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"15. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
dal costo al valore

VALUTARE IL LAVORO

Giovanni Solimine, Professore di Biblioteconomia presso l'Università degli studi della Tuscia


Potrei iniziare questo mio intervento parafrasando il titolo di un'indagine di alcuni anni fa e chiedendomi quanto valgono i bibliotecari [1] - o, meglio, quanto vale il lavoro dei bibliotecari -. Credo che sia questa la domanda alla quale dovremmo cercare di dare una risposta.

Approfondendo questa riflessione e riprendendo il titolo di questo nostro seminario, che ci propone di spostare la nostra ottica dal costo al valore, dobbiamo innanzitutto scontare una prima difficoltà: non è facile, infatti, dimensionare esattamente il valore ed il costo del lavoro in biblioteca. Non è sempre facile, o almeno lo è sempre meno. Sicuramente possiamo concordare su un dato: il lavoro umano è la principale voce di costo nel bilancio di una biblioteca - dovremmo dire, la principale voce del bilancio virtuale di una biblioteca, perché sappiamo bene che, almeno in passato, fino a quando il lavoro era essenzialmente rappresentato dalle prestazioni di dipendenti di ruolo, tali costi non passavano attraverso il bilancio della biblioteca ed era spesso assai difficile quantificarli, e risultava complicato avere una visione complessiva dei costi in una biblioteca -.

Non è facile dimensionare questi costi neppure ora, anche se una parte di essi figurano nel bilancio della biblioteca per effetto delle esternalizzazioni di cui si parlava negli interventi immediatamente precedenti al mio. Le biblioteche di solito gestiscono direttamente l'acquisto di servizi professionali da cooperative e agenzie di servizio - che, come veniva detto prima, arriva a coprire il 30% della forza lavoro degli enti pubblici -, ma siamo in un regime misto, poiché una quota del lavoro viene svolta comunque dai dipendenti di ruolo. Per inciso, dico anche che non sempre il costo di una prestazione lavorativa corrisponde esattamente al suo valore reale, al suo rendimento in termini di soddisfazione dell'utenza, alla sua capacità di determinare efficacia. Questa non è una novità, né questo fenomeno riguarda unicamente le collaborazioni esterne: infatti, anche per il personale di ruolo spesso non vi è un'esatta corrispondenza tra inquadramenti e retribuzioni da una parte e il reale apporto che i lavoratori offrono. Ma questa è un'altra storia...

Non bisogna sorprendersi se quella relativa alle risorse umane è la principale voce di costo: è naturale che sia così, perché stiamo parlando di servizi ed è ovvio che per una struttura che eroga servizi e che sempre più cerca di erogare servizi personalizzati agli utenti, servizi che in gran parte nascono dall'interazione tra la biblioteca e l'utente, il costo del personale è non soltanto uno dei costi quantitativamente più rilevanti, ma è anche una delle risorse più importanti, uno dei principali investimenti finalizzati alla qualità del servizio che si intende erogare agli utenti: è, appunto, un costo che diviene un valore.
Questa considerazione trae origine dalle due leggi di Ranganathan che ci ricordano che tra i fondamentali compiti della biblioteca c'è quello di mettere in contatto ciascun lettore con il suo libro, ciascun libro con il suo lettore [2]: e come possiamo fare questo se non attraverso il contatto tra biblioteca e utente, e chi gestisce questa esperienza di contatto se non il personale della biblioteca?
Quindi, il lavoro umano di intermediazione è sicuramente il principale valore aggiunto nell'attività bibliotecaria, e l'enfatizzazione del lavoro è connaturato con l'essenza stessa del servizio di biblioteca: per questo motivo sono perfettamente d'accordo con quanti hanno detto fino ad ora, in forme e chiavi diverse e con sensibilità diverse, che la nostra preoccupazione non può essere quella di risparmiare - nel senso che non ci dobbiamo, non ci possiamo lamentare se i costi sono alti - ma quella di spendere bene, di sfruttare fino in fondo il valore del lavoro umano, perché da esso dipende gran parte del successo di una biblioteca.

È stato già detto, e anche su questo punto sono d'accordo, che la cooperazione non serve a risparmiare: da anni vado dicendo che è sbagliata, o quanto meno riduttiva, una visione della cooperazione dettata unicamente da considerazioni di ordine difensivo, una scelta che nasca solo dal tentativo di contenere i costi. Chiarisco che questa posizione è sicuramente valida, se cerca di mantenere o accrescere il livello delle prestazioni in un'epoca di risorse decrescenti e se ha al suo interno anche l'obiettivo di razionalizzare i costi, ma nella prospettiva di attivare processi moltiplicativi, miranti ad esaltare al massimo l'efficacia delle risorse, piuttosto che ad un mero risparmio sul lavoro o su altre voci di costo.

Anche altri aspetti andrebbero considerati. Un'indagine che mi sarebbe piaciuto condurre in preparazione di questo seminario, ma non c'è stato il tempo per farlo, potrebbe riguardare un'attenta valutazione dei costi e del rendimento della formazione, per misurarne il valore, per verificare quali sono gli effetti benefici che gli interventi formativi possono dare, la ricaduta che essi possono avere in termini di servizio. Potremmo porci l'obiettivo di svolgere questa ricerca in preparazione di uno dei seminari previsti per i prossimi anni. Se riflettiamo per un attimo sull'andamento di questo seminario, pensando per esempio alla carrellata di interventi da parte delle province cui abbiamo assistito finora, abbiamo un indicatore chiaro di quanto sia cresciuta anno per anno la cultura professionale, e quindi di quanto cresca il livello di una prassi consolidata di attività biblioteconomiche, che è sicuramente il risultato del lavoro, dell'impegno, dell'entusiasmo degli operatori, ma che è anche il portato degli investimenti formativi. L'evidenza di questo fenomeno, la cui dimensione è sotto gli occhi di tutti, non rende più agevole però la quantificazione della qualità e del valore del lavoro che si svolge in biblioteca.

Per spiegare meglio i motivi di fondo che danno valore all'agire dei bibliotecari proverò ora a proporvi qualche spunto di riflessione su questo tema, cercando di considerare anche il peso che assumono le condizioni operative delle attività bibliotecaria, e cioè il rapporto che si determina tra gli assetti organizzativi, le forme dei processi lavorativi e il lavoro stesso, per comprendere il rapporto esistente tra l'apporto individuale del singolo lavoratore e lo stile di servizio complessivo della biblioteca. Penso alla biblioteca come ad una struttura organizzata per processi, per linee di prodotto, finalizzata a produrre servizi in cui le diverse parti del sistema e le diverse funzioni interagiscono, con l'obiettivo dichiarato di un costante miglioramento del prodotto-servizio che viene reso agli utenti.[3] Da questo punto di vista, con una espressione abbastanza efficace, recentemente si è cominciato a parlare della biblioteca intesa come organizzazione ipertestuale [4], cioè come un'organizzazione in cui il carattere sistemico è chiaramente visibile proprio nella rete di relazioni che si stabiliscono al suo interno. Questa concezione è particolarmente coerente con la dimensione di rete in cui viviamo, dove ovviamente per rete non si intende solo il tessuto dei cavi di collegamento, ma un modo di essere, di lavorare, di vivere che ormai caratterizza la nostra società. La prima considerazione da fare sui modelli organizzativi che puntano sui processi riguarda il rapporto che c'è tra la gestione dei processi interni e la proiezione di tutto questo in termini di servizi. Mi pare destinata ad essere abbandonata - o, meglio, così dovrebbe essere se si potesse scegliere liberamente la configurazione da dare ad una struttura - un'organizzazione per funzioni, in cui ad esempio operino separatamente l'ufficio acquisti, l'ufficio catalogazione, l'ufficio prestiti etc., ognuno intento a gestire il proprio segmento di lavoro, con il rischio di perdere di vista il rapporto tra le singole attività e l'effetto finale, e cioè il servizio erogato agli utenti.

Si va, e secondo me si dovrebbe andare ancora di più di quanto in effetti non si vada, verso un superamento di un modello di questo tipo, passando ad un modello organizzato invece per processi, in cui all'interno di ciascuna sezione - per esempio, la sezione ragazzi, la sala di consultazione, la sezione manoscritti e così via - si possa avere una visione complessiva del ciclo gestionale, dalle scelte di carattere generale, all'acquisizione dei documenti, alla loro catalogazione, all'erogazione dei servizi: questo modello consente una migliore circolazione del know how, con la possibilità ad esempio di trasferire nell'attività informativa, nel servizio di reference la conoscenza che gli operatori hanno acquisito nel momento in cui hanno scelto quali libri acquistare, assimilando una visione delle collezioni e rafforzandola quando si sono occupati di catalogarli e indicizzarli. Viceversa, negli acquisti e nella catalogazione essi hanno sfruttato l'esperienza derivante dall'attività di servizio e dalla conoscenza dei gusti e delle esigenze del pubblico. Questo è un modello organizzativo che può essere più utile ai fini del servizio, ma che in termini di ore/uomo è sicuramente più costoso, per esempio, rispetto ad attività di catalogazione centralizzata. Un'altra obiezione che si potrebbe muovere riguarda la necessità per la biblioteca di dotarsi di figure altamente specializzate in determinate pratiche biblioteconomiche, come ad esempio la soggettazione e la classificazione, e la conseguente convenienza che ci potrebbe essere nell'utilizzare questi specialisti sempre e soltanto per quel tipo di lavoro.
Probabilmente, l'applicabilità o meno di questo modello è legata alle dimensioni della biblioteca: i problemi si pongono in modo diverso in strutture medio-grandi o in strutture di dimensioni più ridotte. Un modello non va scelto acriticamente ed una soluzione non può essere astrattamente ritenuta buona o cattiva: si tratta di capire qual è il giusto punto di equilibrio tra le diverse esigenze e trovare la compatibilità rispetto ai vincoli di bilancio con i quali bisogna misurarsi.

Non trascurerei, però, un altro aspetto. Questo che qui rapidamente descrivevo può essere un modello efficace dal punto di vista dell'erogazione del servizio, perché è un modello motivante, un modello coinvolgente, un modello in cui i singoli operatori hanno la possibilità di identificare se stessi e la propria crescita professionale con la qualità dei servizi della biblioteca, trasferendo le proprie motivazioni personali sulla proiezione di servizio della biblioteca. Ma a questo punto subentra un'altra questione: il modello che si è cercato di delineare presuppone che le persone abbiano una condizione stabile all'interno della struttura, e ciò è in contraddizione con il fatto che talvolta alcune di queste attività sono affidate all'esterno e quindi potrebbero far capo a persone forse non pienamente in sintonia con la mission della biblioteca. Se si spezzetta l'organizzazione del lavoro, affidando ad esempio la catalogazione a un collaboratore esterno e i servizi di sportello a una cooperativa, questo modello non si regge in piedi. A meno che - e questo può essere uno degli apporti che un'azienda esterna può dare - non si ricorra a queste forme di esternalizzazione con il preciso scopo di associare alla gestione della biblioteca una determinata azienda proprio perché è capace di fornire un know how di quel tipo, per cui può essere più facile raggiungere certi obiettivi attraverso il ricorso all'esterno piuttosto che utilizzando personale di ruolo magari meno motivato o meno motivabile rispetto a questi obiettivi.

Il rischio al quale si può andare incontro è che, come a volte accade quando si impiantano progetti speciali e interventi innovativi, il personale di ruolo venga relegato ad attività di routine, mentre i lavori più qualificanti vengano affidati all'esterno, creando così anche gelosie professionali e resistenze da parte del personale di ruolo.

A questo punto bisognerebbe affrontare il discorso della promozione e sviluppo delle risorse umane, puntando su un'organizzazione che sia capace di far circolare la conoscenza all'interno della biblioteca e di creare un sistema che valorizzi il capitale intellettuale, quel capitale che è frutto degli interventi formativi cui accennavo in precedenza, che si accumula e si accresce attraverso l'esperienza ma anche attraverso apporti esterni, sensibilità diverse e così via. Ecco a cosa mi riferivo, quando in precedenza usavo l'espressione "organizzazione ipertestuale". Ma non mi soffermo oltre su questo tema. Ricordo soltanto alcuni degli strumenti che oggi possono favorire l'implementazione di questo metodo di lavoro e nuove forme di collegialità nella costruzione e nella condivisione di un patrimonio di conoscenze: penso alle comunità professionali che possono costituirsi in rete, grazie alle quali gruppi di persone condividono gli obiettivi e gli sforzi, comunicano tra loro, sperimentano forme nuove di collaborazione e perfino di interazione organizzativa. Se pensiamo ad una comunità specializzata, non possiamo ignorare la funzione che tra i bibliotecari italiani ha avuto AIB-CUR, pur con tutti i difetti che spesso le vengono rimproverati. Questa lista di discussione ha il grande pregio di dare voce quotidianamente, nelle piccole come nelle grandi cose, ad una comunità professionale che non si esprime solo attraverso le riviste professionali, le associazioni, i convegni e i seminari, che hanno comunque un impatto ridotto e quantitativamente meno rilevante: in AIB-CUR migliaia di persone tutti i giorni si scambiano messaggi, informazioni, opinioni sul loro lavoro e su ciò che lo circonda, ed è uno strumento col quale il sapere professionale circola e si distribuisce, perché a ciascuno capita di volta in volta di proporsi come fruitore delle conoscenze e delle competenze degli altri, oppure come colui che fornisce uno stimolo o un contributo di esperienze ed informazioni.

Per questo motivo io penso ad una forma di organizzazione del lavoro molto piatta, con linee gerarchiche brevi, in cui si incrocino alcune attività di supporto (ad esempio, attività di ricerca e sviluppo, supporto di tipo amministrativo, di tipo informatico, e così via) e linee verticali di prodotto, che si concretizzano nelle sezioni di una biblioteca. In questo modo io credo che si costruiscano e si alimentino curricula e profili dotati di maggiore flessibilità e fondati su un principio che ormai mi sembra universalmente accettato: nella vita come sul lavoro non si finisce mai di studiare e di imparare. Sono convinto che questo sia l'equipaggiamento culturale e professionale di cui il bibliotecario ha bisogno. Cito per la seconda volta Giovanni Di Domenico e ricordo un'altra espressione molto interessante che egli ha usato quando, parlando del modo in cui la biblioteconomia e in particolar modo la biblioteconomia italiana sta cercando di attrezzarsi per raccogliere e combattere la sfida del cambiamento in corso, parla di «biblioteconomia come processo cognitivo», di un'idea della biblioteconomia che non è un corpo separato di competenze tecniche ma una disciplina, un tipo di approccio al lavoro di biblioteca capace di arricchirsi anche attraverso contributi di altro tipo, anche attraverso contributi di altri ambiti disciplinari.[5] Credo che la forte esposizione che le biblioteche hanno, attraverso il servizio, ai mutamenti sociali le debba necessariamente fare essere ospitali nei confronti dei contributi che possono venire dall'esterno.

Per concludere, credo che sia di fondamentale importanza la realizzazione di modelli organizzativi e condizioni operative in cui sia possibile garantire il massimo rendimento all'apporto individuale dei singoli lavoratori: il patrimonio intellettuale complessivo di una biblioteca si forma anche sul valore che ciascun lavoratore viene messo in condizione di aggiungere. Questo credo che sia importante, perché è forse una delle poche vie per ridare giorno per giorno motivazione e slancio a chi pratica questa professione: un lavoro che - è inutile nasconderselo - difficilmente riesce a dare altre gratificazioni, come quelle di natura economica o legate alla considerazione sociale.

C'è bisogno di gratificazioni di questo tipo, ma non per prendere in giro le persone e continuare a pagarle poco: perché credo che chi sceglie di fare questo mestiere, in buona misura forse lo sceglie anche per quell'altro tipo di gratificazioni, che purtroppo vengono spesso frustrate ugualmente.

[1] Si sarà capito che mi sto riferendo a Quanto valgono le biblioteche pubbliche? Analisi della struttura e dei servizi delle biblioteche pubbliche italiane; Roma, AIB, 1994.
[2] "Every reader his book, Every book its reader", si legge in Shiyali Ramamrita Ranganathan, The five laws of library science, Madras, The Madras Library Association; London, Edward Goldston Ltd., 1931.
[3] Ho descritto più diffusamente questo modello in La biblioteca. Scenari, culture, pratiche di servizio, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 142-149.
[4] Cfr. Giovanni Di Domenico, La biblioteca apprende: qualità organizzativa e qualità di servizio nella società cognitiva, in Id., Percorsi della qualità in biblioteca, Manziana, Vecchiarelli, 2002, p. 59.
[5] Cfr. Giovanni Di Domenico, Problemi e prospettive della biblioteconomia in Italia, in Id., Percorsi della qualità cit., p. 130. Mi si consenta di rinviare anche a Giovanni Solimine, La biblioteconomia e il management, in Gestire il cambiamento. Nuove metodologie per il management della biblioteca, Milano, Editrice Bibliografica, 2003, in particolare p. 28-35.


Copyright AIB 2005-08-09, ultimo aggiornamento 2005-10-02 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
URL: https://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay15/solimine04.htm


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