«Bibliotime», anno X, numero 1 (marzo 2007)

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Giovanni Galli

Il 'dover essere' della biblioteca: riflessioni su accesso ed estensione



dedicato a Luigi Balsamo [1]

La ricerca di elementi di un discorso etico nella riflessione sui servizi di biblioteca potrebbe condurci a domande quali:

"Che rapporto c'è fra etica e biblioteconomia?"

non diversamente da quanto accade per altre discipline "sociali" quali l'economia, oppure la politica (pensiamo per esempio agli studi di Amartya Sen [2])

Espresse in questi termini, tuttavia, queste domande non sembrano presupporre una chiara distinzione fra la dimensione descrittiva-predittiva e quella deontologica del discorso, contribuendo più spesso a confondere che non a chiarire i rapporti.

In ogni caso, rispondere a una domanda così formulata, magari per contestarne la legittimità, si presenta come una pretesa forse troppo audace, anche se del tutto appropriata al luogo nel quale oggi confrontiamo le nostre convinzioni. Il mio tentativo di ragionamento vuole, allora, restare quanto più gli riuscirà vicino a questa pretesa diciamo così filosofica, della cui utilità forse dubitano in molti ma - a quel che sembra - non gli organizzatori di questo convegno.

Anticipo anche la mia tesi: vorrei portare acqua al mulino di un luogo comune, quello che dichiara essere la biblioteca pubblica un istituto della democrazia, di cui, quindi, condivide i valori fondanti, non meno che le costitutive contraddizioni.

Ma ora permettetemi di annoiarvi.

Esiste, dunque, un rapporto fra etica e biblioteca?

Mi parrebbe già più appropriata la domanda se esista un rapporto fa qualche valore morale e l'agire di chi progetta, organizza ed esercita un pubblico servizio di biblioteca. Come a dire che, in verità, l'agire del bibliotecario piuttosto che l'essere della biblioteca è apprezzabile in rapporto a qualche valore morale.

Poiché tuttavia l'agire del bibliotecario, nel rispetto di certi valori morali, produce una biblioteca che funziona in modo che tali valori siano rispettati, ecco che possiamo anche per la biblioteca parlare di dover essere, in questo duplice senso:

Già ponendo il tema in questi termini, rendo evidente che l'oggetto di riferimento per questa mia riflessione è rappresentato dalla biblioteca pubblica, intesa come strumento della politica inclusiva del welfare: in questo quadro i due momenti - interno ed esterno - si influenzano a vicenda dinamicamente in modo evolutivo ossia, come si sarebbe detto un tempo, in modo dialettico. Credo, tuttavia, che queste considerazioni possano, in qualche misura, attagliarsi anche agli altri tipi di biblioteca (che sarebbero - per quel che vale questa tipizzazione - quello della biblioteca-archivio conservativo e quello della biblioteca di ricerca) quando si ritenga che nel sistema della riproduzione sociale della informazione documentaria la biblioteca pubblica, oltre che una funzione operativa sua propria ne abbia una simbolica, in nome e per conto anche delle altre: ossia di esserne in qualche modo l'idea regolativa, ovvero l'orizzonte.

Nel suo noto articolo Pubblica Luigi Crocetti - che tanto vorremmo fosse qui in mezzo a noi - lo dice con icastica semplicità:

Nella screziata tipologia di questi istituti [le biblioteche], tutti gli altri si pongono uno scopo determinato, dal vastissimo (l'archivio nazionale dei documenti) al ritagliatissimo (l'apparato di studio e di ricerca di un istituto universitario). Tutti, in qualche modo, ne sono paradossalmente limitati. Quando limiti non ci sono, e lo scopo non è circoscrivibile e definito in termini concreti, perché lo scopo sono gli esseri umani, siamo di fronte a una biblioteca pubblica. Detto con parole antiche, siamo di fronte alla medicina dell'anima. [3]

Vediamo ora il primo punto, ossia come la biblioteca debba essere per adeguarsi a un modello nel quale operino certi valori. Ma quali?

Il modello della biblioteca pubblica sembrerebbe ispirarsi a una norma di universalizzazione e di massimizzazione della disponibilità di risorse e dell'accesso ad esse ("l'assenza di limiti", nelle parole di Crocetti appena citate). Da questa norma di finalizzazione, ma anche di funzionamento della biblioteca, si può dedurre la norma di azione del bibliotecario: sarà quella di garantire questa disponibilità e questo accesso, sotto il profilo dell'eguaglianza degli utenti davanti alla offerta di informazione, di cui deve essere assicurata la continuità e regolarità, in modo obiettivo e imparziale.

Queste norme non sono, nella loro generalità, specifiche delle biblioteche ma proprie di ogni pubblico servizio. Possiamo addirittura rinviare al testo della Costituzione:

Art. 97.

I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.

Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari […].

Art. 98.

I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione […].

Eguaglianza degli utenti davanti ai servizi, imparzialità nella erogazione di questi da parte degli operatori, regolarità e continuità nella fornitura del servizio, principio della responsabilità, etc. Sono pressoché le parole stesse della ben nota "Direttiva sui principi di erogazione dei servizi pubblici" emanata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1994, da cui si è snodato il fiume possente di chiacchiere, solcato da qualche rarissimo pesciolino fattuale, che è rappresentato dal dibattito sulla carta dei servizi.

Nonostante la sostanziale inconcludenza di questa discussione e, a mio parere, la pressoché totale irrilevanza delle carte dei servizi nel processo di miglioramento, quando c'è stato, dei servizi pubblici, non si può certo dire che, di per sé, questo strumento di regolazione dei servizi in carenza di mercato fosse privo di suggestioni e di interesse. Ci sarebbe da chiedersi la ragione di questa discrasia tra potenzialità ed effettualità.

Comunque, ai fini della nostra presente discussione, vale la pena di notare come i valori e le norme di comportamento (siamo sul piano dell'etica professionale) si convertano nelle carte dei servizi (patto fra il soggetto titolare del servizio e i suoi utenti) e addirittura nei contratti di servizio (patto fra il titolare del servizio e il gestore) in norme di tipo giuridico ma non pubblicistico bensì privatistico. Per esempio l'imparzialità non è più soltanto un dovere morale del civil servant e neppure soltanto un suo dovere costituzionale, ma anche l'oggetto di un contratto stipulato con l'utente, la cui inosservanza produce conseguenze extra-giudiziali quali il risarcimento del danno previsto, appunto, sul piano regolamentare anche prima di arrivare a quello giurisdizionale.

D'altra parte, questi concetti (uguaglianza, imparzialità, regolarità, continuità) sono anche gli stessi contenuti nel nostro Codice deontologico del bibliotecario: principi fondamentali (1997) [4], da cui stralcio:

1. Doveri verso l'utente

1.1. Il bibliotecario garantisce all'utente l'accesso alle informazioni pubblicamente disponibili e ai documenti senza alcuna restrizione che non sia esplicitamente e preliminarmente definita attraverso leggi o regolamenti.

1.2. L'informazione fornita dal bibliotecario è completa, obiettiva e imparziale, cioè non condizionata da punti di vista, idee e valori del bibliotecario stesso né da enti politici o economici esterni.

1.3. Nella gestione della biblioteca e nel servizio al pubblico il bibliotecario non accetta condizionamenti in ordine a sesso, etnia, nazionalità, condizione sociale, fede religiosa o opinioni politiche.

1.4. Il bibliotecario ripudia e combatte qualsiasi forma di censura sui documenti che raccoglie e organizza e sull'informazione che fornisce.

1.5. Il bibliotecario garantisce la riservatezza dell'utente, delle informazioni che ha richiesto o ricevuto e delle fonti utilizzate […].

3. Doveri verso i documenti e le informazioni

3.1. Il bibliotecario si impegna a promuovere la valorizzazione e tutela dei documenti e delle informazioni.

3.2. Il bibliotecario si impegna a garantire la trasmissione della conoscenza mediante la razionale organizzazione dei documenti e agendo con imparzialità e cultura professionale.

3.3. Il bibliotecario, consapevole del contesto globale in cui opera, si impegna a promuovere singolarmente e in forma cooperativa l'integrazione dei diversi sistemi informativi e la rimozione degli ostacoli organizzativi e geografici che limitano la circolazione delle informazioni e dei documenti.

Il valore dei codici deontologici è ricondotto dalla Encyclopedia of Library and Information Sciences a questa importante considerazione: "A profession emerges when society recognizes the intrinsic worth of the services that members of the group, individually or collectively, offer". [5]

Ma questo valore (worth non è soltanto un concetto di origine economica - come taluno ritiene - ma possiede connotati emozionali e morali originari: "the birth place of value, the country of worth" diceva Robert Burns della sua patria scozzese proprio negli anni di formazione dell'economia politica classica), questo valore - articolato come abbiamo detto e corrispondente a un principio universalizzante - da dove ci viene?

Per meglio esporre il mio punto di vista, ricorrerò all'aiuto di un testo recente ma ormai classico e pertinente: I nostri valori di Michael Gorman, [6] testo che senz'altro ci prende e quasi ci commuove, ma anche un po' mi delude, a fronte della valutazione esaltante che ne fanno i curatori dell'edizione italiana. Intendiamoci, mi sentirei di condividere pressoché tutto quel che Gorman propone alla nostra riflessione e che Guerrini e Petrucciani commentano e riaffermano in belle pagine di corredo. E in aggiunta di sottoscrivere con passione le tesi a cui conclude, salvo l'eccesso di polemica contro il digitale, che certo è da contestualizzare.

Tuttavia, anche volendo non badare alla tipica retorica pragmatistica americana, che evidentemente anche l'emigrato inglese condivide, ed anche scontando una traduzione che non giova alla comprensione del testo, pure dobbiamo chiederci: dov'è il tentativo di ricostruzione sistematica del quadro di riferimento di questi "nostri valori" che ci porterebbe a superare quell' "antifilosofia della praticità" che giustamente Alberto Petrucciani ascrive a limite della nostra professione? [7]

Ma restiamo al testo. Quali sono concretamente i nostri "valori durevoli"? Vediamoli nelle parole stesse di Gorman:

  1. La capacità di gestione
  2. Il servizio
  3. La libertà intellettuale
  4. Il razionalismo
  5. L'istruzione e l'apprendimento
  6. L'equità di accesso alla conoscenza e alle informazioni
  7. La privacy
  8. La democrazia.

Ma sono davvero, questi otto, valori indipendenti ed irriducibili fra loro e qualitativamente omogenei, così da poter essere inseriti in una lista di "principi" che possiamo considerare autoconsistente?

E' pensabile l'equità di accesso - generalizzato - fuori da un contesto democratico? Ed ugualmente: la libertà intellettuale - per tutti - senza democrazia?

Dunque almeno alcuni di questi pretesi "valori" sono deducibili da un altro della stessa lista e quindi - come principi - superflui. D'altra parte, lo stesso Gorman ammette che fra tutti il solo tipico delle biblioteche è la "capacità di gestione", che non corrisponde semplicemente al management ordinario, che si potrebbe trovare in biblioteca come in una qualsiasi altra organizzazione, ma specificamente al presidio della funzione di trasmissione nel tempo della conoscenza documentaria ["capacità di gestione" traduce l'inglese "stewardship", che vale per "guardiania" o "custodia" oltre che per "amministrazione" e che potrebbe, in modo curiosamente appropriato per il contesto italiano, essere tradotto anche con "soprintendenza", senza dimenticare la connotazione anche religiosa che il termine originale possiede, che da' un tono sacrale all'attività di conservazione].

Capacità di gestione, dunque, come valore specifico. Che è quanto a dire che la biblioteca è una istituzione della riproduzione sociale della conoscenza [8]. Ma questa è una definizione, piuttosto che un valore.

Infatti, perché noi dovremmo sentirci moralmente impegnati in questo compito di trasmissione di un patrimonio di conoscenza, se non in virtù dell'ipotesi - forse dimostrabile ma qui non dimostrata - che la conoscenza - cui l'uomo ha diritto: e qui sta precisamente il punto - è compiuta ed efficace solo in una prospettiva storica e sistematica insieme?

E' banale ma non meno vero per questo: per come la concepiamo noi la biblioteca pubblica è veramente e storicamente un istituto della democrazia (e qui mi pare del tutto superfluo esplicitare la citazione [9]) nel senso che partecipa degli stessi valori fondanti e vi aggiunge, di suo, solo la specificazione che l'universalità (tendenziale, e su questo torneremo) di esercizio della libertà – tipica della democrazia – da cui derivano le pari opportunità e l'equità di trattamento, da cui si deduce la nostra deontologia, si esercita qui per le biblioteche in relazione al diritto di informazione e di lettura, pur basandosi su un fondamento generico non diverso da quello che regge il diritto – che so? – alla salute o alla sicurezza sociale, ma diverso per il contenuto specifico – informativo-documentario ossia appunto bibliotecario. Questo ritrovarci come specie nel genere vastissimo dei servizi pubblici, lungi dall'indebolire la nostra posizione la rafforza, perché ci toglie dall'interstizio, dalla nicchia dell'erudizione e ci butta senza riguardi nella grande babilonia della vita quotidiana.

Ma dobbiamo svolgere ancora questo concetto di libertà. Poiché, come ci insegnano i classici, esiste una libertà negativa come indipendenza ossia come libertà dagli ostacoli che altri può frapporre alla nostra azione, e una libertà positiva come autonomia nel senso di capacità di autoregolazione: in questo secondo significato siamo liberi perché obbediamo soltanto alle leggi che ci siamo date.

Così come la libertà negativa caratterizza tipicamente il liberalismo, questa libertà della volontà è massimamente caratteristica della democrazia, che vive della partecipazione dei cittadini al governo ovvero - come dicono i più realisti - alla scelta dei governanti. Questa libertà positiva richiede, per essere esercitata adeguatamente, conoscenza e coscienza. Weber definiva compito della scienza in rapporto alla morale quello di analizzare e illustrare le conseguenze delle azioni, così contribuendo alla scelta di vivere secondo certi valori (etica della responsabilità): in questo sta il suo valore specifico, onde quella dello scienziato possa dirsi una professione e la sua attività una vocazione (sono entrambe possibili traduzioni del tedesco beruf che sta nel titolo originale della conferenza da cui cito). Mi sembra che potremmo applicare lo stesso concetto di professione anche al nostro lavoro.

So bene che si tratta di affermazioni banali, come banali sono le cose semplici, tipo la democrazia. Mi spiego meglio: la democrazia è una cosa molto complicata nel suo farsi ma riposa semplicemente su un principio di universalizzazione, senza limiti, del principio di libertà da cui l'uguaglianza deriva come corollario (altri, certo, pensano diversamente).

E' vero che si tratta di un'ipostasi con la quale noi diamo senso, è inutile nascondercelo, a una dialettica storica di conflitti, per lo più sanguinosi, che attraverso la violenza creano questa strana cosa che è il progresso. Ma il conflitto e il suo provvisorio superamento non sono la patologia ma piuttosto la fisiologia della nostra maniera di vivere in società: democratico è un certo modo di sviluppare questo conflitto, un modo storicamente determinato, che ha al più duecent'anni di vita [10], a fronte di una storia di conflitti diversamente gestiti, che risale indietro nel tempo fino alle caverne, e che si proietta davanti a noi verso l'ignoto.

Norberto Bobbio, dopo aver prospettato una idea della "storia come storia della libertà", propone l'ipotesi meno compromessa metafisicamente della "storia come un continuo e rinnovato tentativo degli individui e dei gruppi (popoli, classi, nazioni) di allargare la propria libertà d'azione … e di affermare il principio dell'autodeterminazione contro il ripetersi, il riprodursi, l'atteggiarsi nelle più diverse guise, delle forze oppressive, o, com'è stato ancor recentemente chiarito, come una serie di risposte alla sfida sempre ritornante della illibertà" [11]

Negli anni sessanta – eravamo ragazzini – e settanta – eravamo giovani speranzosi (o taluni già tragicamente disperati) in quegli anni si usava "demistificare" l'inganno della democrazia formale, che occultava una sostanziale oppressione economica e sociale. La lotta di classe! altro che chiacchiere sulla formazione della volontà collettiva.

Nel nostro campo d'interesse – le biblioteche – numerose furono le prese di posizione conformi a questa opinione. Cito soltanto il testo più famoso, quel Primo non leggere [12] - pretendente a rappresentare la voce dei demistificatori - e gli contrappongo la recensione che ne fece sul Bollettino dell'AIB Francesco Barberi, che si atteggiava a campione della democrazia senza se e senza ma.

Petrucci e Barone puntavano il dito sulla pretesa "obiettività" del bibliotecario, un bibliotecario alla Carini Dainotti per capirci, contestandone la legittimità nel principio, sostenendo una contaminazione ideologica per definizione nella sua funzione, ed accusando di qualunquismo chi sosteneva il contrario. In altre parole: si è sempre schierati, chi non lo ammette si schiera implicitamente per la conservazione. Questa critica faceva cadere tutto l'edificio della biblioteca pubblica. Al contrario Barberi rivendicava tale valore professionale (l'obiettività "lungi dall'essere acritica, è il risultato di uno sforzo di consapevolezza critica; è pel bibliotecario quel che per lo studioso è l'onestà intellettuale" [13]), non confondendolo con la "neutralità", elogiando, con le parole di Bernardino Varisco, la compromissione dei propri principi con quelli dell'altro diverso: vero esercizio di razionalità e libertà e infine di rispetto.

Sono passati tanti anni da allora e ne son successe di tutti i colori, ma noi sappiamo anche oggi che c'era molto di vero in quell'opzione di denuncia. Ossia sappiamo, sempre usando le parole di Bobbio, che "le libertà di cui l'uomo è privato nella società tecnocratica non sono le libertà civili o politiche, ma è la libertà umana nel senso più ampio della parola, la libertà di sviluppare tutte le risorse della propria natura." [14]

Ma nonostante la fondatezza di questa analisi, nondimeno è proprio in quella tensione alla universalizzazione della libertà, come lotta incessante contro le illibertà sempre risorgenti, che si manifesta il principio democratico. E ciò si propone addirittura anche oltre il limite dello stesso genere umano. Non stiamo forse da qualche decennio guardando all'ambiente con occhi diversi, che non vedono in esso soltanto una risorsa da sfruttare ma anche un contesto in cui convivere? Non stiamo guardando con occhi diversi agli animali? Magari anche distogliendoli, i nostri occhi pietosi, dallo spettacolo dei bambini affamati del terzo e quarto mondo, così che la nostra sensibilità apparirà ai dannati della terra probabilmente una blasfema ipocrisia?

Ma, non di meno, il progresso dell'universalizzazione continua! E' anche questo un momento, contraddittorio, della globalizzazione. Oppure, al contrario, la globalizzazione è forse la tappa odierna della universalizzazione dei rapporti umani? Per molti tratti non è poi tanto diversa dalla "accumulazione originaria" dei secoli XVII e XVIII, che ha fatto strage di innocenti in Europa ma che ha prodotto anche due rivoluzioni benefiche come quella inglese e quella francese!

In questo progresso dall'incerto destino propendo a vedere, come sempre, un conflitto, che può svolgersi anche beneficamente. E certo gli stati democratici e - mi permetto di dire - soprattutto l'Europa contribuiscono a questo esito con le loro politiche inclusive, che si propongono sì l'omologazione del diverso, ma riescono contro la loro stessa intenzione alla ibridazione ed all'arricchimento. Taluno la chiama eteronomia dei fini, talaltro astuzia della regione. Non giuriamo sulle buone intenzioni dei Normanni ma apprezziamo la civiltà siciliana e, per stare qui vicino a noi, quanto di quel che siamo noi padani oggi è il frutto della fertile lotta fra longobardi e romani che proprio qui intorno a Modena si è a lungo combattuta?

Ora, come tutti noi ben sappiamo, alle origini di questa vicenda – ossia all'origine dei processi moderni di inclusione sociale – sta, fra le altre provvidenze ed istituti, proprio la biblioteca pubblica, nella sua forma primordiale della "free library" – sulla quale ci ha così utilmente ed amabilmente intrattenuto il nostro stimato collega Sturges nell'intervento pubblicato in questo stesso fascicolo, e ci sta anche, per quel che riguarda l'Italia, la nostra piccola ed umile biblioteca popolare. E precisamente la storia della evoluzione della "free library" inglese di metà ottocento, come della biblioteca popolare italiana, nella biblioteca pubblica moderna, come noi oggi la conosciamo, ci fornisce un bellissimo esempio della evoluzione di un pubblico servizio dalla forma liberale a quella democratica.

E questo è il secondo aspetto del dover essere della biblioteca: ossia ciò che la biblioteca pubblica deve diventare per rispondere al progetto di estensione, di inclusione che è proprio della democrazia.

Paolo Traniello ha, fra tutti gli altri, anche il merito di averci fatto prendere coscienza delle nostre illusioni a proposito della biblioteca pubblica: sulla sua limitata influenza sociale non solo in Italia, ma addirittura in America o in Inghilterra sue patrie, riportando le opinioni autocritiche di quei colleghi e di quegli studiosi. Ricordate: il 20% di indice di impatto, la composizione sostanzialmente omogenea dell'utenza fatta di utenti uguali per ceto e cultura ai bibliotecari: quindi un affare interno alla piccola borghesia, che per soprammercato fa pagare agli altri con le tasse i propri modesti sollazzi intellettuali (il famoso Robin Hood all'incontrario) [15]. Probabilmente è tutto vero, al punto che il linguaggio stesso della biblioteca, o meglio dei bibliotecari, è tutto interno a questo orizzonte: essi parlano ad utenti che già usano lo stesso linguaggio, quasi parlassero a se stessi in un pericoloso circuito di autoreferenzialità.

Tuttavia, andiamoci piano su questa china autolesionista. Sarò irriguardoso se suggerirò ai cari colleghi accademici di interrogarsi sull'indice di impatto dell'Università? Sarà maggiore o minore del famoso 20%? Eppure non si può certo parlare di irrilevanza sociale dell'istituzione universitaria!

Ma lasciamo le polemiche fuor dell'uscio corporativo, e torniamo al principio di estensione.

Si tratta, ancora, dello stesso principio, che estende, quasi per cerchi concentrici di raggio sempre maggiore, l'ambito di azione del regime democratico e la sfera dei diritti in esso; come sostiene Burdeau, "sul piano filosofico si affermerà il concetto che l'idea democratica conferisce alla persona umana una dimensione che supera sempre, per qualche aspetto, le condizioni della sua esistenza…" [16].

Facciamo un esempio. Dato uno statuto, storicamente determinato, dei diritti di accesso alla politica, che comprenda tutti i maschi maggiorenni, ecco che la pretesa di accedervi delle donne si propone come opposizione e come conflitto, che si risolve nell'inclusione, a patto che siano accettate alcune condizioni. Si passa così dalle proteste delle suffragette al voto alle donne, contestato nel suo carattere fallacemente risolutivo dal femminismo, che ne respinge il carattere omologante e pretende che la differenza di genere sia considerata l'irriducibile elemento fondante di una comunità omogenea. Così le streghe, dopo essere tornate in mezzo a noi, se ne sono andate nuovamente nei boschi, ma ci hanno lasciato in eredità il diritto delle donne a pari opportunità che è un po' di più della semplice equiparazione dei diritti, ma è un, timidissimo, tentativo di forzare-oltre l'uguaglianza per (ri)stabilirla.

Questo della forzatura è un tema essenziale per il nostro discorso.

Un politico sarmatico che non gode oggi più di buona stampa (ma una volta il suo ritratto era molto diffuso anche qui nella pianura padana) soleva dire che per raddrizzare un bastone curvo non basta raddrizzarlo ma occorre piegarlo nell'altro senso. Una metafora contadina (c'erano molti contadini allora ad ascoltarlo) per dire che la violenza rivoluzionaria era necessaria per (ri)stabilire le condizioni di giustizia [17]. Ma bolscevismo a parte, è proprio della cosiddetta democrazia sociale trattare in modo diseguale i diseguali, ossia rimediare agli svantaggi al fine di eliminarli e (ri)costruire una parità. Sempre Burdeau dice: "al potere garante imparziale dell'ordine costituito si sostitui[sce] l'immagine di un potere creatore di realtà sociali". [18]

Sono, queste politiche "sociali", eminentemente estensive-inclusive: estendono il proprio campo d'azione per rispondere a bisogni finora non riconosciuti degni di protezione e così facendo ne recuperano i portatori dentro il sistema sociale. Ma questa inclusione non è sempre e semplicemente omologazione, al contrario sposta in avanti l'equilibrio ed altera seppur impercettibilmente tutto il sistema.

Nel caso della evoluzione dalla biblioteca popolare alla biblioteca pubblica tutto questo è ben chiaro: la filantropia aveva concepito un servizio "speciale" per un pubblico "speciale", l'operaio inurbato dalla campagna, ma questo stesso servizio si è poi evoluto in quello "generale" che, tuttavia, portava la memoria di questo percorso. Quando Fabietti afferma perentoriamente che "il popolo non vuol essere messo a regime speciale" [19], non gli propone certo - in nome di una generica uguaglianza formale - la dieta della biblioteca di Leopoldo Della Santa, ma appunto nel suo sforzo massimo di innovazione, quella "biblioteca per tutti" che avrà la sezione ragazzi, lo scaffale aperto classificato, la narrativa contemporanea, le letture pubbliche, magari sarà anche biblioteca mobile.

In altri termini: l'azione pedagogica nei confronti delle classi subalterne (quelle cui bisognava insegnare la religione del lavoro e del risparmio, del rispetto delle autorità civili e religiose, oltre che a lavarsi un po' più spesso…) si volge in azione formativa dapprima e poi in produzione culturale.

Il rilancio permanente dei propri limiti, che Burdeau ascrive alla natura stessa della democrazia, qui si esprime come inclusione di sempre nuovi pubblici. Onde alla biblioteca pubblica si addice il ruolo di agenzia di frontiera, che tende ad includere chi si trova ai margini del sistema. Ma chi sono i gruppi di confine? Pare quasi superfluo riferirci oggi alle culture etnicamente altre dei migranti, ma anche gli adolescenti, gli anziani etc. etc. vi appartengono.

Il punto, però, non è quello di ammettere semplicemente questo dover essere, ma di trovare i mezzi e i modi perché esso possa essere perseguito. Detto in modo estremamente generale, si tratta di trovare un linguaggio comune, sapendo che il nostro – quello che usiamo tutti noi che siamo qui dentro e al quale improntiamo le nostre biblioteche – è capìto solo da noi e dagli utenti nostri "semblable et frères". E qui non si tratta di segnaletica e di siti web amichevoli.

Gli utenti potenziali non sanno di esserlo e non sarà certo andandoglielo a spiegare che li faremo diventare attuali. Se, poniamo, l'impatto dei nostri servizi è pari al 24% nella fascia 15-19 (che rappresenta il 3,5% della popolazione) potremo pensare di portarlo al 30 investendo adeguate risorse e facendo un po' di pubblicità. Ma se nella fascia degli ultrasessantenni (che sono il 30% della popolazione) è pari all'2,6%, allora per crescere ci vogliono politiche completamente diverse e non solo bibliotecarie, altro che marketing! [20]

Ma qui apriremmo una nuova riflessione, da farsi penso un'altra volta, sul come e il perché la biblioteca debba diventare una comunità ospitante. Così, implicitamente, riconoscendo l'inadeguatezza di ciò che finora abbiamo costruito.

Concludo, che è già tardi.

Kant risponde, come ognun sa, alla domanda "Che cosè l'illuminismo?" (1784) affermando:

L' illuminismo é l'uscita dell' uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità é l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi é questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude ! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza !

Non è certo originale, ma è un buon viatico, per i nostri utenti e per noi.

Io non so dire se oggi, in questa sala, abbia spiccato il suo volo lento e osservatore sull'ampio regno delle biblioteche la civetta di Minerva e se abbia emesso il suo vaticinio. So soltanto - da più modesto volatile - che i pochi essenziali principi che questa mattina sono stati evocati alla nostra riflessione rappresentano, almeno per me, un buon fondamento per il mio agire. Spero sia vero anche per voi. "Ma ciò – dice sempre Max Weber – è semplice quando ognuno abbia trovato e obbedisca al demone che tiene i fili della sua vita." [21]

Giovanni Galli, Istituzione Biblioteche - Comune di Parma, e-mail: g.galli@comune.parma.it


Note

[1] Chi si risolva a dichiarare in pubblico nozioni di senso comune, deve mettere in conto l'ironia o forse anche il sarcasmo di cui sarà fatto oggetto. Ringrazio veramente di cuore la chair della mia sessione, Michelina Borsari, per la sollecitudine con la quale ha cercato di riportare sulla retta via - credo, ahimè, senza esito - il mio ragionamento perdutamente onto-ideologico. Memorie di Gesner e Possevino, ma anche di pastori sardi lettori di Dostoevskij, e ricordi di apprendistato etc., donde anche le ragioni della dedica.

[2] Amartya K. Sen, Etica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 1988.

[3] Luigi Crocetti, Pubblica, in Il nuovo in biblioteca, Roma, Aib, 1994, p. 49-57; la citazione è a p. 57 (già pubblicato in, La biblioteca efficace, Milano, Editrice Bibliografica, 1992, p. 15-21).

[4] Vedilo nel sito web dell'Associazione Italiana Biblioteche, all'indirizzo <https://www.aib.it/aib/cen/deocod.htm> (consultato il 5 dicembre 2006).

[5] Encyclopedia of Library and Information Science, edited by Allen Kent et al., New York, Dekker, 1968-1083, sub voce "Code of ethics, professional" (v. 5, 1071).

[6] Michael Gorman, I nostri valori, la biblioteconomia del XXI secolo, Udine, Forum, 2002.

[7] Ivi, p. 198.

[8] Come potrebbe dire Jesse Shera.

[9] In questi ultimi anni è stata intensa l'opera di riflessione critica e di fatto di rivalutazione della figura di Virginia Carini Dainotti. A me sembra che possiamo e dobbiamo semplicemente considerarla un punto fermo della nostra tradizione, ancorché discutibile come ogni cosa meritevole di considerazione.

[10] Pericle, per quanto mirabile, è un'altra faccenda.

[11] Norberto Bobbio, Eguaglianza e libertà, Torino, Einaudi, 1995, p. 75.

[12] Giulia Barone - Armando Petrucci, Primo non leggere. Biblioteche pubblica lettura in Italia dal 1861 ai nostri giorni, Milano, Mazzotta, 1976.

[13] Francesco Barberi, Primo, non leggere in Biblioteche in Italia, Saggi e conversazioni di Francesco Barberi, Firenze, Giunta Regionale Toscana - La Nuova Italia, 1981, p. 38-42, già pubblicato come recensione al libro sopraccitato col titolo Le biblioteche italiane dall'Unità ad oggi in "Associazione Italiana Biblioteche. Bollettino d'informazioni", n.s., 16 (1976), p. 109-33.

[14] Norberto Bobbio, Eguaglianza e libertà, cit., p. 87.

[15] Paolo Traniello, Biblioteche e società, Bologna, Il Mulino, 2005.

[16] Georges Burdeau, Democrazia, sub voce, in Enciclopedia del novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975-1984, v. II, 1977, p. 49-69.

[17] Questo riferimento scherzoso a Lenin è solo un pretesto per opporsi alla damnatio memoriae, indotta dal senso di colpa degli uni e dal trionfalismo degli altri, del più rilevante processo rivoluzionario della contemporaneità, di che rivoluzione si sia trattato si può e si deve discutere, ma comunque la storia è fatta anche di questo (le lacrime e il sangue di cui ci parla il Foscolo) e ci insegna sempre qualcosa, specie se ci teniamo a capire come funziona. Oggi sembra politicamente scorretto parlare di queste cose, d'altronde gli eredi degli acquirenti di beni nazionali non si vergognano forse oggi di quella Rivoluzione che gli permette tuttora di tagliare delle cedole?

[18] Ivi, p. 54.

[19] Ettore Fabietti, La biblioteca popolare moderna, Milano, Vallardi, 1933, p.19.

[20] Questi dati si riferiscono alla situazione del Comune di Parma nell'anno 2004. Una considerazione di passaggio, gli ultra-sessantenni nella città di Parma non hanno sperimentato "da piccoli" il servizio di biblioteca pubblica, che è partito nel 1973. Anche questo vuol dir qualcosa.

[21] Max Weber, La scienza come professione, in La scienza come professione. La politica come professione, Torino, Edizioni di Comunità, 2002.




«Bibliotime», anno X, numero 1 (marzo 2007)

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