella, per intenderci, che appartiene al profondo di ciascuno di noi, e che dipende dalla nostra spiritualità, dalla nostra cultura, dalla nostra personalità e dall’irripetibilità del nostro essere individuale. È un tipo di conoscenza che non possiamo esprimere a parole né esplicitare altrimenti che, in modo indiretto, nelle azioni che caratterizzano il nostro essere e il nostro lavorare. È ciò che, alla fine dell’orario di lavoro, non possiamo lasciare sulla scrivania, come proprietà dell’organizzazione per la quale lavoriamo, ma che portiamo a casa con noi.

Gran parte dello sforzo del knowledge management consiste, viceversa, nel far sì che anche la conoscenza tacita divenga proprietà dell’azienda, e sia trasmissibile ai colleghi. Vengono recuperate, in questo sforzo, filosofie da impresa artigiana, nella quale i fini del lavoratore coincidono con quelli dell’impresa stessa, e nella quale il tipo di trasmissione del sapere e della conoscenza è caratterizzato dal contatto diretto “da bocca a orecchio”, come da maestro a discepolo.
 

1.4 Che cosa fa di un venditore un “bravo” venditore?

Tutto ciò ha determinato, tra l’altro, il riconoscimento del fallimento delle correnti strategie formative messe in atto dall’impresa, a mano a mano che si verificava la loro inanità nella trasmissione della conoscenza tacita, per cui il saper rispondere a questa domanda apparentemente banale equivale a centrare il problema di fondo rappresentato dalla creazione e dalla trasmissione di questo tipo di conoscenza.

La risposta, allora, è semplice, anche se tautologica: è il “bravo” venditore che fa il “bravo” venditore, perché non esiste tecnica di comunicazione insegnabile a chi non sia già profondamente orientato verso i valori della comunicazione.
 

1.5 KBMS, sistema informativo non routinario

Va da sé, a questo punto, che questo complesso di conoscenze tacite debba, ovviamente, poter circolare in modo efficace al di dentro e al di fuori dell’organizzazione; e poiché tutto, nell’organizzazione, avviene tramite il suo sistema informativo, e poiché gran parte di questo sistema è automatizzato, ne consegue che la creazione e il trasferimento della conoscenza tacita debbano essere governati da un sistema informativo-informatico di tipo speciale, un knowledge-based management system che sappia (ed è qui che agli ingegneri coinvolti sta fumando il cervello) accettare e gestire quote non banali e anzi crescenti di ciò che qualunque DBMS “lineare” considererebbe “rumore”.

Da tempo l’intelligenza artificiale si occupa dei KBMS, anche se con alterne vicende come nel caso dei sistemi esperti. Altre ricerche dell’AI sono oggi meglio orientate verso la definizione dei dominî ontologici, le koinai che caratterizzano l’interscambio delle comunicazioni in un ambiente omogeneo e che quindi condizionano senso e funzionamento dei KBMS.

Si tratta, di conseguenza, di costruire sistemi informativo-cognitivi nei quali le componenti “sociali” del sistema connesse con la comunicazione, come quella del mercato o quella delle emozioni, trovino adeguata rappresentanza, per esempio nelle Intranet aziendali e negli agenti intelligenti.
 

1.6 Hybrid gold collar

Ma chi è, a questo punto, il knowledge manager che deve governare un sistema così delicato e così complesso, e qual è la sua formazione-tipo? Sono state date varie risposte: non le facoltà d’ingegneria né quelle di economia, ma le scuole americane di giornalismo, per esempio, sembrano in grado di fornire il materiale umano più adatto alla bisogna...

Di sicuro, questo personaggio è quasi un paradosso: gli sono richieste una salda cultura classica integrata dalla padronanza dell’economia, delle scienze dell’organizzazione e della tecnologia dell’informazione… È stato detto che un individuo del genere non esiste o che, se esistesse, probabilmente non avrebbe nessuna intenzione di dedicarsi al business. In ogni caso, è stato creato il nome: “colletto d’oro” perché si porrebbe ben al di sopra delle correnti gerarchie aziendali, e “ibrido” perché dai contorni umani ricchi (e perciò sfumati, mal classificabili) e dalle conoscenze vaste, enciclopediche e approfondite. Insomma, nel mio immaginario, un bibliotecario, o un documentalista, se preferite…
 

1.7 CEO, CKO, CLO, KMA…

Ma è un fatto che queste persone esitono, o che la loro esistenza sta gradatamente venendo alla luce. Non è da ora che il mondo imprenditoriale si rivolge a laureati in matematica, in filosofia, in psicologia, per esempio, per “governare” gli ingegneri.

E ovviamente queste professioni stanno cambiando nome, in una tassonomia che non è ancóra approdata a una nomenclatura stabile: il chief executive officer diventa chief knowledge officer o, genericamente, knowledge manager o ancóra, se si dedica alla formazione, chief learning officer; nella sua qualità di esperto dell’informazione, il bibliotecario-documentalista diventa, allora, genericamente knowledge worker o, in quanto responsabile, di nuovo knowledge manager e, scendendo lungo la scala gerarchica, variamente e nell’ordine, senior information professional, knowledge management analyst, senior information researcher.

La nominazione elaborata da un autore è ancóra spesso in contraddizione con quella di un altro, ma è il CLO che qui c’interessa di più, perché induce alla nozione di organizzazione cognitiva, organizzazione “che apprende” e, nel nostro caso, ci porta alla knowledge library.
 

2 Amministrare l’apprendimento

Ma come apprendono le organizzazioni? E chi amministra l’organizzazione della conoscenza aziendale? Ci è opportuno richiamare qui l’immagine simbolica della piramide cognitiva dell’organizzazione intelligente (nel senso tradizionale di “che sa apprendere e ritenere”) elaborata originariamente da Choo Chun Wei e divenuta quasi di dominio pubblico.

Le organizzazioni, proprio come noi, mostrano di aver appreso quando possiamo osservare una modifica del loro comportamento, perché qualunque conoscenza non vale in sé, ma trova il suo fondamento nell’azione orientata e, quindi, nella soluzione di problemi.

La figura di Choo Chun Wei mostra una pseudo-piramide (pseudo perché in realtà si svolge tutta sul piano, in due sole dimensioni) e indica che le tre figure professionali, rispecchianti altrettante funzioni, sono tutte elementi costitutivi del knowledge management: il “filosofo” della situazione nel triangolo rosso in alto, il bibliotecario-documentalista in quello blu a sinistra, e l’ingegnere nel triangolo verde a destra. Il triangolo bianco centrale, che Choo lascia vuoto, è in realtà riservato all’utente-cliente, unico vero esperto del dominio, e che anzi e sempre più spesso è inglobato funzionalmenteall’interno dell’organizzazione aziendale, il che rappresenta un po’, come nelle biblioteche universitarie, il ruolo del docente e, nei casi più avanzati, anche dello studente.

La collaborazione di questi quattro personaggi è paritaria, come in un progetto di ricerca, e non ha nulla delle tradizionali gerarchie. È per questo che il knowledge management è spesso visto dagli impiegati come una straordinaria occasione di promozione sociale all’interno dell’azienda, ed è anche per questo che impiantare strategie di knowledge management significa esser pronti a rivoluzionare in modo permanente le gerarchie consolidate e, ovviamente, a finanziare questa rivoluzione.

Ci concentreremo, adesso, sul triangolo blu di sinistra, quello del bibliotecario-documentalista nel quale, v’invito a notare, Choo scrive significativamente la parola “enlightenment”.
 

3. Il bibliotecario come knowledge worker

Non approfondiremo più di tanto l’argomento, limitandoci a elencare le nostre note funzioni, che eserciteteremmo se fossimo impegnati in attività di knowledge management.

In un crescendo di complessità e di astrazione del lavoro:

  1. controllare le fonti dell’informazione;
  2. predisporre gli strumenti di ricerca più adatti per lo scopo della ricerca;
  3. utilizzare e innovare questi stessi strumenti di ricerca;
  4. elaborare e rielaborare (repackaging) l’informazione;
  5. rendere esplicita la conoscenza tacita;
  6. consentire il trasferimento della conoscenza tacita in quanto tacita.
I primi quattro punti sono comuni a ogni attività di reference o di documentazione in biblioteca. Gli ultimi due punti, invece, meritano un breve approfondimento, perché sono correlati con la differenza che possiamo rilevare fra un sistema informativo e uno cognitivo. Ci serviremo dell’immagine seguente, della quale ho totale responsabilità:

La figura mostra le trasformazioni che vengono a operarsi quando un autore comunica con un lettore:

  1. tramite l’intermediazione di un documento (il cubo marrone centrale, ed è il sistema informativo della biblioteca, per esempio, ed è il quinto punto dell’elenco di cui sopra: rendere esplicita la conoscenza tacita), oppure
  2. direttamente (la linea verde superiore, e il sesto punto dell’elenco: consentire il trasferimento della conoscenza tacita in quanto tacita), attraverso un sistema cognitivo ad hoc con l’intermediazione “occulta” dei nostri quattro personaggi.
In sostanza, questo fa il knowledge management: consente tra trasmissione diretta della conoscenza tacita fra coloro che chiamiamo convenzionalmente un autore e un lettore. Perché questo possa avvenire costantemente e con efficaca e con efficienza in un’epoca di socializzazione dell’informazione elettronica, è necessaria la creazione di strutture organizzative sì complesse nella loro concezione, ma molto banali nella pratica quotidiana di, per quel che ci riguarda, un “bravo” bibliotecario.
Dopo questa galoppata, che spero non vi abbia stancato, eccoci finalmente nel centro del nostro discorso.
 

4. KM e learning library

Circa la learning library, bisogna far chiarezza di alcune ambiguità. Non intendiamo, qui, la teaching-learning library reale o virtuale che dà supporto allo studente fornendo programmi, manuali e testi d’esame, ma ci riferiamo a supposte capacità cognitive di una biblioteca, sia quando essa mette in atto strategie di knowledge management, sia quando è essa stessa, bibliotecarî e utenti insieme, considerata un’organizzazione che “apprende”. Faccio un rinvio generico, per tutta questa tematica, all’intervento di Giovanni Di Domenico alle “Stelline” del 2000, il che mi esime dal parlarne diffusamente qui.

Devo solo precisare poche cose, più di quanto mi sembra sia stato fatto finora: poiché una biblioteca non è sospesa nel vuoto, essa è “cognitiva” o svolge funzioni cognitive, se e solo se l’organizzazione maggiore, che la ricomprende, ha queste medesime caratteristiche. In sostanza: può svolgere funzioni cognitive la biblioteca il cui dipartimento (o facoltà, o assessorato, eccetera) si è proposto coscientemente di assolvere a funzioni cognitive, così come, al contrario, non è possibile impiantare strategie di knowledge management in un settore aziendale se tutta l’azienda non riconosce e non accetta la necessità (e il costo) di questa innovazione.

La differenza si fonda sulla diversa accezione con la quale è valutata la conoscenza. Se la conoscenza è vista come uno strumento, ci troviamo nel caso delle imprese “business oriented” che adottano strategie di knowledge management. Se invece la conoscenza è vista come un fine, ci troviamo allora nel caso delle biblioteche che, genericamente, hanno come missione l’avanzamento della cultura.

La differenza è fondamentale, perché la presenza o l’assenza di funzioni cognitive di una struttura dipende dall’esistenza o meno di un gruppo di lavoro con essa correlato che, impiegando strategie di knowledge management, è orientato a un determinato cómpito, di solito “business oriented” e che condivide, al suo interno, la medesima ontologia.

Da un lato possiamo, allora, parlare di biblioteca o centro di documentazione che fornisce supporto al knowledge management per un beneficio della struttura maggiore; dall’altro lato possiamo parlare di generica attività promozionale della cultura. Se riflettiamo su quante volte il direttore di un dipartimento universitario, per esempio, ha incaricato il suo bibliotecario di risolvergli un problema di decisione relativo alla politica gestionale della giunta di dipartimento, possiamo renderci meglio conto della differenza fra queste due impostazioni. Nel caso altamente improbabile che l’abbia mai fatto (e ci farebbe allora molto piacere conoscere questo direttore di dipartimento), avrebbe incaricato la biblioteca di una funzione tipica del knowledge management (e messo in atto, ovviamente, le risorse per adempiere al cómpito).

Al di fuori di questo, restano le tradizionali funzioni cognitive di qualsiasi biblioteca aperta al pubblico, non differenti dalle funzioni cognitive di una struttura scolastica o di una libreria “intelligente”.
 

5. «Think like a librarian»

Ed ecco finalmente la nostra storia.

Avvenne che il capo di Lisa Guedea Carreño si accorgesse, un bel giorno, che avrebbe probabilmente potuto prevedere - e quindi evitare - un grave tracollo economico recentemente subíto dalla sua azienda, la Highsmith Inc., se non avesse costantemente tenuto il naso affondato solo sui proprî bilanci aziendali, ma avesse anche gettato un occhio un po’ più in là dello steccato, verso il mondo esterno. Immediatamente creò un nuovo ufficio, che chiamò “Life, the universe and everything” e a chi, pensò, poteva rivolgersi per aiuto, in questo mutamento di rotta, se non alla bibliotecaria aziendale?

Da quel momento Lisa, che lo stesso Mr. Highsmith aveva potuto precedentemente apprezzare come particolarmente dotata di funzioni tipiche del pensiero laterale, con inusuali capacità, anche in un bibliotecario, di “scanning, serendipity and synthesis”, fu immersa, quasi senza saperlo, in attività di knowledge management, che cercò di affrontare ineditamente con le “sole” funzioni e conoscenze professionali tipiche di un “buon” reference librarian. Quando le fu chiesto, infatti, qual fosse il suo “segreto”, la risposta fu, semplicemente: «Think like a librarian»!

Lisa creò, così, una piccola ma efficiente banca dati indicizzata con un tesauro ad hoc, nella quale cominciò a inserire tutto, ma proprio tutto, quel che le accadeva di conoscere, sentire, percepire e che le sembrasse interessante: dalle funzioni delle sinapsi neuronali a un quintetto di Mozart, da una telenovela all’ultimo bestseller o alla conversazione ascoltata dal parrucchiere. Parallelamente, la bibliotecaria fu invitata sistematicamente a tutte le riunioni del consiglio d’amministrazione, con il cómpito di fornire chiarezza, razionalità, cultura e “intelligence” su tutte le questioni dibattute. Non era sola in quel cómpito, potendo contare sul supporto di una collega e di una media biblioteca di qualche migliaio di volumi, qualche centinaio di riviste e qualche banca dati su CD-ROM, più  Internet, ovviamente.

Anche la scelta del materiale librario o elettronico si fece, da quel momento, più mirata, secondo princípi inediti da lei stessa fissati, come: «It doesn’t have to be right: it has to be provocative», e definendo il cómpito del knowledge worker come “Interpretation and customization of nonquantitative, nonformatted, nonobvious information”.

In breve tempo le sorti dell’azienda si capovolsero e fu conseguito quell’incredibile standard tipico di aziende con un buon knowledge management: fino al 40% d’aumento di profitto, valore quasi incredibile se si pensa ai fatturati di partenza, per esempio, di imprese come l’IBM o la Rank Xerox, ormai famose per le loro realizzazioni di knowledge management. Pare, inoltre, che gli amministratori della Highsmith Inc. stiano cominciando a “pensare come un bibliotecario”…

L’esperienza di Lisa Guedea Carreño e della sua azienda sono, così, diventate non solo esemplari nella letteratura del knowledge management, ma anche famose negli Stati Uniti, tanto che alla bellissima Lisa - attiva in un gruppo della Library Association per l’integrazione etnica nelle biblioteche, forse a causa della sua evidente origine ispano-americana - è stata dedicata una copertina da rotocalco molto richiesta sul Web (pare, infatti, che assomigli a non so quale famosa attrice di un serial televisivo americano che purtroppo, ho controllato, non è in distribuzione da noi…).
 

6. Reference e KM

Possiamo quindi estrarre, per i nostri scopi, due concetti fondamentali dal “caso” presentato:

  1. l’ineliminabile “funzione-ombra” (shadow librarian, nell’espressione coniata da James Matarazzo) del bibliotecario esperto dell’informazione (triangolo blu a sinistra nella piramide di Choo), intesa come presenza talmente pervasiva da diventare quasi invisibile;
  2. la necessità, da parte del knowledge worker, di partecipare alla comprensione, e quindi alla condivisione, dei fini generali e particolari dell’organizzazione di riferimento; nel caso di Lisa, per esempio, partecipando attivamente ai consigli d’amministrazione.
Inoltre, bisogna distinguere i casi di un reference universale o “per tutti” da quello di un reference personale o “per pochi”: tipico, il primo, delle biblioteche “di cultura” impegnate allo scioglimento del “blocco cognitivo” denunciato dall’utente e nelle quali il bibliotecario consiglia percorsi di ricerca (o di soluzione) ottimali tendendo, però, a fornire risposte standardizzate e ripetitive; maggiormente pertinente, il secondo, ad attività da documentalista integrato in un gruppo coerente, se non omogeneo, di ricerca, nel quale non si chiede al bibliotecario di risolvere il blocco di cui sopra, ma di impostarlocorrettamente, in stretta collaborazione con gli altri partner della piramide di Choo.

Qui la collaborazione con l’utente, tipica della learning library, non ha altra funzione che di costituire un feedback costante per la valutazione del problema, ai fini di una sua riformulazione continua in vista di una soluzione operativa da prendere in comune.

E possiamo quindi rilevare, nel medesimo modo, la presenza di una disciplina accademica chiamata “documentazione scientifica”, contro un altro tipo di documentazione, che si basa e si appoggia, ovviamente, sulla prima, salvo poi discostarsene nei fini e nelle prassi: una sorta di documentazione propositiva, se possiamo così tradurre il termine “proactive”, che cioè non pone davanti a sé, in prima istanza, un problema conoscitivo, ma un problema decisionale.

Un problema, cioè, riguardante un’azione da compiere, variamente, nel mondo dell’economia, della politica, della ricerca scientifica, e che ben diventa, sia chiaro, sì un problema di conoscenza, ma il cui significato non si esaurisce in esso stesso, trovando invece il proprio senso e significato nel costituirsi in un problema conoscitivo rivolto all’azione, spesso, ma non sempre, “business oriented”. È questo il senso profondo che più sopra abbiamo dato all’icona un po’ paradossale del direttore di dipartimento che chiede al bibliotecario di aiutarlo a prendere una decisione gestionale…

Ed è un po’ il caso noto, ma raro, dell’utente che non si rivolge al bibliotecario chiedendogli questo o quel documento o informazione di questo o di quel tipo, ma che, candidamente, pronuncia la famosa frase "Houston, abbiamo un problema!" cercando, quindi, una collaborazione paritaria per la presa di una decisione.

Il che, in definitiva, va nella direzione di quanto, nel suo recente Comunicare nell’era digitale, Valentina Comba ha riportato da Vicky O’Dae e Bonny Nardi: «Per costruire un agente intelligente vado a vedere come lavora il bibliotecario del reference»!

Quel che alla fine possiamo comunque certamente ritenere di tutto il discorso è, scherzando ma non poi tanto, che:

  1. senza un buon bibliotecario (knowledge worker) non si batte la concorrenza…
  2. forse ci chiamano in modo diverso, ma ci pagano anche di più…


Domenico Bogliolo, CICS - Università degli studî di Roma "La Sapienza", e-mail: domenico.bogliolo@uniroma1.it


NOTA

La bibliografia sull’argomento comincia a essere sterminata, e sta aumentando anche quella in lingua italiana. Spero che mi si voglia perdonare se qui, per mia comodità, mi limito a rinviare, come primo orientamento e parziale introduzione, a quanto ho raccolto in alcune mie pubblicazioni: “KM, Knowledge Management”, in AIDA Informazioni: una serie di 4 articoli dal fascicolo 2/1998 all’1/1999 e la successiva serie, in continuazione, “KM-Appunti”, sempre in AIDA Informazioni, dal fascicolo 1/2000 in poi. Rinvio poi al citato intervento di Giovanni Di Domenico alle “Stelline” del 2000, La biblioteca apprende: qualità organizzativa e qualità di servizio nella società cognitiva.  Su Lisa, infine, è fondamentale l’articolo di Leigh Buchanan, “The smartest little company in America”, in Inc. Magazine, 1/1999.



«Bibliotime», anno IV, numero 1 (marzo 2001)


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