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"16. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
attività e passività culturali

Tavola rotonda
Ricchi e stupidi per quante generazioni?

Gian Bruno Ravenni, Responsabile dell'Area di coordinamento Cultura e Sport della Regione Toscana


Ho trovato di grande interesse l'intervento del Prof. De Michelis che mi ha preceduto e ne condivido le conclusioni. Vorrei pertanto provare a riprendere il suo ragionamento seguendo un percorso in qualche modo parallelo.
Potrà anche sembrare paradossale ma oramai, per effetto dell'abuso che quotidianamente se ne fa, le parole per parlare di beni culturali e di organizzazione della cultura, cominciano ad essere usurate. Mentre il numero degli addetti ai lavori, storici dell'arte, bibliotecari, archivisti, archeologi etc. si fa sempre più esiguo, aumenta straordinariamente quello di coloro che, da ogni possibile prospettiva e punto di vista, se ne occupano Se questi due movimenti non fossero perfettamente speculari, sarebbe altamente apprezzabile un'interesse così diffuso, uno dei principali difetti degli addetti ai lavori è infatti la irresistibile pulsione all'autoreferenzialità. In queste condizioni invece, lo straparlare di cultura contribuisce a far crescere il "rumore di fondo" evocato da Franco Fortini moltissimi anni fa, che rende difficile vedere lo stato reale delle cose e discuterne concretamente.
Non voglio dire con questo che tutto va male. Anzi, stando al Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1990-2000 [1], nel decennio considerato, non solo si è avuto "un aumento assoluto della spesa pubblica - statale, regionale, provinciale e comunale - per i beni culturali" ma, cosa forse ancora più importante, le politiche per i beni culturali, vengono giudicate in movimento "dai margini della scena delle politiche pubbliche verso il loro centro" (p.230). Non credo che le difficoltà della finanza pubblica nell'ultimo quinquennio siano state capaci di rovesciare questo quadro che, peraltro, contraddicendo molte suggestione giornalistiche, risulta, o perlomeno risultava, marcato da una chiara regressione dell'impegno finanziario dei privati rispetto al decennio precedente.
Probabilmente occorre uno sforzo per rimettere ordine nell'ordine del discorso e nel vocabolario.

La cosa più ovvia da fare, anche a costo di apparire degli ingenui romantici, è tornare alle parole fondanti della nostra convivenza, quelle della Costituzione della Repubblica Italiana. Vorrei citare due articoli della Costituzione, il secondo capoverso dell'Art. 3 e l'Art. 9:
Art. 3, 2° cap.: "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Art. 9: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione".
La promozione della cultura e delle ricerca, la tutela del patrimonio paesaggistico, storico e artistico, fanno dunque parte dei principi fondamentali del nostro ordinamento, sono correlati al diritto di cittadinanza e sono dunque valori fondativi della nostra democrazia.

Non so se dobbiamo considerare anche queste parole oramai usurate, principi di secondo livello rispetto a ben altre priorità, quella della crescita del PIL e dalla riduzione del debito. Sta di fatto che è oramai ampiamente acquisita fra coloro che si occupano dei processi di sviluppo, la rilevanza delle "condizioni ambientali" per la crescita e la stretta connessione fra crescita economica e sviluppo della democrazia, un nesso sostenuto dall'economista premio Nobel Amartya Sen. La mia regione, la Toscana, è stata indicata come una sorta di modello dal sociologo tedesco Ralf Dahrendorf per aver coniugato sviluppo economico, democrazia politica e coesione sociale. E' immaginabile coesione sociale senza sviluppo culturale e tutela del patrimonio?

C'è dunque un inevitabile relazione fra sviluppo della cultura e crescita economica. Il problema è che questa relazione funziona spesso in modo difforme rispetto alle finalità indicate dal dettato costituzionale. Nella pratica il patrimonio culturale viene tanto più considerato quanto più è possibile attivare, attraverso di esso, processi di valorizzazione economica e di produzione di reddito. Nella Costituzione la promozione della cultura e la tutela del patrimonio sono, invece, finalizzate alla promozione del "pieno sviluppo della persona umana" , al quale è correlato lo sviluppo della democrazia quale pre-condizione di uno sviluppo economico e sociale equilibrato. .

Nel nostro Paese, una parte rilevante dell'interesse e dei finanziamenti pubblici per il patrimonio sono in realtà motivati da prevalenti , e spesso inefficaci, intenzionalità di valorizzazione economica dei beni culturali attraverso le imprese che operano in settori con essi correlati, se non altro per vicinanza geografica, il turismo, l'agricoltura, la ristorazione, il settore immobiliare etc. Così le politiche culturali si configurano non come politiche "per la cultura", che abbiano la cultura e il patrimonio come finalità sufficienti a giustificarle, come auspicava molti anni fa Norberto Bobbio [2] ma come politiche per l'utilizzo del patrimonio culturale a vantaggio di specifici settori d'impresa. L'aspettativa di questa ricaduta è la condizione che giustifica una parte importante della spesa.. Con l'ulteriore conseguenza che in questi settori d'impresa si realizza il valore aggiunto che i beni culturali producono, mentre al settore pubblico restano i costi per la conservazione e gestione dei beni. Non ci sarebbe in ciò niente di male se, attraverso la fiscalità, il settore pubblico partecipasse proporzionalmente dei benefici che il patrimonio apporta a vari settori dell'impresa privata. Sappiamo bene che non è così e per questo, proprio mentre il patrimonio assume rilevanza crescente come fattore dell'economia, si riducono drasticamente le risorse per la sua tutela e per la sua valorizzazione a fini di promozione della cultura a causa della crisi della finanza pubblica. Così, nel discorso pubblico del nostro Paese, il patrimonio culturale si configura sempre più come un "giacimento", erroneamente considerato illimitato, che vale in quanto utilizzabile in un ruolo "servente" per la produzione di valore aggiunto in numerosi settori d'impresa. Sta qui, a mio parere, la sostanziale privatizzazione del patrimonio e non, come si è paventato in questi anni, nella vendita dei gioielli della corona. Nell'"era dell'accesso", non è più rilevante la differenza fra mercato del bene in sé e mercato della sua fruizione. I gioielli della corona hanno un costo di manutenzione alto e inevitabili vincoli d'uso, per questo è meglio lasciarli al settore pubblico.
Di questo rapporto difficile che il Paese intrattiene con i suoi beni culturali esistono numerose evidenze, dall'enorme squilibrio fra visitatori "residenti" e visitatori "turisti" dei musei, con l'effetto indotto che si vendono le guide in giapponese, non quelle in italiano, il disvalore che circonda le professioni e le discipline umanistiche e dei beni culturali, lo scarso numero dei lettori di libri e dei diplomati e laureati, che escono da una scuola e da una università in grave stato di crisi.
Oltretutto i settori che beneficiano più ampiamente del "capitale sociale" costituito dal patrimonio culturale non sono in prevalenza quelli più innovativi, e tecnologicamente avanzati, che utilizzano figure professionali con elevati livelli di formazione. Il patrimonio, la cui conservazione è in carico alla spesa pubblica, sostiene, in modo di gran lunga prevalente, piccole imprese familiari nel settore del turismo e delle attività ad esso correlate o la rendita immobiliare.

Credo che su questo terreno abbiamo troppo rapidamente archiviato, con condanna definitiva, l'esperienza dei cosiddetti, molto impropriamente, "giacimenti culturali", degli anni '80 e '90, progetti che puntavano sulla relazione beni culturali, imprese private, nuove tecnologie. L'esperienza fu certamente mal condotta e male utilizzata ma il problema resta. Non possiamo certo lasciare ad altri la produzione di contenuti digitali da veicolare in rete telematica e riservare a noi lo spazio dell'ospitalità e dei buoni vini. Per la Toscana si è parlato di una regione al bivio tra un modello di sviluppo "Florida", luogo per le vacanze e buen retiro per i ricchi pensionati americani ed un modello Baden-Wurttemberg, sistemi di piccole imprese all'avanguardia per tecnologie e capacità d'innovazione. Se facciamo solo buona ospitalità e buoni vini, che non sono certo cose da disprezzare, la scelta è fatta.

Va ripensato il rapporto fra patrimonio culturale e identità nazionale, tema su cui molto opportunamente insiste da tempo il Prof. Settis e sul quale vengono pubblicate eccellenti ricerche [3]. Un rapporto difficile non da oggi. Andrea Emiliani, sulla einaudiana Storia d'Italia, ricordava come quel rapporto fosse divenuto problematico già tra la fine del XVIII secolo e gli anni successivi all'Unità, con le soppressioni pre e, soprattutto, postunitarie e con la conseguente "deportazione" delle opere d'arte dai luoghi della vita quotidiana del popolo nei musei civici [4]. Probabilmente lo era già prima. Lo era diventato da quando il valore di mercato delle opere d'arte aveva cominciato ad essere più importante di quello "identitario", religioso o laico che fosse. E' proprio all'interno di questo passaggio che Emiliani leggeva nella formazione delle normative di tutela degli stati preunitari e, in primo luogo, nel celebre editto del Cardinale Pacca nello Stato della Chiesa della Restaurazione, il segno della rottura tra paese reale e i suoi beni culturali, destinata ad approfondirsi con le soppressioni risorgimentali. Alla formazione di norme di controllo statale sul mercato dei beni culturali avrebbero presieduto, in buona sostanza, preoccupazioni di tipo essenzialmente patrimoniale, che troveranno organica messa a punto, giuridica e organizzativa, nelle leggi Bottai del 1939. Il loro obiettivo non era sicuramente quello di promuovere "lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica".
In questo senso l'Art. 9 della Costituzione del 1948 rappresenta una innovazione sostanziale, in quanto non sono inserisce tra i principi fondamentali della Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, ma finalizza la tutela alla promozione dello sviluppo culturale e della ricerca scientifica e tecnica.
"I due commi dell'art. 9 Cost. - ha scritto un giurista, Sergio Foà - trovano un connotato unificante dal punto di vista teleologico: la tutela e la fruizione dei beni culturali......rappresentano un mezzo di progresso sociale e di elevazione culturale dei cittadini. Un'unica finalità, dunque, riconducibile al principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 2, 2° co., Cost." [5].

Forse è proprio la loro scarsa capacità di produrre ricadute economiche relativamente all'indotto sopra descritto, a costituire una buona chiave di lettura per capire le ragioni della posizione marginale che le biblioteche, e ancor più gli archivi, occupano, nella classifica dell'interesse pubblico e della visibilità, nonché dei finanziamenti. Eppure l'esperienza delle biblioteche avrebbe molto da insegnare, a partire dalle pratiche di cooperazione fra diversi livelli istituzionali. In nessun'altro settore esiste qualcosa di paragonabile a SBN e nessun'altro settore ha così profondamente messo al centro della propria riflessione e delle proprie pratiche il tema dei servizi all'utenza e dell'innovazione tecnologica quale strumento per renderli più efficaci. Le biblioteche pagano le storture di un sistema che non riesce a mettere a fuoco con chiarezza la propria missione e che, mancando di autonomia, subisce le spinte e le pressioni più diverse che, alla fine si traducono in gravi diseconomie.
Eppure, sebbene in un contesto tutt'altro che favorevole, le biblioteche non possono sottrarsi alla sfida della qualità dei servizi, all'impegno per conquistare nuovi utenti anche nelle fasce di popolazione più difficili da raggiungere, in contesti sempre più multiculturali. Mi piacerebbe che il tema dello sviluppo dei servizi, e non solo la qualità del catalogo, fosse al centro della discussione sull'evoluzione di SBN.

Il problema è della qualità dei servizi è fortemente connesso con un corretto approccio al tema della gratuità o meno dei servizi stessi. La questione non va ideologizzata: se la gratuità dei servizi deve significare bassa qualità ed un rapporto con gli utenti di tipo assistenziale, per cui l'utente è sostanzialmente privo di diritti in quanto "beneficiato", allora la gratuità non va bene. Non sto pensando certamente a mettere un biglietto d'ingresso alle biblioteche e far pagare la consultazione di un libro, ma quando i servizi diventano complessi e costosi da fornire, come un prestito interbibliotecario o la consultazione di certe banche dati, allora trovo inevitabile che si vada verso forme di contributo dell'utenza, in assenza del quale servizi costosi e complessi potrebbero essere forniti solo a gruppi ristretti di utenti. In un sistema maturo, la disponibilità degli utenti ad utilizzare una serie di servizi a pagamento è un buon indicatore della utilità e della qualità del servizio. Ciò che non possiamo mettere ulteriormente in carico agli utenti sono i costi di un sistema che non funziona e che spende male le risorse che gli vengono messe a disposizione.
Riportare al centro delle politiche bibliotecarie il tema della qualità dei servizi, dunque gli utenti, i cittadini, restituire ai cittadini l'immenso patrimonio culturale del nostro paese, facendone strumento di promozione della cultura e di formazione. E' questa credo la sfida che abbiamo davanti, la sfida dell'attuazione della carta costituzionale. Così facendo daremo certamente un forte contributo anche allo sviluppo di quella rilevantissima risorsa della nostra economia che è il turismo.

[1] Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1990-2000, a cura di Carla Bodo e Celestino Spada, Società editrice il Mulino, 2004
[2] Norberto Bobbio, Politica culturale e politica per la cultura, in, Politica e cultura, Einaudi, 1955.
[3] Come ad esempio quella di Simona Troilo, La patria e la memoria. Tutela e patrimonio culturale nell'Italia unita, Electa, 2005
[4] Andrea Emiliani, Musei e museologia, in, Storia d'Italia, i documenti, Einaudi, 1973
[5] Sergio Foà, La gestione dei beni culturali, G.Giappichelli Editore - Torino, 2001, p. 7


Copyright AIB 2006-09, ultimo aggiornamento 2006-10-04 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
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