«Bibliotime», anno X, numero 1 (marzo 2007)

Precedente Home Successiva



Paolo Traniello

Problemi dell'accesso e responsabilità della biblioteca



Il mio intervento, che vuole prendere in considerazione aspetti funzionali, più che propriamente attinenti alla sfera dell'etica, parte da un assunto di carattere storico-sociale: quello di un rapporto imprescindibile tra la biblioteca come struttura di raccolta, conservazione e gestione di documenti e l'istituzione che la pone in essere o comunque la recepisce al fine di porre i documenti stessi a disposizione di un pubblico.

L'ambito di applicazione delle considerazioni che mi propongo di svolgere riguarda quindi la realtà bibliotecaria "pubblica" nelle varie accezioni che questo aggettivo riferito alle biblioteche è venuto ad assumere lungo la storia, sia che ci si riferisca a raccolte di appartenenza privata destinate con varie modalità a un uso pubblico istituzionale, sia che si faccia riferimento a entità poste direttamente in essere da poteri pubblici o anche da strutture private che svolgano servizi di informazione di portata pubblica.

Resta invece escluso da questo ambito il settore delle biblioteche strettamente private, dove certamente non mancano, né sono mancati durante la storia, problemi di natura etica e giuridica di grande rilevanza, come ad esempio quelli relativi all'esercizio della censura sia nel momento della costituzione delle raccolte che in quello del controllo e della repressione del possesso di libri proibiti.

Nel quadro delle biblioteche definibili in senso lato "pubbliche" occorre poi sottolineare il mutamento avvenuto in età contemporanea e nel contesto della società industriale con l'inserimento della biblioteca tra i servizi pubblici finanziati dai contribuenti e di conseguenza esigibili sulla base di criteri attinenti allo svolgimento della vita democratica.

Un rapporto profondo ed essenziale tra la biblioteca pubblica in senso contemporaneo e la democrazia di tipo liberale rappresentativo è storicamente indubitabile, anche se una sua troppo marcata ideologizzazione non ha sempre costituito un utile apporto alla comprensione dei fenomeni bibliotecari.

Non è neppure su questo aspetto, però, che vorrei ora centrare la mia attenzione, ma piuttosto sul carattere tutt'altro che "neutro" che intercorre tra biblioteca e istituzione. Mi rifaccio per questo a un autore e illustre bibliotecario britannico, Maurice Line, certo non sospetto di estremismo e ammirevole invece, a mio avviso, per l'equilibrio e la concretezza con cui ha saputo esprimere nei suoi numerosi interventi le proprie lucide e sempre criticamente orientate argomentazioni.

Il testo che vorrei richiamare e del quale riporterò qualche passo da me stesso tradotto si intitola: Ends and means: librarianship as a social science e costituisce un intervento effettuato da Line nel Dicembre 1964 nell'ambito della Library Association, poi pubblicato nella raccolta di suoi scritti scelti edita nel 1988 da Bingley con il titolo: Lines of thought.

Come spesso accade nella letteratura in lingua inglese, nella nostra come in altre discipline, le domande iniziali da cui muove l'argomentazione appaiono quasi elementari, ma le conclusioni a cui conducono sono tutt'altro che banali. "Le biblioteche", comincia con l'osservare Line "forniscono libri alle persone che vogliono leggerli e consultarli. Ma perché lo fanno? La risposta più semplice è: perché, appunto, la gente li vuole. Ma allora, dobbiamo chiederci: perché li vuole? E subito dopo chiediamoci: siamo tenuti a dare alle persone quello che esse vogliono?".

Se così fosse, una biblioteca ecclesiastica, ad esempio, potrebbe essere normalmente fornita di libri di propaganda atea o di carattere erotico, se vi fossero lettori che li volessero proprio da quella biblioteca e darli tranquillamente in lettura senza porsi interrogativi di sorta, e una biblioteca o un centro di documentazione aziendale non avrebbe difficoltà a fare consultare a chiunque fosse interessato i rapporti di ricerca o i dossier amministrativi dell'azienda a cui appartiene; oppure, una biblioteca universitaria potrebbe abbonarsi ai rotocalchi più popolari al semplice scopo di fornire qualche strumento di svago ai propri utenti se essi li richiedessero.

Così però non è né può essere. La vera risposta alla domanda su cosa una biblioteca possa o debba dare ai lettori non è: "ciò che vogliono i lettori", ma è: "ciò che la biblioteca pensa che i lettori debbano volere in relazione a quella biblioteca". Questo tipo di risposta comprende evidentemente due aspetti: il primo di carattere personale, il secondo istituzionale.

Dal primo punto di vista, appartiene evidentemente al bagaglio etico del bibliotecario il favore da accordare, entro i limiti dell'istituzione in cui opera, alla libertà d'acceso all'informazione, ed è inevitabile da questo punto di vista che egli si interroghi preliminarmente sulla consonanza tra la propria impostazione morale complessiva e quella dell'istituto in cui opera o potrebbe operare. Per fare gli esempi riportati da Line un bibliotecario cattolico militante non potrà non domandarsi se lavorare nella biblioteca di un'associazione per il controllo delle nascite o un bibliotecario pacifista se accettare un impiego nella biblioteca di un'industria di armamenti.

Ma, oltre questi problemi di etica individuale, che pongono comunque dilemmi di tipo operativo entro i quali il bibliotecario può e deve fare appello alla propria coscienza, resta il fatto che ogni istituzione bibliotecaria si colloca all'interno di una determinata realtà sociale che le assegna determinate funzioni e, conseguentemente, esercita su di essa determinati controlli.

"La biblioteca- afferma Line- è come un armamentario di un determinato potere e dobbiamo essere ben consapevoli di come esso viene maneggiato". Questa considerazione, che vale in generale per tutte le biblioteche che svolgano una funzione comunicativa non limitata solo ai loro possessori, si applica però con particolare evidenza alla biblioteca pubblica contemporanea, vale a dire quella che si pone come servizio pubblico nei confronti di una comunità politica, statale o, più normalmente, locale.

Qui il problema di sapere ciò che la biblioteca deve pensare circa i bisogni dei propri utenti si carica di nuove valenze relative appunto allo svolgimento della vita democratica. E' ovvio che una biblioteca di questo tipo non possa escludere o filtrare l'accesso alla lettura in funzione delle opinioni politiche, ma neppure delle convinzioni etiche, filosofiche e religiose di chi la amministra o di chi la dirige.

Già questo, però, è problema di non piccolo conto, se pensiamo che le biblioteche non sono in se stesse persone, ma vengono fatte funzionare da esseri umani concreti (responsabili politici, consigli di amministrazione o di gestione, bibliotecari), ciascuno di quali ha un proprio bagaglio culturale e tende inevitabilmente a valutare la realtà e le sue forme rappresentative da un proprio punto di vista. Certo il richiamo all'imparzialità e alla libertà di accesso all'informazione è fondamentale, ma non basta da sé a risolvere il problema, dal momento che tutte le conoscenze e le idee umane, compresa quella di democrazia, sono interpretative e soggette ad interpretazione.

D'altra parte vi sono principi generali, ad esempio di "buon costume", che trovano necessariamente in una biblioteca pubblica applicazione diversa rispetto, poniamo, a un'edicola di giornali, come pure è difficile pensare che le espressioni più violentemente critiche nei confronti del sistema democratico o dei "valori" più comunemente accettati trovino largo spazio nelle politiche degli acquisti, specie se filtrate da commissioni di gestione.

E' vero, si potrebbe obiettare, che testi e documenti di questo tipo possono essere normalmente meno richiesti dagli utenti, ma è anche vero che la politica degli acquisti e la costituzione delle raccolte è già in se stessa un fatto incentivante o disincentivante, dal momento che è ben noto, anche attraverso le ricerche sull'utenza bibliotecaria, l'esistenza di un rapporto biunivoco tra domanda e offerta di lettura. D'altra parte, se la biblioteca in qualche modo si propone di esprimere valori democratici e di educare alla democrazia, è del tutto evidente che ciò comporta conseguenze, non solo in senso positivo, ma anche limitativo, sulle scelte funzionali che essa è chiamata ad operare.

Da buon britannico, Maurice Line, più che tentare una soluzione filosofica astratta di questi così intricati problemi (che naturalmente oggi si complicano ulteriormente in relazione all'uso di Internet in biblioteca), propone una via di uscita empirica e molto ragionevole, che sottolinea con forza la responsabilità culturale del bibliotecario, che non può essere limitata all'area strettamente tecnica (catalogazione, classificazione e quant'altro) ma deve essere centrata su una precisa conoscenza dei fenomeni comunicativi. "Se la biblioteconomia concerne una forma di comunicazione tra i libri e le persone", afferma Line "essa deve includere almeno tre aspetti: lo studio dei libri; lo studio delle persone e lo studio delle tecniche di comunicazione".

A proposito del secondo aspetto, che egli chiama study of people (qui tradotto, più o meno bene come: "studio delle persone"), pur senza volerne fornire una definizione precisa, Line lo considera come attività volta a far acquisire al bibliotecario una capacità essenziale per lo svolgimento della sua professione: quella dell' "empatia" nei confronti dei singoli e dei gruppi, intesa come attitudine all' ascolto anche di segnali o di richieste del tutto impreviste e alla strutturazione di una risposta il più possibile adeguata.

Un altro tema che si pone come essenziale anche per le biblioteche nella società sempre più complessa in cui viviamo, è quello della "distribuzione culturale". Esso è stato posto in luce con particolare efficacia dall'antropologo svedese Ulf Hannerz, la cui opera: La complessità culturale: l'organizzazione sociale del significato, pubblicata in versione italiana da Il Mulino nel 1998, costituisce un prezioso contributo alla riflessione su aspetti solitamente meno trattati della problematica culturale.

Lo studio della realtà culturale nelle sue diverse manifestazioni può essere articolato secondo Hannerz in tre grandi temi concernenti rispettivamente: le idee e i modi di pensiero, cioè la formazione e l'elaborazione dei significati; le forme di esternazione, vale a dire i diversi modi in cui i significati vengono resi accessibili: infine la distribuzione sociale, definita come: "i modi in cui l'inventario culturale collettivo di significati e di forme esteriori significanti è diffuso nella popolazione e nelle relazioni sociali" (p. 11). Da questo terzo punto di vista, che è quello che sta particolarmente a cuore a Hannerz, "la cultura è distribuita, e comprende la definizione di significati della distribuzione" (p. 22).

La distribuzione concerne evidentemente in primo luogo le istituzioni culturali, ma non solo queste. Anche i mezzi di produzione culturale e gli stessi messaggi espressi e conservati non sono paritariamente distribuiti nei diversi gruppi: già Marc Bloch aveva posto l'accento dal punto di vista storiografico sul rapporto tra documenti e potere, ed è ben evidente non da oggi come ad esempio le storie delle guerre vengano narrate dai vincitori, non dagli sconfitti.

D'altra parte la tecnologia dell'informazione, che la rende così capillarmente diffusa, amplifica però, paradossalmente, la disomogeneità degli aspetti distributivi fino a ingenerare abbastanza legittimamente nuove forme di scetticismo moderno. Una libertà di accesso all'informazione che prescinda da una previa valutazione critica delle fonti e dall'offerta di fonti meno accessibili non appare soddisfacente, se non da un punto di vista strettamente individualistico, le cui conseguenze psicologiche (conformismo, indifferenza, tendenza alla subordinazione) appaiono evidenti.

"Sulle basi della distribuzione attuale dell'informazione", nota Hannerz "l'ineguaglianza è evidente, e mentre l'inventario totale aumenta, aumentano in modo altrettanto evidente la privazione relativa, e l'ignoranza relativa" (p. 45). La responsabilità etica della biblioteca sembra allora essere legata, assai più che all'accesso all'informazione comunemente diffusa dai maggiori e più potenti apparati, allo sviluppo di un senso critico, vorrei dire di un istinto di diffidenza, verso tale universo conoscitivo.

Vorrei infine porre brevemente l'accento su un corollario apparentemente esterno ai temi qui trattati, ma in realtà a mio avviso abbastanza connesso soprattutto all'ultima delle osservazioni sopra proposte.

Se è vero, come a mio avviso lo è, che la biblioteca non può né deve essere omologata agli strumenti di comunicazione di massa, né condividerne la logica, ne consegue che la funzione informativa specifica che spetta alla biblioteca dovrà disporre, per potere continuare a sussistere, di mezzi non irrisori né dal punto di vista qualitativo, né da quello quantitativo.

Questo tipo di problemi coinvolge evidentemente in primo luogo l'analisi e la conoscenza dei bisogni dell'utenza. Essa tuttavia è stata a mio avviso troppo spesso condotta in una direzione che chiamerei demagogica, nel senso di permettere a spese della comunità un allargamento di quegli stessi consumi culturali che corrispondono ai comportamenti più diffusi, spesso a scapito di esigenze meno diffuse, ma essenziali per lo studio e la ricerca.

Così l'esistenza nel nostro Paese di grandi biblioteche che permettano un libero accesso a raccolte sufficientemente ampie da consentire percorsi di ricerca più o mino mirati o casuali, ma comunque liberi, entro la complessità della comunicazione, non è stata a mio avviso sufficientemente realizzata.

Da questo punto di vista il gruppo di lettori che vogliano usare la biblioteca per fare effettivamente ricerca, vale a dire per confrontare le conoscenze e le informazioni di cui dispongono con altre che provengano da fonti meno note e più difficilmente accessibili, ma che siano rese effettivamente disponibili e vengano rapidamente e completamente aggiornate, costituisce oggi a mio avviso nelle biblioteche italiane, in larga misura una "utenza svantaggiata".

Paolo Traniello, Università degli Studi Roma Tre, e-mail: traniell@uniroma3.it





«Bibliotime», anno X, numero 1 (marzo 2007)

Precedente Home Successiva


URL: http://static.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-x-1/traniell.htm