«Bibliotime», anno IV, numero 3 (novembre 2001)


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Scienze impure



Se fosse possibile compendiare in tre parole i "temi caldi" della nostra professione, questi probabilmente potrebbero essere individuati nei termini - reti, cooperazione, biblioteche - che hanno dato il titolo al convegno tenutosi lo scorso febbraio ad Aviano per impulso della Sezione Friuli-Venezia Giulia dell'AIB (<https://www.aib.it/aib/sezioni/fvg/c010224.htm>), e di cui l'attuale numero di "Bibliotime" riporta la quasi totalità delle relazioni.

Ora, non è chi non vede che il terzo lemma è ben più di una "parola chiave", rappresentando da un lato il fondamento della nostra attività e la matrice stessa del nostro essere (bibliotecari), mentre dall'altro costitisce il collante, il tessuto connettivo che dà significato e vigore a qualsiasi vocabolo venga ad esso associato.

E tuttavia, da ormai molti anni l'attributo che più frequentemente si accosta al nostro termine d'elezione è senz'altro quello di "digitale", e l'endiadi ha dato vita (anche su queste pagine e colonne "virtuali") ad una pluralità di interventi che hanno alimentato un dibattito di estremo interesse per la nostra professione. Per contro, ciò che sembra essere mancato è stato un chiaro approfondimento disciplinare e teoretico su una realtà - quella della "biblioteconomia digitale" - che in altri contesti geografici si sta affermando come la branca forse più significativa dell'intero campo della library and information science [1].

Sono evidenti le difficoltà a cui un tale discorso può dare adito, e in questa sede non vogliamo neppure accennarle; dell'innovativo tema della biblioteca e dell'informazione digitale ci piace invece sottolineare alcune peculiarietà "di confine", che si situano cioè a cavaliere fra diversi ambiti disciplinari e che fanno riferimento a differenti approcci metodologici, nella speranza che possano fornirci - anche soltanto en passant - punti di vista insoliti ed originali.

E il primo spunto lo fornisce Kevin McGarry [2] il quale, rifacendosi a una affermazione del filosofo Richard Dawkins [3], rileva come la prima e più importante fra tutte le biblioteche, quella che contiene le informazioni vitali per l'esistenza, e cioè il codice genentico presente nel DNA, sia già nativamente digitale, dal momento che "ciascun nucleo cellulare di animali o piante comprende un database digitalmente codificato che, nel suo contenuto informativo, è maggiore di tutti e trenta i volumi dell'Encyclopaedia Britannica, e questo per una sola cellula, non per tutte le cellule di un organismo messe insieme". Si tratta di una visione che, se spinta alle sue logiche conseguenze, è in grado di rappresentare (in maniera neanche tanto simbolica) l'alfa e l'omega della catena informativa, dalle sue prime origini naturali e biologiche al suo estremo compimento gnoseologico e culturale, dando realizzazione - attraverso le strutture e gli strumenti a ciò deputati - all'obiettivo di tradurre l'informazione in conoscenza [4].

Se facciamo invece un percorso a ritroso ed esaminiamo l'altra dimensione fondativa, essenziale per qualsiasi realtà documentaria, ossia quella della conservazione [5], notiamo con Pietro Rossi che l'esigenza di preservare, salvaguardare e trasmettere le conoscenze "antecede non soltanto il sorgere delle società umane, ma anche l'esistenza di una cultura a livello animale", se è vero che "già l'evoluzione biologica può venir considerata come un processo di conservazione e di trasmissione, affidato ai geni e alla loro capacità di sopravvivere e di diffondersi" [6].

Ci pare evidente che prospettive siffatte - che traggono origine da discipline quali la biologia, l'antropologia, la genetica - non solo spostano il focus del discorso da un ambito strettamente professionale e tecnico ad uno più latamente culturale, ma obbligano a rivedere la collocazione disciplinare della biblioteconomia e della scienza dell'informazione: difatti, se da un lato esse non possono più appartenere a una generica "classe 0" (o, se si preferisce, alle vecchie e altrettanto ambigue "scienze ausiliarie"), dall'altro riluttano a figurare nel più vasto ambito delle scienze sociali, dove una corposa corrente di matrice anglosassone ritiene vadano incluse. E' allora plausibile immaginare che per la LIS si possa aprire una strada per così dire "impura", più indefinita perché decisamente interdisciplinare? E' possibile di conseguenza che il mutamento di paradigma su cui si è così a lungo discusso non interessi soltanto le biblioteche, la loro immagine e la loro capacità di operare nel rinnovato contesto digitale, ma che incida in profondità sulle radici epistemologiche delle sue discipline di riferimento?

Ancora una volta, le risposte possono essere molteplici e diversificate, e richiedono un supplemento d'indagine capace di diradare le nebbie che da troppo tempo indugiano sulla nostra realtà disciplinare: in ciò confidando che anche i contributi ospitati nel presente numero di "Bibliotime" rappresentino una proficua occasione di approfondimento e di dibattito.


Michele Santoro


Note

[1] Cfr. fra l'altro Péter Jacsň, What is digital librarianship?, "Computers in Libraries", 20 (2000) 1, p. 54-55.

[2] Kevin McGarry, The changing context of information. An introductory analysis, second edition. London, Library Association Publishing, 1993, p. 29.

[3] Richard Dawkins, L'orologiaio cieco. Milano, Rizzoli, 1988.

[4] Si veda al riguardo quanto esposto in Digitale e vecchi cammelli, "Bibliotime", 4 (2001) 2, <http://www.spbo.unibo.it/bibliotime/num-iv-2/editoria.htm>, in particolare alla nota 3.

[5] Sul tema ci permettiamo di rinviare al nostro Dall'analogico al digitale: la conservazione dei supporti non cartacei. "Biblioteche oggi", 19 (2001) 2, p. 52-64.

[6] Pietro Rossi, Prefazione a La memoria del sapere. Forme di conservazione e strutture organizzative dall'antichità a oggi, a cura di Pietro Rossi, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. V-VI.



«Bibliotime», anno IV, numero 3 (novembre 2001)


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