«Bibliotime», anno XVII, numero 1 (marzo 2014)

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Cristina Cavallaro

Loretta De Franceschi, Pubblicare, divulgare, leggere nell'Ottocento italiano



Loretta De Franceschi, Pubblicare, divulgare, leggere nell'Ottocento italiano, saggio introduttivo di Piero Innocenti, Manziana, Vecchiarelli, 2013 (Bibliografia, bibliologia e biblioteconomia. Studi. 18). ISBN 978-88-8247-341-9

Protagonista di questo libro, come suggerisce il titolo, è innanzi tutto il secolo dell'unità nazionale, crinale al di sotto del quale si articola un processo culturale e politico animato da fermenti, talora contrastanti, che spesso si traducono in concrete occasioni di modernizzazione per una società che, oltre ad essere ancora culturalmente frammentata, mostrava altresì vistosi segni di arretratezza.

L'Ottocento italiano, grazie alle indagini dell'autrice, è filtrato alla luce di una scelta di casi significativi ascrivibili all'ampio settore della produzione e circolazione della conoscenza, entro il quale si muovono diverse figure più o meno condizionate dal controllo esercitato dalle gerarchie ecclesiastiche: librai, editori, tipografi, scrittori, studiosi di vari ambiti disciplinari, accomunati dallo sforzo di farsi parte attiva nel processo di rinnovamento che accompagnava la progressiva laicizzazione dello Stato liberale.

Storia dell'editoria, storia della lettura e storia delle biblioteche si intrecciano dunque con le biografie di uomini che si impegnano concretamente nello sviluppo di iniziative tese a un allargamento del pubblico dei lettori, senza però tralasciare la qualità dei prodotti editoriali o l'efficacia degli strumenti connessi ai servizi di lettura offerti: a partire da tali premesse, non stupisce di veder affiorare dietro l'attività di molti dei soggetti impegnati in campo culturale anche una aperta adesione ad ideali riconducibili alla causa patriottica.

I sei saggi riuniti nel volume – preceduti da uno scritto di Piero Innocenti volto ad individuare, attraverso una ricca serie di immagini, i prodromi dei tratti caratterizzanti della produzione editoriale italiana ottocentesca – sono, eccetto l'ultimo, frutto della rielaborazione di altrettanti lavori pubblicati in precedenza. La successione degli argomenti permette di ripercorrere le tappe di un cammino che comincia nella Bologna della prima metà del secolo; la città infatti ospita due gabinetti di lettura (analizzati nei primi due capitoli) che sebbene emanati da soggetti con fisionomia e scopi alquanto differenti, si configureranno entrambi come centri di promozione della lettura accessibili a un pubblico ampio e diversificato.

La struttura, inaugurata dal libraio Giuseppe Lafranchini nel 1824, e che di fatto rimane attiva per un lustro, costituisce una diramazione della sua attività commerciale che, pur garantendogli un guadagno per il servizio di prestito allestito, va incontro a quella quota di lettori che per varie ragioni non erano in condizione di acquistare i libri.

Per orientarsi nella ricerca fra i titoli messi a disposizione dei soci del gabinetto, Lafranchini produce nello stesso 1824 un Catalogo, seguito da tre supplementi, che alle descrizioni bibliografiche ordinate alfabeticamente per autori e titoli abbina una sigla numerica che indica la posizione fisica dei libri. Complessivamente, il patrimonio di libri e periodici censito dai quattro repertori nell'arco di un triennio ammonta a circa 2.900 titoli, dei quali risulta però difficile enucleare la consistenza delle unità fisiche data la scarsa affidabilità del sistema di collocazione adottato.

L'analisi delle opere segnalate dai bollettini, nonostante il libraio si dimostri rispettoso del clima di censura in cui si muove (la consegna di libri proibiti poteva avvenire solo dietro presentazione di un'apposita licenza), rivela aperture significative rispetto ai più tradizionali filoni di cui si compone la sua offerta: infatti, accanto al nutrito settore storico, se ne distinguono altri due – quello della letteratura amena e quello dei testi di natura istruttiva, didattica, pedagogica (ascrivibili per lo più alla produzione di area francese) – espressamente indirizzati al pubblico femminile, cui Lafranchini si rivolge pubblicamente già dal primo avviso sulla locale gazzetta che annuncia l'apertura del suo gabinetto.

Meno rappresentata nella struttura di Lafranchini risulta la saggistica di tipo scientifico, che invece è il nucleo principale attorno al quale si organizza l'offerta del gabinetto fondato nel 1827 da una classe di professionisti ben definita quale era la Società medico-chirurgica: non a caso, il patrimonio riunito da questa istituzione sarà prevalentemente costituito da periodici acquisiti anche attraverso la formula del deposito coatto prevista per i soci.

A dispetto degli apparenti limiti legati a una matrice privata, nella sostanza il gabinetto della Società medico-chirurgica svolgerà funzioni pubbliche, facendosi interprete di un'esigenza di lettura di livello più generale, sancita sia dalla possibilità di associarsi per chiunque ne facesse richiesta, sia dall'allestimento di una cospicua emeroteca multidisciplinare in cui, accanto al settore privilegiato delle scienze mediche, troveranno spazio anche le riviste enciclopedico-popolari.

Fra le disposizioni pratiche contenute nei regolamenti per il funzionamento del gabinetto, che si caratterizzerà come servizio di lettura in loco escludendo la modalità del prestito a domicilio, emergono quelle a sostegno delle attività gestionali che si avvalgono di un apparato di diversi registri per il controllo del patrimonio e le informazioni sui soci. Riguardo a questi ultimi, le liste dei loro nomi evidenziano la presenza di personalità di varia provenienza, a riprova della chiara volontà da parte dell'ambiente scientifico rappresentato dalla Società medico-chirurgica, strettamente collegato all'ateneo felsineo, di favorire uno scambio intellettuale con il ceto colto cittadino, con il quale del resto condivideva l'aspirazione a una libertà culturale e politica, spesso d'intonazione patriottica.

Con il capitolo successivo ci si sposta nel terzo quarto del secolo, frangente cruciale per il consolidamento della moderna disciplina biblioteconomica, che vede l'illustre matematico modenese Pietro Riccardi portare a piena maturazione l'elaborazione di uno schema di ordinamento sistematico delle pubblicazioni che, nella sua struttura in dieci classi principali, sembra per qualche aspetto anticipare di un decennio il sistema di Melvil Dewey, destinato a diventare il più diffuso sistema di classificazione.

Riccardi, già voce autorevole negli studi scientifici del proprio settore, sviluppa parallelamente una competenza sulle discipline bibliografiche che lo porta a misurarsi, oltre che con la compilazione di un repertorio specializzato, con un quadro di problematiche più strettamente afferenti all'aspetto organizzativo, tecnico e gestionale della biblioteca, affrontate nella Lettera a sua eccellenza il principe Baldassarre Boncompagni sulla sua biblioteca del 1866.

L'agile volumetto dedicato al nobiluomo romano, cui è legato dall'attenzione agli studi eruditi in area fisico-matematica che ha favorito per entrambi la costituzione di una ricca biblioteca specializzata, richiama nelle sue caratteristiche l'Advis di Gabriel Naudé del 1627, ma se ne discosta perché l'argomentazione di Riccardi trae spunto dal recente riordino della sua raccolta privata; esprimendosi però in merito al corredo di strumenti necessari alla gestione pratica di una biblioteca, il matematico non solo dimostra una conoscenza non superficiale delle questioni più attuali inerenti le biblioteche pubbliche, ma individua nella accessibilità al patrimonio la funzione preminente di qualunque tipo di biblioteca. L'apporto di Riccardi nell'ambito delle scienze bibliografiche, dunque, si rivela tutt'altro che marginale in rapporto alle acquisizioni in materia che il contesto europeo e quello italiano dell'epoca avevano permesso di recepire.

Il quarto capitolo focalizza l'attenzione sull'impegno civile dell'editore Gaspero Barbèra, il cui riverbero si può chiaramente osservare nelle scelte che caratterizzano la sua produzione editoriale, specie quelle relative alla serie più spiccatamente orientata a un intento didattico e pedagogico, la Raccolta di opere educative. Tale collezione, nata nel 1869, viene analizzata particolarmente nei suoi primi dodici anni di vita, fino alla morte di Gaspero nel 1880, momento che ne decreta la parabola discendente fino all'esaurimento con l'affacciarsi del nuovo secolo.

L'intento educativo della collana si manifesta innanzi tutto nelle preferenze accordate dall'editore agli autori della cosiddetta letteratura selfhelpista di matrice anglosassone (del principale esponente, lo scozzese Samuel Smiles, Barbèra pubblicherà diverse opere) che nella versione italiana, appesantita dal retaggio di un cattolicesimo ancora fortemente radicato nella società agricola, produce il primo fortunato titolo della serie, Volere è potere di Lessona.

Accanto al filone teso a esaltare le funzioni moralizzatrici del lavoro si attesta quello delle biografie esemplari, fra le quali, nella personale visione di Gaspero, occupa un posto preminente quella di Benjamin Franklin, l'intellettuale autodidatta per eccellenza, alla cui autobiografia è dedicato il secondo volume della collana.

Il contributo dell'editore, tuttavia, non sarà circoscritto alla sola scelta dei titoli da includere nella collezione, ma si attuerà anche nella costante collaborazione con i traduttori e con i curatori delle opere che, oltre a misurarsi con la difficoltà di adattare al contesto italiano la casistica di esempi validi nei paesi di origine degli autori, dovevano anche uniformarsi a una prosa non troppo elaborata adatta al pubblico ampio cui si rivolgevano: e l'intuizione di Gaspero di riconoscere alla scuola anglosassone la superiorità nel campo della divulgazione popolare si rivelerà vincente, facendo progredire un tipo di produzione che nel nostro paese non era ancora sviluppata.

La vicenda indagata nel capitolo quinto conduce all'ultimo decennio del secolo, nel tentativo di ridimensionare l'apporto che alla cultura italiana proviene da un personaggio poco conosciuto, il libraio e piccolo editore milanese Max Kantorowicz. La sua casa editrice, opportunamente situata nell'area del Teatro alla Scala, si distingue innanzi tutto per essere stata la prima a diffondere in Italia l'opera dello scrittore e drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, dedicandogli un'apposita collana che tra il 1892 e il 1895 vedrà uscire 14 titoli, presentati in veste economica e con un piccolo formato di facile utilizzo da parte del pubblico che sempre più riempiva i teatri.

L'apertura alla cultura internazionale coeva si manifesta anche nel resto della produzione di Kantorowicz, unitamente a una grande curiosità intellettuale che lo porta a interessarsi di temi innovativi anche in ambito scientifico. In particolare, il suo ruolo nella diffusione di opere di autori impegnati nelle rivendicazioni sociali di maggiore attualità, lo avvicinerà all'ambiente dei socialisti milanesi, come testimonia il sodalizio avviato con la redazione della "Critica sociale", la rivista fondata da Turati.

Di Kantorowicz, peraltro attivo anche come libraio specializzato nel ramo antiquario, si perdono le tracce nel 1897, dopo il trasferimento dell'impresa a Venezia, ma anche nella sua circoscritta esperienza si può cogliere un seme che contribuisce alla sprovincializzazione e alla modernizzazione della cultura italiana dell'epoca.

Il sesto e conclusivo capitolo ripercorre le tappe che la stampa periodica italiana, ormai libera dai limiti del periodo preunitario, compie nel campo della divulgazione scientifica. Accanto alle collezioni di manuali a carattere popolare, come i noti Manuali Hoepli, si sviluppano altre iniziative che nel complesso rendono conto della diversità di approcci con cui veniva interpretato l'anelito al rinnovamento economico e sociale del paese.

Nel campo delle scienze umane sono la "Rivista di Filosofia Scientifica" e "Il Nuovo Risorgimento", nate a un decennio di distanza l'una dall'altra, a rappresentare i poli attorno ai quali si orienta il dibattito animato dalla comunità scientifica italiana: la prima si fa portavoce del pensiero positivista incarnato dagli studiosi milanesi che davano voce al progetto culturale sostenuto dall'editore Pompeo Dumolard, l'altra è invece espressione dell'ambiente cattolico-liberale di area lombarda che, con qualche accento polemico, si arrocca su posizioni conservatrici e antitetiche rispetto a quelle difese dal positivismo e dal socialismo.

Su un versante vicino, la divulgazione di qualità che aveva distinto il "Politecnico", fondato da Cattaneo nel 1839, fa da modello a riviste dal taglio tecnico-applicativo e rivolte a un pubblico vasto: "Il Progresso", nato a Torino nel 1873, si segnalava, oltre che per la sua funzione informativa in ambito industriale e commerciale, anche per il ruolo di supporto e assistenza garantito dai servizi quali ad esempio l'Ufficio internazionale per brevetti, aperto presso la redazione del giornale.

In territorio emiliano, invece, Zanichelli pubblica "La Scienza applicata", che pur nella sua breve durata che si esaurisce tutta nell'arco del 1876, costituisce il precedente fondamentale di un'altra impresa del medesimo editore, la più celebre "Rivista di scienza" (diventata "Scientia" nel 1910 e pubblicata fino al 1988), che diventerà il più autorevole periodico italiano a vocazione internazionale nell'area della matematica e della fisica.

Per concludere, parafrasando il titolo della maggiore opera divulgativa di Giovanni Spadolini, sembra di poter affermare che il rigoroso lavoro dell'autrice abbia permesso di rendere notevolmente più vicini Gli uomini che fecero gli Italiani.

Cristina Cavallaro, Dipartimento di Studi storici - Università di Torino, e-mail: cristina.cavallaro@unito.it




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