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"15. Seminario Angela Vinay"
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VALUTARE IL LAVORO

Giuseppe Suppiej, Professore di Diritto del lavoro presso l'Università degli studi di Padova


Il mio compito è quello di soffermarmi sulla disciplina giuridica del lavoro nelle biblioteche. Sarà un intervento non vorrei dire stonato rispetto ai precedenti, ma certamente collocato in una prospettiva diversa. Coloro che ho sentito parlare prima di me si sono occupati delle cose come vanno, della situazione com'è, e, sotto certi aspetti, di come dovrebbe essere sul piano dell'opportunità. Io mi occupo invece di com'è la situazione dal punto di vista delle regole giuridiche e di che cosa si dovrebbe fare se ci fossero delle violazioni, perché queste regole siano osservate. Quindi la prospettiva è quella del confronto fra l'essere e il dovere essere giuridico.

Spero di riuscire a fare un discorso chiaro, nonostante abbia l'impressione di trovarmi di fronte ad un pubblico completamente diverso da quello al quale sono abituato, che è quello dei miei allievi giuslavoristi, i quali, quando sentono una parola che ha un significato tecnico giuridico, immediatamente richiamano alla mente una problematica, su cui sono informati, perché sono studenti laureandi, o comunque già maturi negli studi giuridici. Il discorso allora può essere un discorso molto più tecnico di quello che mi propongo di fare in questa sede.

Il rapporto di lavoro dei dipendenti delle biblioteche è un rapporto al quale, come ad ogni rapporto di lavoro, si applicano le consuete fonti generali: costituzione, legge costituzionale, legge ordinaria, atti aventi forza di legge (cioè decreti legislativi e decreti legge), contratti collettivi di lavoro e poi clausole dei contratti individuali. Allora, mi soffermerò subito sulla tematica attinente la contrattazione collettiva, che è quella che richiede un discorso un po' più lungo e che darà luogo ad una serie di osservazioni, che oggi devo fare, ma che solo qualche settimana fa, prima di prendere in mano le carte che mi dovevano servire per svolgere questa relazione, non mi aspettavo che avrei dovuto considerare sorprendenti.

Intanto devo premettere delle nozioni di carattere generale sulla natura e l'efficacia dei contratti collettivi di cui noi parliamo, che, come voi sapete, sono veri contratti, espressione di autonomia privata. Non sono norme giuridiche, in senso proprio, gli attuali contratti collettivi. In linea di principio la loro applicabilità è condizionata all'adesione delle parti singole, delle parti interessate, non necessariamente al contratto, ma basta al soggetto che lo ha stipulato: quindi per i lavoratori all'iscrizione ad un sindacato, e ugualmente per i datori di lavoro adesione, iscrizione o comunque appartenenza alla struttura, pubblica o privata che sia, in relazione ai diversi tipi di rapporto, che contratta collettivamente.

Questo presupposto si attenua nell'esperienza, in virtù di un orientamento ormai pluridecennale della Corte di Cassazione, che facilita in tutti i modi l'applicazione dei contratti collettivi, sganciandola, nella sostanza, dall'adesione delle due parti al sindacato, o altro soggetto stipulante. La Cassazione, tra i meccanismi che adotta per rendere sostanzialmente vincolante il contratto collettivo anche dove dal punto di vista strettamente formale forse non lo sarebbe, afferma il principio per cui, quando in una struttura, in una azienda diciamo in senso amplissimo, un certo contratto collettivo è sistematicamente applicato da tempo alla generalità dei dipendenti, quel contratto collettivo deve considerarsi vincolante per il datore di lavoro, in virtù di una adesione tacita desumibile dal comportamento concludente. Un' azienda lo ha sistematicamente applicato per un certo tempo: ciò vuol dire che essa si considera vincolata da quel contratto. Se anche non c'è stato un mandato a monte, però il comportamento concludente tenuto rende vincolanti i contratti. Quindi, l'idea dell'efficacia limitata agli iscritti ai sindacati, che dovrebbe dedursi dal carattere strettamente contrattuale della contrattazione collettiva, espressione di autonomia privata, di fatto nel diritto vivente si supera. Diritto vivente è quello che non si trova scritto in nessuna norma, ma si attua nell'esperienza, soprattutto in virtù delle posizioni interpretative che sistematicamente adottano i giudici.

Abbiamo dunque una contrattazione collettiva che viene applicata anche per regolare i rapporti di lavoro di coloro che lavorano nelle biblioteche.

Va tenuta presente quella che è la regola della contrattazione collettiva, quanto all'identificazione del campo di applicazione. Vige, ancora per giurisprudenza costante e consolidata, il principio scritto nel Codice civile per il contratto collettivo corporativo, secondo il quale l'area di applicazione del contratto si determina in base all'attività "effettivamente esercitata dall'imprenditore"(art. 2070 c.c.). Si parla allora di "categoria merceologica". Si guarda al tipo di attività, cioè al tipo di merce. Coloro che contribuiscono alla produzione di quel tipo di merce rientrano nella categoria.

L'attività esercitata dall'imprenditore, non il tipo di attività, il tipo di mansioni del dipendente, del lavoratore. La categoria merceologica è questa. Ma questa era la sola nozione di categoria operante nell'ordinamento nel periodo corporativo. Non è più l'unica oggi in un regime di piena libertà sindacale, garantita dall'art 39 della Costituzione anche con riguardo alla contrattazione collettiva. Ci possono essere anche contratti collettivi non per categoria merceologica. La maggioranza è ancora per categoria merceologica, ma ce ne possono essere anche che tengono conto di altri criteri di identificazione della categoria, per esempio del tipo di attività svolta dal singolo. Si parla allora di contratto collettivo "di mestiere". Cerco di chiarire meglio con degli esempi: categoria merceologica sono i metalmeccanici, i tessili, gli edili, etc. Un elettricista, che lavora in una azienda metalmeccanica, è anche lui un metalmeccanico in base alla categoria merceologica. Ma se, si fa un contratto collettivo per gli elettricisti dovunque lavorino, allora quello è un contratto di mestiere, perché quel contratto si applicherà a chi fa l'elettricista, sia che lo faccia in un'azienda metalmeccanica, sia che lo faccia nel quadro di un'impresa edile, e così via.

Perdonatemi queste premesse un po' pedanti, ma mi sembrano necessarie a capire il senso di quello che sto per dire.

Cosa accade per le biblioteche? Accade che le biblioteche sono strutture di enti che possono essere diversissimi. Ci sono le biblioteche nazionali, ci sono le biblioteche delle università, o solo dei dipartimenti universitari, ci sono biblioteche private, che possono essere alle dipendenze di un privato che si è messo in mente di metter su una biblioteca, ma anche di una fondazione o di altro soggetto giuridico, che svolge in via esclusiva, o non in via esclusiva, l'attività di gestione di una biblioteca. In questa situazione non si è mai stipulato un contratto collettivo per i bibliotecari, non esiste un contratto collettivo per i dipendenti dalle bibliotrche, esistono soltanto contratti collettivi che regolano le attività dei vari tipi di enti o soggetti che gestiscono le biblioteche. E ogni tipo di ente ha il suo contratto collettivo, il quale ordinariamente, essendo la gestione di una biblioteca un'attività accessoria rispetto all'attività principale di quel soggetto o di quell'ente, neppure considerano le mansioni tipiche di coloro che lavorano nelle biblioteche; oppure alcune ne considerano, altre no. Quindi c'è una contrattazione collettiva estremamente variegata, perché contrattazione relativa a soggetti del tutto diversi, che quindi applicano contratti del tutto diversi. E' chiaro che il tipo di attività svolto da una biblioteca nazionale non può essere equiparato a quello di un ente locale, per restare nel settore pubblico.

Ma, se si considera che ci sono anche biblioteche gestite da privati, si scopre che ci sono differenze ancora più rilevanti. Ci sono enti che gestiscono biblioteche anche importanti, anche storicamente famose, che, non essendo né struttura dello Stato, né enti pubblici parastatali, né enti pubblici economici, né enti territoriali, né alcun altro soggetto che abbia una contrattazione collettiva di tipo pubblicistico, fanno riferimento, per avere un aggancio normativo che li metta al riparo dall'imputazione di arbitrio, a contratti collettivi del settore privato: ordinariamente al contratto per le aziende commerciali. Si prende cioè un contratto collettivo che non c'entrerebbe niente, e, siccome è un contratto collettivo che regola una generalità di rapporti molto diversi, lo si considera applicabile anche a questo rapporto, che altrimenti sarebbe senza regolamentazione collettiva.

Scatta allora anche quella considerazione su cui mi soffermavo in partenza: il fatto che per un tempo rilevante nell'ambito di una certa azienda si sia sistematicamente data applicazione ad un certo contratto lo rende vincolante. Ciò tante volte accade anche senza passare attraverso il ragionamento della protratta applicazione di fatto, perché nella stipulazione dei vari contratti individuali di lavoro si inserisce un riferimento al contratto collettivo. Per esempio, quando il singolo viene assunto, si scrive nella lettera di assunzione, che poi lui controfirma, che il suo rapporto di lavoro è regolato dal contratto collettivo stipulato, in data tale, dalla Confcommercio e dai sindacati dei lavoratori CGIL CISL e UIL dei dipendenti delle aziende commerciali. Allora è il rinvio al contratto collettivo contenuto nel contratto individuale che è determinante per individuare la normativa applicabile.

Va bene che le cose vadano così? O sarebbe meglio che andassero diversamente? Questo lo lascio dire a voi.

Io constato però una cosa, sulla quale penso che susciterò la vostra meditazione. Questo sistema, per cui non c'è un contratto collettivo dei bibliotecari, di nessun tipo, e si applicano ai soggetti che svolgono attività nelle biblioteche, contratti collettivi diversi, porta di fatto ad una cospicua disparità di trattamento fra lavoratori addetti alle stesse mansioni. Possiamo avere lavoratori che fanno esattamente le stesse cose, per esempio la schedatura, e, per il fatto di lavorare in una biblioteca piuttosto che in un'altra, hanno disparità di trattamento molto rilevanti.

Non è facile essere precisi quanto ad individuazione della retribuzione complessiva dei vari soggetti, perché la contrattazione collettiva è, ohimé, estremamente complicata. Nessun contratto collettivo dice: la retribuzione complessiva per questo tipo di mansioni è questa. C'è la retribuzione tabellare, ci sono gli incentivi per la produttività, ci sono le indennità correlate all'anzianità di servizio, ci sono le indennità di funzione, ci sono gli assegni ad personam, c'è un po' di tutto. Le componenti della retribuzione alcune volte sono soltanto due o tre, altre volte sono 10 o 15 componenti diverse, delle quali bisogna tener conto per capire qual'è alla fine il trattamento economico di un certo soggetto. Non è facile individuare tutte le componenti, ma vi debbo dire che, da quello che ho potuto capire esaminando la documentazione che mi sono procurato, ci sono delle disparità di trattamento veramente abnormi. Soggetti che svolgono esattamente le stesse mansioni hanno l'uno un certo stipendio complessivo, l'altro quasi il doppio: facendo le stesse cose, non un po' di più, ma quasi il doppio.

Va bene così? Lo lascio dire a voi, ve lo segnalo.

Ancora una volta non scendo sul piano delle opportunità, ma mi limito a fare delle considerazioni di carattere formale su quello che si potrebbe fare per modificare questa situazione, se la si consideri insoddisfacente. Si deve, a mio parere, adottare un diverso tipo di contrattazione collettiva. Non parlo di contrattazione collettiva di categorie merceologica, come è la maggior parte dei contratti collettivi dei lavoratori privati . Non parlo di questo. Penso invece ad un contratto collettivo che si attagli alla speciale situazione, che consideri le diverse mansioni esercitate in questo settore dell'attività (chiamiamola in ampio senso produttiva, perché è produzione anche quella che realizzano le biblioteche, seppur produzione intellettuale) ed individui le diverse mansioni individuali per il diverso trattamento, almeno per il trattamento base, almeno per il trattamento tabellare, proporzionato a quantità e qualità del lavoro, come esige la Costituzione. Perché (è sempre una considerazione di ordine giuridico formale, non di opportunità) il fatto che ci siano lavoratori che svolgono mansioni identiche ed hanno un trattamento economico enormemente differenziato non va d'accordo con l'art. 36 della Costituzione, che impone che ogni lavoratore abbia una retribuzione proporzionata a quantità e qualità del lavoro.

Vero è che, secondo l'interpretazione dominante, la garanzia costituzionale di cui all'articolo 36 è una garanzia del minimo. E' il minimo garantito quello a cui si riferisce l'articolo 36: quindi nulla vieta che ci sia qualcuno che abbia una retribuzione maggiore di quella che sarebbe proporzionata alla quantità e qualità del lavoro. Ma io ho il sospetto che il sistema attuale porti a ignorare l'articolo 36, perché ci sono coloro che percepiscono meno e hanno una retribuzione che non può considerarsi proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro. Mi fermo qui, ma avverto che mi tengo a disposizione per eventuali obiezioni, contestazioni, domande che mi vengano fatte.

Voglio solo soffermarmi un momento su altri problemi. Ho cominciato con la contrattazione collettiva, perché era la parte del mio discorso che mi sembrava richiedesse uno sviluppo maggiore. Ma, oltre ai contratti collettivi, ci sono anche le leggi da osservare, che non sempre sono osservate.

Ho sentito fare dei discorsi da chi ha parlato prima di me (purtroppo ne ho sentiti solo due, non ho sentito quello che hanno detto gli altri), che mi lasciano estremamente perplesso. Mi pare di avere capito che succede che un certo servizio venga fatto fare alla mattina dai lavoratori dipendenti e al pomeriggio da co.co.co (non è stata usata questa espressione, ma comunque si è parlato di soggetti che non sono lavoratori dipendenti). Un momento, fermiamoci a riflettere: non è conforme alla legge tutto questo. Anzitutto perchè, se fanno le stesse cose, uno dei due ha un trattamento giuridico diverso da quello che gli spetterebbe.

Avverto che la nostra giurisprudenza (ci sono decine di sentenze della Cassazione a sezioni unite sul punto) nega che nel rapporto di lavoro privato il datore di lavoro sia vincolato dal principio di eguaglianza. C'erano state precedenti sentenze della Cassazione a sezione semplice, all'inizio degli anni '90, che, adeguandosi alla motivazione di un'estemporanea sentenza di rigetto della Corte costituzionale, avevano detto che anche i datori di lavoro privati devono rispettare il principio di eguaglianza tra i dipendenti: a parità di mansioni non possono dare più a uno e meno ad un altro. Poi la Cassazione a sezioni unite ha detto di no, e cioè che l'autonomia privata permette anche un trattamento diseguale, fermo però per tutti il rispetto dell'articolo 36 della Costituzione (e ferma naturalmente la normativa antidiscriminatoria, della quale oggi non abbiamo il tempo di trattare). Cioè, se tutti hanno il minimo garantito dall'articolo 36, poi il datore di lavoro può anche dare un superminimo personale ad un dipendente, anche soltanto perché gli è simpatico. Un datore di lavoro privato si intende, un datore di lavoro pubblico no, perché il principio di parità di trattamento per i dipendenti pubblici è garantito oggi dal Testo unico per il pubblico impiego, articolo 45, comma 2, che è applicabile alla generalità dei rapporti alle dipendenze di enti pubblici.

Quindi, almeno per i dipendenti da enti pubblici, già il fatto di trattare come co.co.co coloro che svolgono al pomeriggio lavori che di mattina sono svolti da dipendenti non va bene.

Ma c'è un altro profilo di illiceità, che viene in considerazione anche se la biblioteca è di un privato. Non so se qualche volta succeda che il co.co.co prenda di più del lavoratore dipendente. Non lo so. Ma certamente sono molti i casi in cui il co.co.co prende molto meno di colui che è inquadrato come dipendente e fa le stesse cose. Allora, anzitutto, qual è il minimo corrispondente all'articolo 36 della Costituzione? E' quello di colui che percepisce di meno? Allora sotto questo profilo nulla quaestio. Ma potrebbe essere l'altro, e allora il trattamento che si da a quello che percepisce di meno è in violazione all'articolo 36. E (continua a parlare il giurista, non il moralista) violare l'articolo 36 significa che il lavoratore retribuito meno, non finché lavora perché teme di essere mandato via, ma quando se ne va, pianta una causa. In ogni caso, se c'è fittizia collaborazione coordinata e continuativa, e in realtà è un rapporto di lavoro, quel dipendente ha diritto al trattamento corrispondente al rapporto di lavoro relativo alle mansioni che esercita. Quindi le cose vanno lisce finché la questione non capita sul tavolo di un giudice, ma quando capita su un tavolo di un giudice, se così stanno le cose, le conseguenze sono inevitabili. Gli arretrati retributivi, la diversa contribuzione previdenziale, il trattamento di fine rapporto, gli interessi etc. etc.

Può darsi che invece l'autonomia non sia simulata, cioè che colui che lavora come co.co.co non faccia esattamente le cose che fa il lavoratore dipendente scambiandosi nell' orario con lui, ma faccia cose diverse, in posizione sostanzialmente autonoma, e quindi non possa considerarsi parte di un rapporto di lavoro.

Però, se anche così è, ci si deve preoccupare della normativa riguardante i contratti di lavoro a progetto, che è stata introdotta dalla riforma Biagi, cioè dal Decreto legislativo n. 276 del 2003, oggi già modificato da un Decreto correttivo approvato dal Consiglio dei ministri il 7 settembre u.s. e a tutt'oggi non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale.

Il lavoro continuativo e coordinato, in base alle nuove regole, inapplicabili solo nelle eccezioni espressamente indicate, è tale solo se si realizza in attuazione di uno specifico progetto o programma di lavoro approvato per iscritto all'atto della sottoscrizione del contratto. Allora, per escludere che si applichi la regolamentazione del lavoro subordinato, non basta dimostrare che il lavoratore non fa esattamente le stesse cose che fa un lavoratore dipendente, perché in realtà lavora con caratteristiche di autonomia. Ci deve essere il progetto, con tutti gli elementi indicati dall'art. 62 del Decreto. E deve essere un progetto reale, credibile. Se si tratta di distribuire i libri, quello non è un progetto, non può essere contenuto di un progetto la distribuzione dei libri, o la sorveglianza delle sale di lettura. Se è un progetto vero, va bene. Ma, se non è identificabile sostanzialmente come un progetto, non va bene, perché allora si applicherà la norma dell'articolo 69 della riforma Biagi, il quale dice: "i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell'articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto".

Teniamo dunque sempre presente che in questa materia ci muoviamo in un contesto normativo complesso. Non è sufficiente che le cose siano sempre andate in un certo modo, perché sia garantito che possano continuare all'infinito ad andare nello stesso modo. Anche le tangenti ai funzionari pubblici o ai politici erano una prassi largamente diffusa, ma ad un certo punto ci sono stati dei magistrati che hanno detto no; e abbiamo avuto una giurisprudenza su "tangentopoli" che ha cambiato la fisionomia politica del Paese. Quindi è una materia sulla quale si deve procedere con i piedi di piombo e controllare, non solo se le cose sono sempre andate in un certo modo, ma anche se il modo in cui vanno è in tutto corrispondente alle norme legislative vigenti.


Copyright AIB 2005-08-09, ultimo aggiornamento 2005-10-02 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
URL: https://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay15/suppiej04.htm


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